Judas and the Black Messiah di Shaka King, biografico, Usa 2021, voto: 9,5; film davvero bello sulla breve, ma gloriosa ed esemplare vita di un giovane grande rivoluzionario: Fred Hampton, leader delle Pantere nere di Chicago, massacrato a freddo a soli 21 anni dall’Fbi. Hampton con coraggio, abilità, fermezza, radicalità e coscienza di classe aveva costruito un movimento dal basso in grado di spaventare seriamente gli apparati repressivi dell’imperialismo statunitense. Puntando sulla questione di classe e non di razza, aveva creato un movimento unitario in grado di costruire un’alleanza classista, fra le Pantere nere, una banda di afroamericani, i portoricani in lotta per l’indipendenza e il proletariato caucasico, per quanti pregiudizi razziali potesse coltivare. Il film, sulle orme del Conformista di Bernardo Bertolucci, ci racconta queste tragiche vicende dal punto di vista straniante di un infiltrato afroamericano. Si tratta di un sottoproletario che, ricattato dall’Fbi – che lo minaccia costantemente di sbatterlo in carcere per i suoi crimini giovanili – viene infiltrato nel movimento rivoluzionario. L’agente dell’Fbi che lo dirige gli fa credere di essere un democratico sostenitore della parità dei diritti civili, ma contrario all’eguaglianza che le Pantere pretenderebbero di imporre con una violenza opposta e speculare a quella del Ku Klux Klan. L’infiltrato finisce per farsi quasi convincere delle posizioni delle Pantere nere, tanto che quando l’Fbi getta la maschera e pianifica l’assassinio di Hampton, vorrebbe tirarsi indietro. Ma il ricatto di finire in carcere lo induce a portare fino in fondo il suo tradimento. Solo alla fine prenderà coscienza delle sue malefatte e come Giuda si suiciderà. Interessante come il truce Edgar Hoover, da subito cosciente del pericolo mortale per l’imperialismo delle forze rivoluzionarie interne, convince il proprio sottoposto a portare a termine l’assassinio di Hampton. Si limita a chiedergli come reagirebbe quando la figlia neonata gli portasse a casa un afroamericano. Dinanzi allo stupore del suo sottoposto, gli fa comprendere come tutto il loro mondo, fondato su un rigido apartheid e su una serie di miti razzisti di grande efficacia, crollerebbe se si fosse lasciata la possibilità di agire alle Pantere nere. Infine, molto interessante come il piano dell’impegno rivoluzionario si rifletta nei rapporti familiari, in primo luogo fra Hampton e la compagna incinta del suo primo figlio. La compagna, per quanto molto radicale, si preoccupa di cosa ne sarà del suo bambino, quando il padre, rivoluzionario fino alla fine, sarà certamente assassinato. Anche perché rifiuta le offerte degli altri compagni che, per salvargli la vita, organizzano la sua fuga a Cuba o in Algeria. Hampton rifiuta qualsiasi compromesso ricordando di essersi votato alla rivoluzione. A questo punto, anche la compagna comprende che, morto il padre, del figlio si prenderà cura il Partito rivoluzionario e più in generale il popolo-proletariato. Così, nonostante la drammatica strage in cui cade Hampton – come molti altri rivoluzionari afroamericani – il film da autentica tragedia culmina nella necessaria catarsi, con la compagna che militerà fino alla fine nelle Pantere nere e il figlio che diverrà il leader di un nuovo movimento rivoluzionario che vuole raccogliere l’eredità del precedente. Unico limite di questo film, in generale eccellente, è che rimane troppo legato alla vicenda, per quanto esemplare, di Hampton, a differenza dell’unico film non documentario precedente sulle Pantere nere, Panther di Mario Van Peebles, purtroppo sostanzialmente irreperibile. In Panther, non rimanendo naturalisticamente legati a una singola vicenda, si riusciva a ricostruire in modo più ampio la modalità utilizzata dagli apparati repressivi dello Stato per sterminare il movimento rivoluzionario, ovvero oltre all’uso spropositato della violenza, la sistematica diffusione nei quartieri proletari dell’eroina, prima sfruttata per mantenere sotto controllo i soldati-proletari durante l’aggressione imperialista al Vietnam. Purtroppo, come di consueto, quando finalmente passa un grande film, capace di essere rivoluzionario e così avvincente da vincere ed essere candidato ai più importanti premi, a partire dalla candidatura a cinque Oscar, fra cui quello di miglior film, viene poco considerato dalla critica radicale italiana, tanto che l’unico “quotidiano comunista” italiano gli dà meno rilievo dell’agiografia del reazionario Clint Eastwood su Hoover, bollando come irrilevante il film Panther. Inoltre, a dimostrazione di quanto sia paradossalmente più avanzato il mondo del cinema statunitense rispetto a quello europeo, mentre hanno ricevuto moltissimi premi film rivoluzionari come Judas and the Black Messiah e Il processo ai Chicago 7, il premio a miglior film europeo è andato all’insostenibile e ultrareazionario film danese L’ultimo giro. A dimostrazione, ancora una volta, che le scuse degli ignavi che sostengono che sia impossibile fare film rivoluzionari in paesi imperialisti e farli anche distribuire non ha fondamento ed è solo la scusa per adeguarsi all’ideologia dominante. Certo, bisogna anche considerare il fatto che la produzione di diversi grandi film, negli ultimi anni negli Stati Uniti, di denuncia delle spaventose discriminazioni degli afroamericani sono in primo luogo il prodotto dei grandi movimenti di lotta che sono scesi in campo contro il razzismo; a ulteriore dimostrazione che in una società classista solo la lotta paga.
