Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin, drammatico, storico, thriller, Usa 2020, disponibile su Netflix, voto: 8; buon film storico sul movimento di lotta antimperialista statunitense alla sbarra per la contestazione al Congresso del Partito democratico del 1969. Il film, per quanto formalmente non entusiasmante, è indubbiamente significativo per il suo contenuto di decisa critica alle forze reazionarie statunitensi e a sostegno dei movimenti di lotta che avevano raggiunto allora il loro massimo sviluppo. Interessante anche in quanto analizza le varie anime del movimento e i rapporti dialettici fra di esse. Il film è decisamente coinvolgente e lascia parecchio su cui riflettere al pubblico. Il processo ai 7 di Chicago prende coraggiosamente le parti dei movimenti sociali e si schiera contro le istituzioni dello Stato imperialista. È di fatto impossibile trovare un film equivalente sul movimento di lotta in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta, in un’epoca di restaurazione liberista come la nostra.
Il Concorso – Misbehaviour di Philippa Lowthorpe, Gran Bretagna 2020, voto: 7,5; discreto film sulla lotta per l’emancipazione della donna che si incrocia, all’inizio degli anni Settanta, con la lotta per l’emancipazione dei popoli soggetti in maniera diretta o indiretta all’apartheid. I film sull’importanza storica delle lotte per l’emancipazione sono generalmente in grado di coinvolgere emotivamente, lasciando al contempo alquanto da riflettere allo spettatore. Piuttosto discutibile il passaggio della protagonista dalla decisamente più avanzata lotta per l’emancipazione dallo sfruttamento della donna lavoratrice al movimento femminista.
Sfida al presidente – T he Comey Rule di Billy Ray, miniserie in due episodi, Usa 2020, voto: 7+; selezionato, una volta tanto a ragione, fra i migliori film tv, la pellicola è un’ottima denuncia della pericolosità di un presidente della destra radicale come Trump, in quanto riesce a far passare quasi come degli eroi persino i repubblicani a capo del Fbi. Interessante anche vedere come la classe dominante statunitense sia disponibile, pur di non mettere in discussione i suoi irrazionali privilegi, a coprire un presidente della destra radicale giunto al governo in modo decisamente truffaldino. Da notare come gli statunitensi lascino il postmoderno agli universitari pseudo di sinistra e realizzino dei film ispirati a un realismo ingenuo, ma decisamente meno ideologicamente intollerabile.
Resistance – La voce del silenzio di Jonathan Jakubowicz, biografico e drammatico, Usa 2020, voto: 7; buon film, interessante e avvincente, sull’impegno nella resistenza al nazifascismo del grande mimo Marcel Marceau. Il film riesce a essere godibile dal punto di vista estetico e a lasciare non poco da riflettere allo spettatore. Al centro del film vi sono la condanna dell’antisemitismo, del fascismo, del collaborazionismo e una sacrosanta apologia della resistenza. Peccato che si occulti il fatto che Marceau e i suoi congiunti militino in una formazione partigiana comunista, dando a intendere che fossero al contrario gaullisti. Piuttosto discutibile è anche il passaggio del film sulla scelta non-violenta del mimo, ossia sulla decisione di dare la priorità a salvare la vita dei bambini piuttosto che a combattere il nazifascismo. Nonostante questi limiti, il film si distingue decisamente nel mediocre panorama di questi anni di restaurazione liberista.
L'anno che verrà di Mehdi Idir, Grand Corps Malade, commedia, drammatico, Francia 2019, voto: 6,5; ennesimo film significativo francese che, con piglio realista, si interroga sulle problematiche della banlieu francese a partire dal contesto scolastico. Peraltro, le pellicole sulle problematiche dell’istruzione nel contesto delle periferie sono divenuti un vero e proprio filone cinematografico in Francia. Nel caso specifico il film mira un po’ troppo a rispecchiare fedelmente un contesto così problematico dallo scadere nel naturalismo, finendo con il rimanere un po’ alla superficie delle problematiche affrontate, senza porre al centro dell’opera una questione realmente sostanziale che rinforzi un plot, che finisce così con l’apparire non adeguatamente sviluppato.
Paradise Hills di Alice Waddington, fantasy, fantascienza e thriller, Spagna e Usa 2019, voto 6+; film pieno di spunti significativi e di promesse di sviscerare tematiche sostanziali. Tuttavia, nonostante tutte le buone intenzioni, le soluzioni individuate lasciano con l’amaro in bocca, per l’inconsistenza di pensare di poter superare le grandi clausole di esclusione della società liberale borghese – ovvero la questione del proletariato e della schiavitù domestica della donna – in modo semplicisticamente individualistico e violento. Resta inoltre il consueto limite di riuscire a immaginare un futuro soltanto in senso distopico, cogliendo esclusivamente i terribili rischi cui può portare la progressiva putrefazione del modo di produzione capitalista, senza avere la forza e il coraggio di immaginare una possibile e realistica via di uscita in senso progressista, ovvero socialista.
Vulnerabili di Gilles Bourdos, drammatico, Francia e Belgio 2017, voto 6; film ben costruito sulle crescenti difficoltà che l’individualismo dominante nella società capitalista provoca nei rapporti familiari e di coppia. Peccato che non emergano praticamente mai i motivi sociali ed economici di tali drammi familiari. In tal modo, sono escluse a priori possibili soluzioni, una qualche catarsi o quantomeno una prospettiva di superamento. Il dramma storico e sociale finisce così per essere naturalizzato. Per cui il finale non può che deludere lo spettatore.
