Recensioni di classe 15

Recensioni di classe alle serie: The Good Lord Bird – La storia di John Brown e Il giovane Wallander, al documentario: Crip Camp: disabilità rivoluzionarie, al mediometraggio: Due estranei e ai film: I'm your woman – Sono la tua Donna e La vita che volevamo.


Recensioni di classe 15

Segue da Recensioni di classe 14, pubblicato sul precedente numero di questo giornale

The Good Lord Bird – La storia di John Brown miniserie televisiva statunitense in sette episodi creata da Ethan Hawke e Mark Richard, voto: 8+; Il quinto episodio narra le difficoltà del piccolo gruppo di rivoluzionari di portare a termine il loro imponente piano. La temerarietà della sfida ricorda quella di Che Guevara in Bolivia. Interessante anche l’osservazione a proposito degli afroamericani ridotti in uno Stato di schiavitù che sono molto meno pronti a combattere per la loro liberazione, rispetto agli afro discendenti che hanno conquistato lo status di lavoratori salariati e hanno un minimo di cultura. Molto significativo è anche il rapporto che si stabilisce fra il narratore e la figlia di John Brown, un ottimo modello di giovane emancipata formatasi con un padre rivoluzionario.

Il sesto episodio è incentrato sull’azione rivoluzionaria che si rivela decisamente catastrofica, per la disorganizzazione e anche per la fede cieca nella religione che porta, in primis John Brown, a non usare la testa e ad assumere posizioni ingenuamente avventuriste.

L’ultimo episodio porta a formulare un giudizio storico decisamente positivo, nonostante tutte le contraddizioni, su John Brown. In effetti, al di là del suo fondamentalismo religioso, ha dato un importante contributo alla sconfitta su scala internazionale della schiavitù contribuendo a innescare quella spaventosa guerra civile che sola poteva portarne all’abolizione nel sud degli Stati Uniti. Anche il bilancio del film è positivo, con il narratore che ha portato a termine il suo processo di formazione, riconoscendo come la lotta condotta da Brown per la liberazione degli schiavi non era un progetto folle, come poteva inizialmente apparire anche a un figlio di schiavi.

Crip Camp: disabilità rivoluzionarie di Nicole Newnham e Jim LeBrecht, documentario, Usa 2020, voto: 7,5; bel documentario che dimostra come una lotta per l’emancipazione di una parte particolarmente discriminata della società abbia ottenuto degli eccezionali successi sviluppandosi all’interno di un movimento generale di rovesciamento dell’ordine costituito generalmente definito, un po’ impropriamente, come movimento del sessantotto. Anche questa decisiva lotta per l’emancipazione, della più grande minoranza discriminata degli Stati Uniti, è stata una grande lotta per il riconoscimento dell’eguaglianza e della compiuta umanità dei diversamente abili. Una lotta per l’emancipazione che nasce attraverso un rivoluzionario campo estivo per diversamente abili organizzato da sessantottini, in cui si forma il nucleo che darà vita al grande movimento per l’emancipazione dei diversamente abili. Un movimento che ha avuto, nei suoi momenti di lotta più significativi, il pieno sostegno degli altri movimenti, a partire da quello rivoluzionario delle Pantere nere, capaci di riconoscersi in pieno con chiunque si batta per l’emancipazione del genere umano. Naturalmente le conquiste del movimento hanno dovuto resistere e poi contrattaccare dinanzi all’insorgere delle forze della de-emancipazione neoliberista giunte al potere con Ronald Reagan.

Due estranei, regia di Travon Free e Martin Desmond Roe, Sci-fi/drammatico, Usa 2020, voto 7-; premiato come miglior cortometraggio, che in parte controbilancia i mancati premi principali a Judas and the black Messiah, vincitore morale dei premi oscar di quest’anno. Il film è una significativa, ma non del tutto riuscita denuncia del continuo perpetuarsi del linciaggio degli afroamericani da parte degli apparati repressivi dello Stato, per i più futili motivi o con l’unica ragione di mantenere il resto degli afro discendenti in posizione subalterna. Peccato che il cortometraggio, pur incentrato su una valida trovata, finisce con l’apparire un po’ troppo ripetitivo, anche per la sua eccessiva durata.

Il giovane Wallander serie britannico-svedese trasmessa da Netflix nel 2020, che vede come protagonista il celebre commissario creato da Henning Mankell, voto: 6,5; ancora una storia che vede come protagonista un uomo impegnato negli apparati repressivi di uno Stato, caratterizzato dalla dittatura della borghesia. Abbiamo così un punto di vista e una visione del mondo che nasce da chi ha scelto di divenire un agente impegnato nella difesa dell’ordine costituito, fondato sulla salvaguardia degli individui (proprietari) e della loro proprietà privata. Nel caso specifico, non abbiamo una denuncia degli apparati repressivi dello Stato, ma al contrario il tentativo di reinterpretarli in una prospettiva democratica, con una recluta come protagonista, che svolge con estrema meticolosità la sua professione. Wallander è molto legato a un suo collega afro discendente, vive in una banlieue, fa passare un guaio a un ricco proprietario che pretenderebbe, irrealisticamente, di umiliarli per le loro basse paghe. Si preoccupa anche di cercare di aiutare un suo vicino di casa, in quanto potrebbe essere fra i pochi a poter uscire da quel quartiere-ghetto. Infine vediamo la polizia insultata dagli antirazzisti, perché assicurano la libertà di manifestare ai razzisti e che poi interviene anche duramente contro i fascisti che vorrebbero aggredire gli immigrati. Certo, probabilmente, la polizia svedese non sarà stata così terribile come quella statunitense, ma questa sua rappresentazione così apologetica appare francamente del tutto irrealistica e omissiva.