The Loudest Voice – Sesso e potere è una miniserie televisiva americana in sette puntate del 2019, tratta dall’omonimo romanzo di Gabriel Sherman. È stata trasmessa su Sky Atlantic, voto: 9+. Si tratta di una molto efficace rappresentazione della nascita di Fox Tv, il programma di notizie apertamente schierato a destra che ha spianato la strada al trumpismo. La rappresentazione sembra improntata al massimo realismo, anche se, riflettendoci sopra, il protagonista – non utilizzando l’attore che lo interpreta l’effetto di straniamento – pare un vero e proprio gigante del male, con il quale, nonostante tutto, lo spettatore è portato a identificarsi. Anche perché tutti gli altri personaggi appaiono dinanzi a lui delle figure di secondo piano, incapaci di tenere minimamente testa al protagonista, che fra tanti nani non può che apparire, appunto, un gigante. Inoltre la completa mancanza di un qualunque personaggio anche minimamente positivo indica la mancanza di prospettiva e la consueta assenza di un minimo di spirito dell’utopia e di principio speranza.
Il secondo episodio rappresenta, come avviene generalmente, un deciso arretramento rispetto all’episodio pilota su cui si impegnano molto più tempo e risorse. In particolare la prima parte della puntata dedicata agli attentati dell’11 settembre lascia davvero a desiderare. Del resto, si tratta di un momento davvero tabù della storia statunitense, sul quale nemmeno Oliver Stone è riuscito a introdurre un minimo di sguardo critico. Decisamente più interessante la seconda parte dell’episodio, in cui emerge la fabbrica del falso e di fake news che, in diretta collaborazione con Dick Cheney, sfrutta gli attentati per l’aggressione imperialista all’Iraq, pur essendo tutti pienamente consapevoli che non solo non esisteva alcuna connessione fra Al Qaeda e Saddam Hussein, ma che non vi era nessuna traccia di armi di distruzione di massa in quel paese.
Con il terzo episodio la serie riprende quota, anche perché emerge così evidentemente la spaventosa malvagità del protagonista che diviene davvero difficile riuscire a impersonarsi con lui. Ciò che colpisce è come un personaggio del genere abbia potuto influire in maniera determinante sull’ideologia dominante. Qualche segnale giunge dalla situazione disperata e disperante della ex classe operaia statunitense che – dopo aver per anni potuto giovarsi, in quanto aristocrazia operaia, dei sovrapprofitti conquistati all’estero dall’imperialismo – ora in tempi di crisi non solo deve rinunziare ai suoi miserabili privilegi, ma spesso perde la possibilità stessa di farsi sfruttare per sopravvivere. Dinanzi a questa cieca disperazione riescono a fare breccia il populismo e la demagogia della destra più estrema, di contro all’ennesimo tradimento delle aspettativa popolari da parte dei politicanti sedicenti di sinistra.
Con il quarto episodio, la serie sale ancora più di livello e diviene una netta e coraggiosa denuncia di una televisione e, in particolare, del suo principale dirigente, che hanno fatto di tutto per imbarbarire ulteriormente l’ideologia politica del paese. Il film mostra adeguatamente anche come le malefatte sul piano della scena pubblica abbiano poi serie conseguenze anche nella vita privata, cioè chi teorizza la superiorità della volontà di potenza sulla verità tende a mettere in pratica tale principio anche nella vita quotidiana.
La quinta puntata cresce ancora nella denuncia delle malefatte dell’architetto della Fox News e della candidatura di Trump. Si intravede anche, finalmente, una prospettiva nell’intrepido giornalista intento a scrivere un libro verità su questa televisione che ha contribuito a cambiare non solo l’ideologia dominante, ma a sdoganare gli aspetti più irrazionali dei propri ceti sociali di riferimento. Resta il dubbio che, al solito, si tende a dare uno spazio troppo ampio all’individuo, senza considerare in nessun modo i motivi strutturali che vi sono dietro e che costituiscono il reale fondamento di quanto avviene.
