The Forty-Year-Old Version di Radha Blank, commedia, Usa 2020, multipremiato, miglior regia al Sundance, Netflix, voto: 7,5; film inizialmente decisamente criptico per chi non comprende le dinamiche e le problematiche o meglio le tragedie degli afroamericani persino in una città multiculturale e liberal come New York. Poi emerge con chiarezza come siano costretti a vendersi per avere quel minimo di successo ai bianchi liberal, che ne sfruttano la tragedia per coprire con una foglia di fico la tragica realtà delle condizioni di vita degli afro discendenti persino a New York. Molto significativa la lotta della protagonista di poter offrire una rappresentazione realista delle condizioni di vita degli afro americani newyorkesi, di contro al politically correct che pretenderebbe imporgli l’industria culturale radical-chic.
Mulholland Drive di David Lynch, drammatico, Francia, Usa 2001, nomination all’Oscar e premio miglior regia al festival di Cannes, voto: 7; uno dei più riusciti film di Lynch, un regista che non a caso si è imposto negli anni in cui gli Stati Uniti erano divenuti l’unica potenza internazionale. Come avviene esemplarmente in questo film, Lynch appare in grado di tenere insieme la tendenza intellettualistica del cinema d’autore europeo con l’esigenza di garantire un certo godimento estetico necessario all’industria culturale a stelle e strisce. Per quanto fuori tempo massimo, il film si inscrive nelle opere “grandi borghesi” della crisi del novecento che non riescono a riprodurre che squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica. Dunque, pur esprimendo la crisi di un mondo giunto al suo tramonto, Mulholland Drive non è in grado di indicare nessuna prospettiva di superamento. Non a caso tale film è osannato dalla critica cinefila, al punto da considerarlo il migliore film del ventunesimo secolo.
State a casa di Roan Johnson, commedia, Italia 2021, distribuito da Vision Distribution nel luglio 2021, voto: 6,5; film italiano senza pretese, fatto con un budget minimo in piena pandemia, risulta decisamente migliore rispetto alle critiche che lo hanno snobbato. Il film riesce a tenere bene insieme l’aspetto della commedia e quello della tragedia, ci presenta dei personaggio realistici e procura un inaspettato godimento estetico, lasciando al contempo qualcosa sui cui riflettere allo spettatore. Rispetto a tanto cinema italiano che ama rimestare nel torbido, il film rappresenta un sano esempio di discreta commedia nera.
Rebellion, miniserie tv irlandese del 2016, in cinque episodi, disponibile su Netflix; voto: 5,5; Rebellion narra uno dei momenti salienti della lotta di liberazione nazionale antimperialista dell’Irlanda, ovvero la grande rivolta armata del 1916 che, sebbene sconfitta, aprirà la strada alla conquista dell’indipendenza di buona parte dell’isola a eccezione dell’Irlanda del Nord, ancora oggi sotto il dominio del Regno Unito. L’impostazione della serie è genuinamente realistica e i personaggi descritti sono indubbiamente tipici. La guerra per il diritto del popolo irlandese all’autodeterminazione si interseca con la decisiva lotta di classe, per la conquista di una società socialista.
Purtroppo nel terzo episodio questa ottima impostazione va in gran parte perduta, le vicende dei singoli personaggi divengono sempre più sconclusionate e irrealistiche tanto da lasciare piuttosto isolato e sullo sfondo il grande momento tragico e storico che stavano vivendo. Purtroppo anche negli ultimi due episodi rimane la stridente contraddizione fra uno sfondo storico di sicuro interesse e dei personaggi che lo dovrebbero far rivivere del tutto inadeguati. A tal proposito pesa l’attuale situazione di arretratezza ideologica dell’Irlanda e le evidenti carenze, innanzitutto, nella sceneggiatura.
Bridgerton è una serie televisiva statunitense creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes, basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell’alta società londinese durante la Reggenza inglese. La serie ha debuttato il 25 dicembre 2020 su Netflix. La serie ha ottenuto 2 candidature a Satellite Awards, 2 candidature a Sag Awards, 1 candidatura a Directors Guild, 1 candidatura a Cdg Awards, 1 candidatura a Producers Guild. La serie è stato premiata agli Afi Awards come miglior programma televisivo dell’anno, voto: 5+; l’episodio pilota mostra, da subito, l’abisso che separa questa merce preconfezionata in modo mirabile dall’industria culturale e un autentico capolavoro come Guerra e pace. Per quanto irriverente per il grande capolavoro della letteratura mondiale, il paragone viene spontaneo in quanto gli eventi narrati sono raccontati in un comune arco temporale, ma in modo specularmente opposto. Mentre Guerra e pace è un immortale affresco storico di un passaggio estremamente importante della storia umana, la serie statunitense è tutta incentrata sulle storie passionali individuali prive di qualsiasi valore sostanziale, se non qualche rapsodica denuncia della condizione di oppressione della donna. Inoltre, appare quantomeno discutibile la scelta di utilizzare afro discendenti per raffigurare nobili inglesi dell’epoca. In tal modo, si tende a far scomparire lo spaventoso razzismo che gli afro discendenti hanno subito e, spesso, continuano a soffrire da parte del mondo “civile” liberal-democratico. Inoltre i personaggi afro americani debbono far scomparire ogni loro peculiarità dovendo gli attori impersonarsi completamente nei personaggi dell’aristocrazia britannica che mettono in scena.