Nonostante le apparenze socialdemocratiche nordiche, il film dimostra come i paesi scandinavi siano ormai subalterni al modello fascistoide americano, per cui si esalta come vero uomo il membro degli apparati repressivi dello Stato che è pronto a infrangere qualsiasi norma, legale, etica e morale, pur di combattere il nemico terrorista che è sempre straniero, piuttosto che occuparsi del nemico fascista interno. Così il protagonista – con cui dovremmo identificarci – è responsabile del coma del suo collega e amico (che era stato post sotto la sua diretta responsabilità) e che ha abbandonato, proprio nel momento di una carica di una masnada di nazisti locali, per inseguire contro ogni logica un sospettato colpevole di un altro delitto. Così, in nome della guerra di civiltà al terrorismo internazionale, tutto sembra divenire lecito, anche la trattativa con il boss mafioso locale.

La serie si riprende sensibilmente già nel terzo episodio, in cui il protagonista – dopo aver compreso che l’immigrato clandestino è stato costretto a compiere il delitto – intuisce che l’assassinio del giovane era funzionale ai disordini creati dall’estrema destra contro gli immigrati nei giorni immediatamente successivi. Resta l’apologia, assolutamente irrealista e tutta volta a confondere l’eccezione con la regola, della giovane recluta idealista che sarebbe entrata in polizia esclusivamente per poter sostenere i giovani delle banlieue!? 

Nel quarto episodio, dopo l’assassinio a sfondo razzistico dell’immigrato clandestino coinvolto nel delitto, emerge come anche in Svezia, a tutti i livelli, si stia diffondendo, con la scusa della guerra al terrorismo, un razzismo diffuso, anche fra la classe dirigente, nei riguardi degli immigrati. Ancora più interessante è l’emergere del ruolo probabilmente pesantemente negativo nella vicenda di un giovane miliardario che si sarebbe fatto benefattore degli immigrati clandestini. Come emerge, significativamente, che i vertici della polizia sembrano voler chiudere il caso, dopo aver sbattuto il mostro in prima pagina, senza intendere risalire ai mandanti. A anche in questo caso, del tutto irrealisticamente, emergono almeno tre poliziotti intenzionati ad andare fino in fondo nella questione, anche a loro rischio e pericolo.

Nel quinto episodio emerge il ruolo sempre più criminale della più ricca e potente famiglia svedese, che sembra coprire i propri delitti con attività di beneficenza a favore degli immigrati clandestini, di cui, peraltro, le imprese per prime hanno bisogno. Resta l’inverosimiglianza del poliziotto idealista, che fa di tutto per cercare di dare una prospettiva da calciatore a un ragazzo del suo slum, senza rendersi conto che ce ne sono a centinaia di miglia nelle banlieue di tutto il mondo e che impegnando tutte le proprie energie per salvarne uno, non si fa nulla per mettere in discussione un sistema che ne crea a centinaia di migliaia. Anzi, si giustifica il proprio ruolo di difensore armato di tale sistema, con la scusa che potrebbe essere utile per salvare un singolo giovane in difficoltà, solo perché abita nello stesso palazzo e si ha confidenza con la madre.

L’ultimo episodio, al solito, recupera una posizione moderato, con una virata in senso conservatore, inserendo una improbabile differenziazione tra miliardari buoni e cattivi. Tanto che il cattivo appare quasi una mela marcia, mentre il buono potrebbe venir considerato un paladino della lotta al razzismo. Rimane, comunque, che il crimine sfrutta i richiedenti asilo e si rifornisce di armi grazie a immigrati provenienti dalla ex Jugoslavia, anche se esisterebbero emigrati criminali buoni, in quanto collaborano con l’eroe sbirro. Il suo conclusivo abbandono della polizia non sembra nascere da una reale presa di coscienza. Anzi sembra più condizionato dal fatto che la polizia ha le mani legate da leggi garantiste, che impediscono una reale persecuzione dei crimini.

I’m your woman – Sono la tua Donna di Julia Hartm, drammatico e thriller, Usa 2020, voto 6; film decisamente sopravvalutato da certa critica sedicente comunista, è in realtà opera sostanzialmente culinaria, una merce di media qualità dell’industria culturale. Per quanto priva di cadute nell’ideologia più becera e abbastanza ben confezionata, risulta sostanzialmente priva di contenuti sostanziale, né assicura un sufficiente godimento estetico anzi, per l’eccessiva lunghezza, risulta a tratti soporifera.

La vita che volevamo di Ulrike Kofler, drammatico, Austria 2020, voto: 6; tipico film europeo sopravvalutato, sebbene non abbia fondamentalmente nulla di significativo da comunicare. Vi è una approfondita analisi entomologica dei problemi di una coppia che non riesce ad avere figli, secondo il consueto noiosissimo taglio naturalistico, messa a confronto con il dramma di una famiglia che, all’opposto, sulla base del dogma cattolico, ha messo al mondo dei bambini che poi non è in grado di formare, tanto che il più grande, in modo fin troppo scontato, tenta il suicidio. Non a caso si tratta di un film tratto da una breve novella, utile tutt’al più per realizzare un buon cortometraggio o al massimo un passabile mediometraggio.

26/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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