Di grande interesse anche la sesta puntata, realizzata peraltro da un importante regista come Stephen Frears. Abbiamo finalmente una vittima che si ribella che non diviene, in qualche modo, complice del suo aguzzino. Finalmente appare la possibilità di un’alternativa, anche il potere apparentemente più ferreo può essere piegato. Certo c’è bisogno che qualcuno, coraggiosamente, dia il via, assumendosene stoicamente le conseguenze. Per quanto essenziale il coraggio del singolo non è però sufficiente a cambiare realmente le cose, vi sarà bisogno di un movimento di massa reale che, nel caso specifico, prenderà il nome di Me Too.
Nell’ultima puntata, diretta anch’essa da un valido regista, si arriva alla resa dei conti finale, le dighe poste a difesa del predatore sessuale crollano nel momento che molte delle donne molestate e stuprate da decenni trovano il coraggio di denunciarlo. Questa reazione a catena sarà seguita, circa un anno più tardi, dal grande movimento: Me Too. Sicuramente l’oppressione della donna ha subito una parziale battuta d’arresto ma, d’altronde, se non si abbatte la sua causa reale – un sistema classista fondato sullo sfruttamento come il capitalismo – anche questa forma di oppressione, per quanto arcaica, non cesserà. Tanto più che Trump, nonostante si fosse da par suo schierato spudoratamente dalla parte del predatore sessuale, vincerà le elezioni e la Fox, divenuta sotto la direzione del predatore sessuale per 14 anni di fila la più importante rete di news cablata, ha mantenuto tale primato anche dopo lo scandalo. A ulteriore dimostrazione che se non si sconfiggeranno i modi di produzione classisti che si fondano sullo sfruttamento dell’uomo le lotte parziali di un certo settore vessato non potranno mai portare a una reale e definitiva emancipazione. Naturalmente, tutte queste nostre considerazione conclusive non sono neanche sfiorate dalla serie.
Arancia meccanica, di Stanley Kubrick, drammatico, Gran Bretagna 1971, distribuzione Warner Bros, voto: 9; un grande classico del cinema che non perde nulla con il passare del tempo, né perde di interesse e né manca di offrire un notevole godimento estetico offrendo, al contempo, molto su cui riflettere allo spettatore anche nel caso avesse visto questo film più volte. Arancia meccanica dalla forma al contenuto, dalla fotografia, ai colori, al linguaggio, alla musica al montaggio appare quasi perfetto. L’imperfezione è nella conclusione che – per quanto molto realistica, come tutto il film del resto, per quanto in grado di smascherare le contraddizioni del potere e dei mezzi di comunicazione – non lascia spazio a una reale alternativa, a una prospettiva di superamento della società decadente in cui continuiamo a vivere e lottare.
Gran Torino di Clint Eastwood, Usa 2008, premiato come miglior film straniero in Italia e Francia, voto: 9-; finalmente un vero grande classico del cinema riproposto nelle sale. Con questo film Eastwood raggiunge uno dei punti più alti della sua altalenante carriera da regista e attore. Lo sfondo è realisticamente reazionario, con il regista che interpreta in fondo se stesso, un reduce della aggressione imperialistica alla Corea, razzista, intollerante e apparentemente incapace di amore. D’altra parte, l’attitudine opportunista della sua famiglia e, al contrario, la profonda umanità dei suoi vicini emigrati dall’Asia, lo portano, a poco a poco, a superare i suoi pregiudizi xenofobi e a imparare a riconoscersi e ad amare l’altro. Anche perché, sebbene egemonizzato dall’ideologia dominante e di fatto privo di coscienza di classe, è stato per tutta una vita un operaio alla catena di montaggio. Il film non può che piacere per il grande realismo, per i personaggi tipici che rappresenta, per il godimento estetico che assicura e per gli aspetti sostanziali su cui lascia alquanto da riflettere ai suoi spettatori. Ancora più apprezzabile è il finale, imprevedibile e in grado di indicare un’importante prospettiva di superamento della guerra fra poveri, scatenata dall’ideologia dominante sempre pronta a fomentare, in particolare negli Stati uniti, il razzismo.
Seberg – Nel mirino di Benedict Andrews, biografico, thriller, Francia 2019, voto: 8,5. Film molto significativo su come le libertà individuali anche di grandi personalità del mondo dello spettacolo siano state nel modo più pesante violate negli Stati Uniti nei momenti in cui si era sviluppata la lotta di classe dal basso degli oppressi. Vediamo così tutte le sevizie psicologiche cui è stata sottoposta una grande diva cinematografica del tempo solo per aver simpatizzato con i grandi movimenti di emancipazione degli afroamericani. Naturalmente il film è stato fatto passare completamente in silenzio dalla critica, anche quella sedicente comunista, e non è stato distribuito in Italia.
