Squid Game 1x9 di Hwang Dong-hyuk, serie tv di azione, avventura e drammatica, Corea del Sud 2021, distribuita da Netflix, voto: 7; serie indubbiamente ben costruita e avvincente. Pur riprendendo un'idea di fondo già vista in altri film, la sviluppa in modo relativamente originale. Vi sono una serie di individui che si sono colpevolmente indebitati e che vivono una vita infernale, tanto da lasciarsi convincere a partecipare a un gioco al massacro, per soddisfare il desiderio di reality ultraviolenti di una élite. Inizialmente ignari del rischio di perdere la vita nel caso in cui fossero eliminati dal gioco, in un primo momento sfruttano la “democratica” possibilità che gli è lasciata di interrompere, a maggioranza, il gioco al massacro. D’altra parte non vi è una reale alternativa, se non tornare in una dimensione infernale della vita reale che non sembra lasciare possibilità di scampo. Sullo sfondo della serie vi sono una serie di elementi sostanziali, dalla critica alla ludopatia, alla critica al voyeurismo estremo, dalla critica alla speculazione, alla critica a una società sempre più dominata da una spietata concorrenza, che finisce per portare gli uomini a comportarsi come dei lupi verso i propri simili. Peccato che si tenda a idealizzare, come perfette vittime, i profughi dalla Repubblica Democratica Popolare di Corea, a ulteriore dimostrazione dei pregiudizi di matrice imperialista ancora largamente diffusi anche fra gli intellettuali della sedicente Corea del Sud.
Il grande successo della serie è certamente dovuto al fatto che sembra rispettare tutte le indicazioni della Poetica aristotelica, dall’unità d’azione, alla verosimiglianza delle vicende narrate, alla medietà dei personaggi rappresentati: né troppo cattivi, né troppo buoni e perciò universalizzabili. In tal modo lo spettatore è portato a identificarsi con loro, ma anche a osservare da una prospettiva distaccata quella pietà e quel terrore che le vicende tragiche dei caratteri messi in scena inevitabilmente producono. D’altra parte il rischio evidente è quello di coinvolgere lo spettatore proprio nel voyeurismo sadico che si pretenderebbe denunciare, rendendolo in qualche modo complice dello scempio che è messo in atto.
Il terzo episodio conferma il giudizio formulato al momento per la serie, ossia non si capiscono né le ragioni di chi la esalta, né le ragioni di chi la critica aspramente. La serie resta avvincente, può vantare un significativo scavo psicologico dei personaggi, è una valida metafora della società civile borghese dove domina il principio mors tua vita mea. D’altra parte resta il bieco anticomunismo e lo sfruttare, in modo piuttosto cinico, il voyeurismo sadico di una parte non indifferente di spettatori.
Nel quarto episodio si può constatare come la guerra fra poveri sia funzionale al dominio dei più ricchi, che per tale motivo fanno di tutto per aizzarla. Si vede anche bene come nella società capitalista l’unico dio resta il denaro, a cui l’uomo può sacrificare ogni cosa. Significativo anche il modo in cui è rappresentato il sottoproletariato malavitoso, che diviene uno strumento repressivo al servizio dell’oligarchia. Interessante, ma al contempo discutibile, individuare la possibile alternativa in un sottoproletario lavoratore, che riesce a mantenersi umano anche quando tende a riaffermarsi la mera legge della giungla. Ancora più discutibile è il prendere come eroe un guardiano dell’ordine costituito e una donna fiera del suo anticomunismo.
Nel quinto episodio emergono un terribile traffico degli organi dei concorrenti morti, la presenza di vip a godersi lo spettacolo sadico dei gladiatori del terzo millennio e un passato da operaio metalmeccanico del protagonista. Così il suo precipitare nel sottoproletariato viene spiegato per un improvviso licenziamento collettivo dell’impresa, che lo avrebbe lasciato pieno di debiti proprio nel momento in cui gli era nata la prima bambina. Emerge inoltre il sanguinoso scontro con la polizia a seguito dell’occupazione della fabbrica, in cui un operaio amico del protagonista cade colpito a morte dalle guardie, mentre lottavano sulle barricate. In tal modo emerge, almeno sullo sfondo, l’importanza del conflitto sociale e di classe, generalmente del tutto omesso nei prodotti dell’industria culturale. Altro aspetto interessante è l’emergere, pur nel conclamato cinismo spietato del neoliberismo, di una “eticità” paradossale di quest’ultimo fondata sull’equità di dare a tutti le stesse chances (di morire, a meno di non essere l’unico vincitore sopravvissuto) e di lasciare il diritto di voto a maggioranza, come possibile via di uscita dal sanguinario gioco. Peccato che questi aspetti significativi tendano a rimanere sullo sfondo rispetto all’ambigua rappresentazione dei giochi sadici, per quanto anche qui vi sia un tentativo di mantenersi nel politically correct, per cui nella squadra del protagonista troviamo due donne, di cui una immigrata, un anziano e un immigrato sfruttato e non pagato dal padrone. Significativo il dialogo in cui la fuggitiva dalla Repubblica Democratica di Corea dimostra non saper più rispondere dinanzi al quesito: in quale delle due Coree si viva meglio?
Nel sesto episodio emerge più chiaramente il vero animo delle dramatis personae. Si va dalla spietatezza del fascista e dello speculatore finanziario, all’umanità e ingenuità del povero immigrato, alla saggezza e dignità dell’anziano, all’umanità dell’operaio licenziato e della giovane sottoproletaria. Nel settimo episodio emergono i vip, per il godimento dei quali tutto questo terribile spettacolo, degno della decadenza dell’impero romano, viene orchestrato.