Gamberetti per tutti di Maxime Govare e Cédric Le Gallo, commedia, Francia 2019, voto: 6-; commedia francese, tratta da una storia vera, contro l’omofobia e per la valorizzazione della differenza. Film dai forse troppi luoghi comuni ed eccessiva insistenza sul politicamente corretto che ne fanno una pellicola sostanzialmente disimpegnata nella lotta per l’emancipazione delle minoranze sessuali. Al punto che per convincere i demotivati compagni di squadra a partecipare ai giochi gay, uno di loro li minaccia di portarli in visita a un campo di concentramento in cui erano stati rinchiusi anche gli omosessuali.
Non odiare di Mauro Mancini, drammatico, Italia e Polonia 2020, voto: 6-; il film parte da un fatto di cronaca che sottende una questione sostanziale. Vi è un incidente, un uomo rischia la vita, un medico che si trovava per caso da quelle parti a fare sport lo soccorre dopo aver chiamato il pronto soccorso. Sebbene non in servizio, il medico interviene prontamente, salvo poi abbandonare il paziente al suo destino nel momento in cui comprende che l’uomo in fin di vita è un fanatico nazista. D’altra parte viene a sapere da un giornale che il nazista era anche un padre di famiglia e che lascia orfano un bambino. Preso dai sensi di colpa, il medico ebreo decide di aiutare la famiglia orfana del padre e della madre. A tale scopo assume la figlia, in cerca di lavoro per sostenere i due fratelli più piccoli. Per realizzare tale opera di compensazione deve però licenziare senza motivo e senza preavviso la propria assistente domestica. Per motivi incomprensibili il ricco medico si innamora della giovane ragazza di periferia, piena di pregiudizi, al punto di aiutarla a mettere in salvo dalla giustizia il giovane fratello nazista, colpevole di omicidio premeditato nei confronti di uno strozzino. Mentre al contempo sostiene di non aver perdonato al padre, rinchiuso in un campo di concentramento, di essersi salvato la vita curando i denti ai nazisti. Dunque, partendo da una questione complessa e contraddittoria, il film si sviluppa in modo sempre meno credibile e razionale. Inoltre si chiude senza una reale conclusione e, quindi, senza una autentica catarsi e una prospettiva di superamento del dramma messo in scena, che non può che lasciare perplesso lo spettatore.
Nel nome della terra di Edouard Bergeon Drammatico, Francia 2019, voto 6-; film che, muovendosi fra il naturalismo e il realismo, denuncia la condizione di perpetua crisi della piccola borghesia nei paesi a capitalismo avanzato, sempre sull’orlo di precipitare nel proletariato e spesso pronta persino al suicidio pur di evitarlo. Situazione grave in particolare nelle campagne francesi, dove in media, oberato dai debiti, si suicida ogni giorno un piccolo proprietario agricolo a ulteriore dimostrazione di quanto sia insensata e impraticabile la prospettiva democratico piccolo borghese di una società di tanti piccoli proprietari. Nel film non si coglie né l’impossibilità dei piccoli capitalisti di reggere la concorrenza con i grandi capitalisti, né le condizioni di ultra sfruttamento che impongono ai loro lavoratori salariati per sopravvivere. Naturalmente non c’è nessun barlume di prospettiva di superamento di questa drammatica situazione, dal momento che non è nemmeno contemplata l’unica reale soluzione, la transizione al socialismo.
Un divano a Tunisi di Manele Labidi Labbé, commedia, Tunisia e Francia 2019, voto: 5-; una buona occasione per fare un film anche divertente, toccando tutta una serie di grandi problematiche sostanziali completamente sprecata. Il film, oltre a non essere per niente divertente, è pesantemente orientalista, ossia presenta la società tunisina dal punto di vista irrealistico dei più triti pregiudizi del mondo occidentale.
Caro diario di Nanni Moretti, commedia, Italia 1993, voto: 5-; rivedendo questo film dopo anni, non solo appare del tutto assurdo il premio come miglior regia al festival di Cannes, ma appare incomprensibile anche la riproposizione di Caro diario, quasi si trattasse di un classico. Rivedendolo con la dovuta distanza temporale, anche gli aspetti che si erano allora generalmente apprezzati del primo episodio sono decisamente da ridimensionare. Al di là di qualche simpatica trovata, l’episodio è del tutto privo di sostanza e alquanto postmoderno. Segnato dal soggettivismo e dall’egocentrismo dell’autore con la sue fisime che non possono suscitare interesse in nessun altro. Il secondo episodio si conferma invece del tutto inutile e penoso. Anche il giudizio sul terzo episodio resta sostanzialmente immutato, ossia una grande occasione banalmente sprecata. Non vi è, infatti, nessun accenno di critica sociale ai problemi della sanità in un paese imperialista, ma è – come di consueto – tutto incentrato sulle problematiche personali dell’autore.
Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, drammatico, Usa 2020, disponibile su Netflix, voto: 4,5; il film, fra i più sopravvalutati dell’anno anche a sinistra, percorre interamente la strada che porta alla distruzione della ragione. Così, se all’inizio presenta ancora dei barlumi di senso e dei dialoghi interessanti, più si va avanti e più emerge l’irrazionalismo fondato sulla pseudogiustificazione del coscienzialismo del tempo, ovvero sulla concezione idealista che il tempo non abbia una dimensione oggettiva, ma esclusivamente soggettiva. Resta il mistero del motivo per il quale una merce che ha sprecato una enorme quantità di lavoro umano e di risorse naturali, per affermare la tesi ideologica e reazionaria della presunta insensatezza della realtà, possa aver trovato un plauso pressoché unanime della critica, sempre più assoggettata al pensiero unico postmoderno.