Le recensioni ai migliori libri letti e recensiti quest’anno:
Gli anni del coltello di Valerio Evangelisti, Mondadori, Milano 2021, voto: 8,5; ancora un grande e appassionante romanzo storico narrato nel modo più realistico dal più significativo scrittore italiano vivente. Tolto il protagonista della vicenda, tutti gli altri personaggi del romanzo sono storici e, quindi, gli eventi narrati sono in massima parte eventi realmente accaduti. Evangelisti con quest’opera porta a compimento il suo dittico sul Risorgimento, inaugurato l’anno scorso con 1849. I guerrieri della libertà, in cui affrontava le epiche lotte a difesa del momento più avanzato di quest’epoca storica, ovvero la tragica e gloriosa parabola della Repubblica romana, in cui per la prima volta le donne conquistarono i pieni diritti politici e di cittadinanza. Questa seconda parte del dittico risorgimentale affronta un’epoca storica decisamente più oscura, ovvero gli anni della restaurazione dopo la sostanziale sconfitta del grande processo rivoluzionario del 1848-1849. Quella di Evangelisti è al solito un’esemplare controstoria, narrata dalla parte del lato oscuro, dei vinti, degli oppressi, dei rivoluzionari. In tal modo, in questa prospettiva straniante, il lettore è portato a riflettere criticamente e in modo dialettico su questa grande tragedia storica, su quella vera e propria rivoluzione mancata che fu il Risorgimento. Una lezione storica di grandissima attualità in quanto mostra i veri tragici protagonisti del risorgimento i quali, per consentire al proprio paese di liberarsi da una secolare dominazione straniera, hanno dovuto porsi, necessariamente, contro la legge costituita e, in maniera ancora più drammatica, si sono visti costretti a esercitare quella violenza seconda quasi sempre inevitabile in tutti i grandi passaggi storici, in quanto consente di resistere alla violenza prima utilizzata a difesa dei grandi, ingiusti e irrazionali privilegi delle classi dominanti che hanno dalla loro parte tutti gli apparati dello Stato e con essi il monopolio della violenza legalizzata. Quest’ultima è una violenza terroristica e al solito indiscriminata che travolge chiunque possa anche solo potenzialmente mettere in questione l’ordine costituito, per quanto antistorico e irrazionale possa essere divenuto.
Evangelisti – per quanto meritoriamente e necessariamente partigiano dalla parte di chi si batte per l’emancipazione del genere umano – non manca di sottolineare nel modo più realistico anche i limiti storici dei rivoluzionari del tempo e attraverso una indispensabile autocritica lascia emergere i motivi che impedirono la realizzazione della rivoluzione risorgimentale.
La prima grande e tragica contraddizione, che emerge da questo grandioso affresco storico, è la condizione del proletariato urbano, sempre in prima linea in ogni momento di guerra di movimento del Risorgimento, ma ancora incapace di portare avanti una lotta autonoma, dal proprio punto di vista e rivolta a soddisfare i suoi reali bisogni. Pur essendo già, quantomeno potenzialmente, la reale classe universale – ovvero l’unico gruppo sociale che, liberando se stesso, libererà l’intera società – al proletariato urbano italiano, ancora nella primissima fase del suo sviluppo, mancano necessariamente la capacità di produrre nel proprio seno degli intellettuali organici. In tal modo anche le avanguardie del proletariato continuano, volenti o nolenti, a essere egemonizzate da intellettuali piccoli borghesi, il cui rappresentante più emblematico è, senza dubbio, Giuseppe Mazzini.
Emerge così la classica sproporzione fra gli obiettivi riformisti e generalmente utopistici degli intellettuali piccolo borghesi e i mezzi estremi e avventuristi impiegati per attuarli. Gli obiettivi sono decisamente troppo bassi per raggiungere i risultati sperati, non osando mettere in discussione la sacralità che ha agli occhi della borghesia la proprietà privata. Così, per preservare l’interclassismo del movimento indipendentista, non si prendono in considerazione quelle questioni di classe che esclusivamente stanno veramente a cuore alle masse popolari, le sole che possano praticare l’auspicata insurrezione rivoluzionaria.
Quasi a voler occultare la mancanza di radicalità negli obiettivi, si dà libero sfogo ai mezzi più estremi per “praticarli”. Persino il terrorismo individuale e la vendetta divengono degli strumenti ritenuti necessari per raggiungere degli obiettivi che la concezione interclassista rende, necessariamente, utopistici.