Nel settimo episodio appare sempre più evidente la contrapposizione di classe fra disperati giocatori e sadici guardiani e vip, e nello scontro finale la resa dei conti fra l’operaio licenziato e lo speculatore. Purtroppo questi aspetti preziosi, che richiamano il conflitto sociale, sono in parte oscurati dall’eroe poliziotto e dall’eroina esule dalla Repubblica Democratica di Corea. L’ultimo episodio e, più in generale la conclusione, lascia molto a desiderare. Rimane la superiorità morale del proletario sullo speculatore, ma per il resto la tragedia appare priva di una catarsi dignitosa. La serie resta sotto diversi aspetti incompiuta e, quindi, carente, anche perché si è deciso all’ultimo momento di non condurla alla naturale conclusione, ma di sfruttarne il successo per programmare una seconda stagione.
The politician 1x8 è una serie televisiva statunitense creata e prodotta da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan, distribuita da Netflix, voto: 6+. L’episodio pilota, al solito molto intrigante, lancia una serie iperrealista che denuncia lo spietato e cinico arrivismo che domina la società civile negli attuali Stati Uniti d’America. In tale contesto la verità si svuota di significato dal momento che ciò che conta sono esclusivamente le apparenze. Al solito manca, però, del tutto la prospettiva che vi possa essere fra i giovani – che appaiono i più dominati da tale logica iper individualista – anche un solo personaggio che rompa con un ambito in cui le piccole ambizioni individualiste hanno completo agio sulle grandi ambizioni collettiviste. Si finisce così, magari involontariamente, per naturalizzare tale società, dove dominano la volontà di potenza, il darwinismo sociale e la società della giungla, quasi che un altro mondo non sia più che mai necessario.
Nel secondo episodio si esaspera ulteriormente il completo rovesciamento fra realtà e apparenza, al punto che la maggior parte dei personaggi finiscono per il ritenere decisamente preferibile una finzione ben congeniata alla ricerca di una verità, che appare il più delle volte amara e inaccettabile. Tale impostazione sofistica è a tal punto dominante che persino il personaggio principale – un arrivista pieno di soldi che cerca in ogni modo e a qualsiasi prezzo di divenire presidente degli Stati Uniti – finisce, paradossalmente, per apparire meno peggio rispetto al livello ancora più basso e meschino degli altri personaggi che lo circondano. L’aspetto peggiore della serie pare proprio questo, ovvero cercare di naturalizzare l’esistente, facendo apparire il meno peggio l’unica opzione realmente possibile e desiderabile.
La serie assume sempre più la forma di un’apologia indiretta del “cinismo da cretini” di cui tutta la popolazione statunitense pare essere affetta. Come si suol dire, male comune mezzo gaudio, in particolare per i più ricchi che, in un mondo in cui vige il principio dell’homo homini lupus – ossia un principio tanto negativo da rendere positivo persino l’assolutismo – avendo più mezzi hanno maggiori possibilità di imporsi in questo darwinismo sociale che non premia i più capaci (a adattarsi), ma chi parte, per essere membro di una famiglia abbiente e intellettuale, con un notevole vantaggio rispetto agli altri.
Nel quarto episodio abbiamo l’ormai consueta ripresa e attualizzazione del grande romanzo anglosassone stile Vanity Fair. Naturalmente viene messa a nudo e denunciata nei termini più radicali la spaventosa ipocrisia che domina fra le classi dominanti e si estende anche a una parte significativa delle classi dominate. Il problema è che i personaggi non negativi e non compiutamente travolti da cinismo e ipocrisia sono personaggi delle classi dominate che, in quanto tali, non sono presi sul serio, per la loro infantile ingenuità, a causa di un’attitudine degli autori da nipotini di padre Bresciani.
Il quarto episodio rappresenta una decisa caduta di tono essendo realizzato unicamente per allungare, rendendolo più insipido, il brodo. L’episodio è un inutile detour, gratuito e pesantemente ripetitivo. Peraltro l’episodio contribuisce a rendere ancora meno realista e appassionante una sfida elettorale, combattuta all’ultimo sangue, per eleggere un mero rappresentante degli studenti.
La serie continua a perdere sempre più drammaticamente quota con un episodio in cui si sviluppa un ulteriore detour, almeno apparentemente ancora più gratuito del precedente. Peraltro nell’episodio emerge la cattiveria assoluta di una serie di personaggi – guarda caso tutti appartenenti alle classi subalterne – del tutto inverosimile e, anch’essa, decisamente gratuita. Il tutto rende alquanto noiosa la puntata e fa sorgere il dubbio se abbia ancora senso seguire una serie del genere, di cui, peraltro, è già stata realizzata la seconda stagione.
Con la seconda parte del settimo episodio la serie torna a sviluppare il proprio filone principale, ovvero la denuncia del cinismo della società contemporanea, che finisce però con assolvere sostanzialmente il politicante, in quanto se così fan tutti, lui almeno lo fa con un obiettivo ben preciso e con un fine apparentemente elevato. In tal modo, però, si rischia il rovescismo del rivalutare, nell’ottica del meno peggio, anche il politicante più assetato di potere.
L’ultimo episodio è funzionale a lanciare la seconda serie. Abbiamo di nuovo la politica a stelle e strisce in tutto il suo squallore, che però continua a essere, per quanto paradossale possa apparire, l’unico obiettivo per dare un senso alla propria esistenza per diversi giovani americani. In mancanza di grandi ambizioni, persino l’arrivismo sfrenato delle piccole può sembrare qualcosa di sostanziale su cui impegnarsi. Alla fine non si sa se piangere o ridere.