Per quanto anche nel secondo episodio si tagli del tutto fuori il mondo storico, politico economico e sociale e naturalmente i conflitti di classe, per quanto si tenda quasi a naturalizzare il mondo aristocratico, vi è un significativo quadro del livello di schiavitù domestica della donna anche ai più alti livelli della società, con qualche accenno alla volontà di emancipazione. Peraltro, per quanto di fatto priva di elementi sostanziali e, pertanto, sebbene la serie lasci ben poco di significativo su cui riflettere allo spettatore, il prodotto è confezionato a regola d’arte e non nega al pubblico un certo godimento estetico. Per quanto discutibile l’inserimento di personaggi afro discendenti ai massimi livelli della società ha anche una istruttiva funzione straniante.
Nel terzo episodio si conferma la scelta reazionaria di escludere completamente il mondo storico, politico ed economico e sociale, dal presunto “mondo incantato” dell’alta nobiltà, peraltro in quest’epoca in particolare tutta dedita a smodati eccessi. Naturalmente è segno dei tempi questo interesse delle masse, ridotte a plebe, per questa forma di oppio per il popolo. Va però riconosciuto che si tratta di merce dell’industria culturale decisamente ben confezionata e con qualche riferimento al tema dell’emancipazione femminile.
La serie si riscatta parzialmente insistendo sul sano buon senso umano, la concretezza, l’assennatezza e la volontà di emancipazione delle donne, che si dimostrano decisamente più libere rispetto alle bizantine etichette della società aristocratica degli uomini.
Di certo non è facile per noi filo giacobini e sanculotti continuare ad assistere a questa apologia dell’aristocrazia, senza il grande sfondo storico che dava sostanza alla narrazione di Tolstoj. D’altra parte occorre sempre tenere a mente la differenza fra il giudizio estetico disinteressato e quello politico, etico e morale. Resta però che l’arte deve essere manifestazione sensibile del soprasensibile e, dunque, il suo contenuto deve essere necessariamente all’altezza della forma. Qui abbiamo una forma decisamente molto curata e ammaliante e un contenuto decisamente figlio dei tempi davvero oscuri che stiamo vivendo, con tanto del ruolo di protagonista affidato a un grande proprietario assenteista che, nel momento in cui ritrova il proprio interesse nelle sue proprietà, pensa a una ristrutturazione in senso capitalista, senza il minimo rimorso per la tragica sorte che ciò comporterà per i contadini.
La serie scade sempre di più, in quanto incentrata sugli assurdi amori romantici e gli altrettanto assurdi punti d’onore dell’aristocrazia. Per cui la vicenda si incentra sulla demenziale vicenda di una coppia di duchi in cui il marito pretende di non avere figli, per una promessa fatta al padre da tempo morto, di non assicurargli una discendenza. Promessa che è a sua volta “fondata” su un’altra assurdità, per cui il padre aristocratico sarebbe stato unicamente interessato alla continuazione della casata e per nulla alla moglie e all’unico figlio. Senza contare che tale casata ha un’origine ancora più assurdamente inverosimile, ossia il re d’Inghilterra che a inizio ottocento si sarebbe innamorato di una afro discendente, tanto da sposarla e promuovere ad aristocratici altri afro discendenti. Nell’ultimo episodio, infine, l’amore romantico finisce per prevalere – il più delle volte – sugli arcaici pregiudizi aristocratici.
Dune di Denis Villeneuve, vincitore per la migliore regia al Toronto International Film Festival, voto: 5; film assurdamente sopravvalutato; nonostante l’enorme budget a disposizione, viene realizzato un prodotto dell’industria culturale alquanto mediocre, tanto più che si trattava di un evento attesissimo da pubblico e critica. In realtà già il plot di per sé ha veramente poco di significativo da comunicare e lascia altrettanto poco su cui riflettere allo spettatore. Anche il godimento estetico è compromesso dalla lunga durata di un film, quanto mai noioso. Tanto più che, come ormai di consueto, spicca l’assoluta mancanza di immaginazione e di principio speranza e spirito dell’utopia, per cui pare che non si possa che immaginare un futuro distopico in cui, nonostante lo sviluppo tecnologico, si regredisce a una società sostanzialmente medievale. Ancora più intollerabili sono gli aspetti della riproposizione, non in chiave ironica, di una religiosità talmente primitiva da pensare il messia come il prodotto di una secolare operazione di ingegneria genetica.
Petite maman di Céline Sciamma, drammatico, Francia 2021, distribuzione Teodora Film ottobre 2021, vincitore del premio miglior film Alice nella Città 2021 al festival di Roma, voto: 4; ennesimo film assurdamente sopravvalutato, di impronta minimal-qualunquista, che non ha nulla di sostanziale su cui far riflettere lo spettatore, né è in grado di offrire un soddisfacente godimento estetico.