La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone di Luciano Canfora, pubblicato da Laterza a partire dal 2014 (voto: 8+), è un’opera che va assolutamente letta e meditata. Innanzitutto perché affronta in modo estremamente dialettico questioni decisamente sostanziali, in primis lo spirito dell’utopia da cui sono sorti e si sono sviluppati i movimenti storici rivoluzionari. Canfora inoltre, da buon filosofo della praxis, affronta costantemente il decisivo snodo del rapporto dialettico fra teoria e prassi, senza mai cadere in un estremo, o nell’altro. In altri termini, non parte dal presupposto che la prassi tradisca sempre necessariamente la teoria, né che la prassi sia necessariamente uno sviluppo, un inveramento della teoria. Piuttosto, affronta in modo dialettico tutte le necessarie contraddizioni anche della più radicale teoria rivoluzionaria e non nasconde tutti i limiti dei tentativi storici di praticarla. D’altra parte, pur evidenziandone limiti e contraddittorietà, ne mostra al contempo la funzione decisiva dal punto di vista storico e teorico. Dunque, pur cogliendo tutte le ragioni dell’uomo del corso del mondo che intuisce, a ragione, tutti i limiti dello spirito dell’utopia, mostra al contempo che il motore dello sviluppo e del progresso storico vada ricercato necessariamente nell’ideale di realizzare l’uomo nuovo.
Perciò, dopo aver analizzato nel modo più dialettico questo eccezionale e paradigmatico scontro fra titani, ovvero il decisivo confronto-scontro fra il padre dello spirito dell’utopia (Paltone) e il padre della sua demolizione ironica (Aristofane) – dal punto di vista del corso del mondo – prende decisamente, al contrario di Hegel, le difese del primo, piuttosto che del secondo. Ma, esattamente come faceva Platone – e al contrario di quanto faceva un altro gigante del pensiero politico contemporaneo: Domenico Losurdo – non mette in evidenza i soli punti deboli della posizione dell’avversario, ma ne pone esemplarmente in luce i punti di forza. Comprendendo che occorre necessariamente confrontarsi con un avversario che sia alla propria altezza, se si intende far emergere, in modo del tutto non ideologico, le proprie convinzioni.
A questo scopo affronta la questione – come necessario – da un punto di vista squisitamente scientifico, corroborando con un’acutissima acribia filologica le proprie tesi. Certo, in tal modo, l’opera – peraltro scritta benissimo – diviene necessariamente di non agevole lettura. Soprattutto per chi ha un’impostazione filosofica e tende a perdere un po’ la pazienza quando si va troppo nei particolari. Anche perché – e questo è forse l’unico parziale difetto di questo ottimo libro – talvolta le questioni sostanziali emergono, ma non vengono debitamente affrontate e approfondite, proprio per la necessità del filologo classico di fare fino in fondi i conti con le fonti, i documenti e le diverse interpretazioni.
D’altra parte, un altro grande pregio dell’opera di Canfora è che – anche in questo caso seguendo l’impostazione di Socrate-Platone – più che dare delle soluzioni già belle e pronte, che chiudono le problematiche, tende ad aprire le grandi questioni sostanziali, lasciando al lettore il compito di provare a trovare delle risposte, necessariamente parziali e provvisorie.
Fra le grandi questioni sollevate, tutte incredibilmente di stringente attualità, vi è la problematica e contraddittoria relazione fra democrazia e comunismo. Una questione ancora oggi aperta e di difficilissima soluzione. Da questo punto di vista molte delle critiche alla democrazia sollevate da Socrate-Platone e alcune di quelle denunciate, in una prospettiva opposta, da Aristofane sono, ancora oggi, di stringente attualità. Peccato che in tal caso il libro di Canfora non affronti come meriterebbe la questione, dal momento che il libro è incentrato sul confronto-scontro fra Platone e Aristofane che, pur da posizioni antitetiche, giungono a critiche non di rado comuni ai necessari limiti, teorici e pratici, della democrazia.
D’altra parte i governi aristocratici, che assumono talvolta aspetti totalitari – per quanto animati da spirito dell’utopia anche comunista – finiscono per far ritenere meno peggio la soluzione democratica, come finisce per riconoscere lo stesso Platone della VII Lettera. Da questo punto di vista decisamente più significativo è il confronto-scontro fra Platone e il suo più geniale allievo, Aristotele, che Canfora schizza cogliendone diversi spunti sostanziali, ma che naturalmente non può approfondire, come meriterebbe, per non andare troppo fuori tema.
Il problema di fondo che emerge è che, paradossalmente, i sistemi più avanzati – in qualche modo i più democratici, o realmente democratici – tendono storicamente a configurarsi come una Herrenvolk democracy, ossia come una democrazia per il popolo dei signori, come nel modello spartano. Inoltre, per realizzare un tale modello su un piano più universale, fino a che non si formi l’uomo nuovo e le leggi non divengono costumi etici, ci sarà in qualche modo bisogno di un sistema normativo decisamente più pesante e di forme di controllo più stringenti, che rischiano di trasformare lo Stato rivoluzionario in uno Stato di polizia, o addirittura in uno Stato “tirannico” o “totalitario” per la necessità di ricorrere al terrore, soprattutto quando si tratta di resistere, in una situazione di stato di eccezione, alla preponderanza delle forze controrivoluzionarie interne ed esterne.
Per quanto riguarda il modello di comunismo platonico e, più in generale, il suo spirito utopistico è indubbio che ricerchi degli antecedenti storici in forme di Stato decisamente più arcaiche di quella “democratica” ateniese, come l’arcaica società spartana, più o meno idealizzata, o addirittura la società castale dell’antico Egitto.
Da qui le critiche – da un punto di vista progressista – che La repubblica di Platone riceverà, di cui Canfora purtroppo non si occupa. Da questo punto di vista, occorre ricordare in primo luogo la critica di Hegel. Secondo quest’ultimo, con la sofistica, culminata con Socrate, era emersa la contraddizione fondamentale che avrebbe portato al crollo la civiltà ellenica, ovvero il primo affacciarsi della libertà dell’individuo dinanzi all’eticità immediata, da cui si svilupperà la libertà dei moderni. Da questo punto di vista, per Hegel le critiche di Aristofane alla democrazia che condanna a morte Socrate e quella implicita ne La Repubblica platonica vanno tutte, fondamentalmente, nella stessa direzione, pur provenendo da posizioni decisamente antitetiche. Tutte e tre, in effetti, colgono quell’elemento sovversivo sorto con la sofistica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo in Socrate, ossia il punto di vista soggettivo, che sarà poi alla base del pensiero moderno. Quindi, per Hegel, l’attacco di Aristofane e la condanna a morte di Socrate da parte della democrazia restaurata sono legittimi, in quanto comprendono in pieno la gravità della contraddizione sollevata dalla posizione socratica. D’altra parte, sono delle critiche essenzialmente conservatrici, che non possono arrestare lo sviluppo dello spirito dell’uomo nel corso della storia mondiale. Il problema è che tale sviluppo sarà possibile solo attraverso il tragico tramonto del mondo ellenico, di cui Aristofane e la democrazia restaurata costituiscono due momenti fondamentali. Il terzo momento, quello de La Repubblica di Platone costituirebbe, nell’interpretazione di Hegel, l’ultimo grande tentativo di impedire il compiuto esaurimento della spinta propulsiva della civiltà ellenica. Perciò, La Repubblica, per Hegel, non avrebbe proprio nulla di utopistico, ma sarebbe un ultimo vano tentativo – ancora più conservatore – di restaurare lo spirito della polis classica, prima del suo definitivo entrare in crisi, la cui manifestazione e progressiva presa di coscienza avviene con la sofistica, quale illuminismo ellenico. Da questo punto di vista avrebbe, secondo Hegel, ragione Aristofane a interpretare Socrate come colui che porta a compimento l’illuminismo ellenico rappresentato dalla sofistica e non a vedervi – come farà Platone – il nemico di tale spirito dissolutore. In effetti, dal punto di vista di Hegel la critica alla sofistica è opera di Platone e non di Socrate, come appare dai dialoghi del suo più geniale allievo. Dunque, La Repubblica di Platone sarebbe un ultimo disperato tentativo di salvare, dalla sua necessaria tragedia, il bel mondo etico greco, cercando di dimostrare come la comunità etica immediata potesse sopravvivere solo escludendo l’emergere del valore assoluto della soggettività, dell’individuo. Si tratterebbe, dunque, di una impresa sostanzialmente donchisciottesca dal momento che una volta emersa definitivamente con Socrate la crisi del mondo ellenico era ormai irreversibile, ma anche necessaria al successivo sviluppo della storia universale attraverso l’affermarsi dell’ellenismo. Non a caso Platone muore proprio quando i macedoni hanno ormai esteso, di fatto, la loro egemonia sull’intera Grecia.
Da questo punto di vista la critica a La Repubblica di Platone del più grande hegeliano di sinistra, ovvero di Karl Marx, non poteva che essere ancora più radicale. In altri termini, Marx non poteva che sviluppare ulteriormente gli aspetti critici già messi in luce, in modo rivoluzionario, da Hegel. Anche dal punto di vista di Marx La Repubblica non solo non può esser considerata un’utopia, ma andrebbe denunciata come una distopia, in quanto mirerebbe a impedire lo sviluppo storico-sociale dalle antiche caste – dominanti nel mondo orientale – alla loro progressiva sostituzione con le classi sociali, in cui diviene possibile il passaggio molecolare da un gruppo sociale a un altro. Come già Hegel, Marx denuncia come distopico l’aspetto de La Repubblica di Platone per cui non è l’individuo a scegliere la propria funzione nella divisione sociale del lavoro, ma tale decisione spetta alla casta dominante dei re-filosofi. Da tale punto di vita, La Repubblica sarebbe per Marx un tentativo di restaurare le antiche caste chiuse della civiltà egiziana.
Senza contare, come mette in luce in questo caso Canfora, un altro aspetto decisamente reazionario de La Repubblica, ovvero il programma di eugenetica, che si affermerà nel mondo moderno in contesti decisamente reazionari, dagli Stati Uniti, alla Germania nazista, all’Australia etc. Anche tale aspetto, andrebbe interpretato – come non appare ne La crisi dell’utopia – come un tentativo di impedire il porsi per sé della soggettività. Sempre in questa prospettiva andrebbe inteso l’altro punto del programma platonico – anch’esso per alcuni aspetti decisamente distopico – della comunanza delle donne, almeno all’interno dei ceti dirigenti. Anche in questo caso – come di nuovo non coglie Canfora – s’intende impedire l’affermarsi della soggettività nella scelta del proprio compagno o compagna. Peraltro, in parte perché necessariamente legato alla critica di Aristofane, in parte perché sembra esserne affascinato, Canfora si dilunga molto, troppo su questo aspetto. Sembrando non intendere come si tratti di uno degli argomenti più deboli e discutibili dell’utopia platonica, non a caso preso di mira, in modo satirico, da Aristofane e diversi altri comici.
Anzi, dal punto di vista di Canfora tale prospettiva, pur nei suoi limiti, rappresenterebbe uno degli aspetti più radicali e rivoluzionari dell’utopia socratico-platonica. Dunque, invece di cogliere – come farà il socialismo scientifico – nella messa in comune delle donne l’aspetto più caratteristico del socialismo volgare, Canfora vi vede uno di quegli aspetti a tal punto avanzati della prospettiva rivoluzionaria da non essere compiutamente realizzato nella prassi.
Quindici lezioni su Platone di Mario Vegetti, Einaudi, 19.00 € (voto: 8+), compendia magistralmente decenni di studi, ricerche e lezioni sulla filosofia di Platone. In tal modo supera dialetticamente i timori di Platone rispetto allo scrivere un’opera che compendiasse la sua filosofia. Vegetti, in effetti, sin da subito rigetta il vizio alquanto corrente di voler ridurre la ricchezza e complessità dialettica del pensiero platonico in un sistema filosofico chiuso, dato una volta per tutte e per sempre definito. Non a caso il discorso di Vegetti è tutto teso, in modo progressista, a insistere sulla natura necessariamente dialogica della visione del mondo platonica, di contro ai conservatori e reazionari che intenderebbero rinchiuderlo nella gabbia di una metafisica in se stessa compiuta, destinata ai soli eletti del sapere orale esoterico, dinanzi ai quali i dialoghi avrebbero un valore puramente propedeutico. In tal modo la giusta critica alla stessa scrittura – che fissa una volta per tutte il pensiero, come se fosse possibile sancire una verità definitiva, immodificabile e indiscutibile – viene in modo mistificatorio ridotto a una mera ripresa di dottrine proprie della scuola pitagorica.
Al tempo stesso la mirabile e indubbiamente meritoria opera di Vegetti trova una soluzione, per quanto possibile e naturalmente non definitiva, all’altro grande problema di fissare in un volume la filosofia platonica. Il timore di Platone è che una volta scritta essa potesse finire nelle mani di malintenzionati e utilizzata a fini anche contrari alle sue buone intenzioni o, caso decisamente più probabile, rimanere incompresa e male interpretata dai più. Nell’opera di Vegetti emergono chiaramente le buone intenzioni dell’opera di Platone e vengono puntualmente denunciati gli usi contrari al suo scopo che ne sono stati fatti. Inoltre Vegetti fornisce indubbiamente una ottima e progressista interpretazione dell’opera di Platone, sempre mettendo in risalto le diverse incomprensioni e denunciando le malevole interpretazioni, a partire da quelle dei liberali. D’altra parte, naturalmente, quella di Vegetti non è l’unica interpretazione giusta o la migliore possibile, ma è senz’altro un’ottima interpretazione che da una parte fa un rigoroso vaglio critico della complessità a tratti contraddittoria dell’opera di Platone, e delle diversissime interpretazioni che ne sono state date, ma dall’altra pur nel suo operare da scienziato – mirando a restituire una lettura il più possibile oggettiva del suo autore – non mistifica il suo essere necessariamente una interpretazione partigiana e, in particolare, il suo schierarsi dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi opera con l’alta ambizione di contribuire alla lotta per l’emancipazione del genere umano.
Nella lettura di Vegetti spicca, grazia alla sua sempre conseguente adesione al marxismo, un’ottima contestualizzazione storica dell’opera di Platone e anche una sua analisi dal punto di vista politico e sociale, in riferimento al suo collocarsi nei conflitti sociali della sua epoca storica. Mentre resta carente la dialettica fra le strutture economiche e le sovrastrutture, in primo luogo filosofiche, a ulteriore dimostrazione che la necessità di distinguersi dal marxismo volgare abbia portato troppi intellettuali tradizionali, di formazione marxista, a finire con il gettare via con l’acqua sporca dell’economicismo anche il bambino, ossia un punto nodale del materialismo storico.
Molto significativa è anche la ricerca condotta da Vegetti su Socrate, il più decisivo dei maestri di Platone e il complesso rapporto dialettico che si snoda, attraverso in primo luogo la stessa opera platonica, fra questi giganti del pensiero. Allo stesso modo, molto significativa è la ricostruzione di tutte le influenze e della capacità di Platone di rielaborare autonomamente gli aspetti fondamentali dei precedenti filosofi, sempre nella corretta attitudine di un superamento dialettico dei giganti dell’antecedente sviluppo del pensiero umano.
La parte più significativa dell’opera è quella dedicata – grosso modo al centro del libro –, subito dopo la lunga e molto significativa parte introduttiva, alla filosofia eminentemente politica di Platone, affrontata in modo mirabile nelle decisive lezioni sei e sette. Sulla questione determinante del progetto comunista Vegetti non fugge sofisticamente come Cambiano sostenendo che il progetto di Platone non c’entrerebbe nulla con il comunismo, né si perde come Canfora sulla questione meno attuale della comunanza delle donne, né coglie come Hegel solo gli aspetti conservatori del pensiero di Platone, ma ne mette in evidenza – a ragione – la carica rivoluzionaria, pur non tacendone i limiti storici.
Vegetti introduce un tema generalmente poco considerato, ossia che Platone, generalmente considerato il fondatore dell’utopismo, in realtà – per quanto potesse essere radicale la prospettiva comunista ed estrema la comunanza di donne e figli – non temeva nulla di più “che il «ridicolo» suscitato da chi racconta «castelli in aria», «pii desideri», sogni a occhi aperti. Un’utopia seria non può sottrarsi all’impegno di dichiarare le condizioni della propria realizzabilità” [1]. A tal proposito Socrate-Platone ritiene necessario individuare “quale sia il cambiamento minimo grazie a cui una città potrebbe avvicinarsi” (473b) al modello delineato, in quanto solo in tal modo si individua la possibilità di una sua realizzazione, per cui non sarebbe più considerabile una mera utopia. Si tratta di un radicale mutamento al vertice stesso del potere “capace di mettere in moto l’intero processo di trasformazione sociale e morale della città” (110), in modo rivoluzionario con la conquista del potere “da parte degli «autentici» filosofi, o in modo riformista con la “conversione alla filosofia di chi già lo deteneva (473d)” (110).
In entrambi i casi diveniva fondamentale l’autoformazione dei filosofi che costituiva “il nucleo centrale del programma che Platone assegnava” all’“Accademia: assumendo il potere, i suoi membri avrebbero attuato quel «cambiamento minimo» che poteva avviare il circolo virtuoso di una città trasformata che a sua volta promuoveva la formazione collettiva dei suoi nuovi governanti. Ma come pensare questa presa di potere da parte dei filosofi accademici? Platone non escludeva che in circostanze eccezionali una comunità cittadina potesse convincersi ad accettarne il governo (501c-502a), come l’antica Atene aveva fatto con Solone. Più probabile, e certamente più rapida, poteva però apparire la seconda via indicata nel libro V: che un potente o un figlio di potenti potesse venir convertito alla filosofia, e reso quindi disponibile ad accettare il consiglio e la guida dei buoni «filosofi» autoformatisi. Questa via fu probabilmente quella tentata da Platone e dagli Accademici nel loro rapporto con i tiranni di Siracusa, ancorché senza duraturi successi. Ma, come si vedrà (…) non tutti gli Accademici fallirono nel loro tentativo di convincere le città, o i loro tiranni, ad accettare sia pure parzialmente una guida filosofica” (111).
Realisticamente Platone considerava la vita comunistica adatta solo al gruppo dirigente, a essa educato, anche se l’ideale sarebbe stato se tale modalità di vita si fosse estesa “a tutti i cittadini” (426b). Naturalmente per raggiungere un tale ideale sotto la direzione del gruppo dirigente si sarebbe dovuto formare l’uomo nuovo necessario all’estensione del comunismo all’intera società. Dunque, la funzione educativa del gruppo dirigente sarebbe stata transitoria e destinata “a favorire la maturazione morale e intellettuale” del ceto produttivo. “Una volta compiuta essi allora potrebbero risultare capaci di autogoverno e quindi acquisire il diritto di partecipare al governo della comunità e di condividerne la forma di vita collettivistica propria del suo gruppo dirigente” (112).
Tanto che nelle Leggi, riassumendo il proprio modello di governo, Platone aggiunge il “coltivare in comune la terra” (740a). Il che comporta “la collettivizzazione del possesso della terra” e la divisione del lavoro manuale e produttivo includente l’intera società. Anche se, a parere di Vegetti – nonostante il modello di una società comunistica integrale sia ripresa da Platone quando nel Timeo riassume La Repubblica – nel grande filosofo prevarrebbe il realismo per cui difficilmente le doti morali e intellettuali necessarie per vivere in modo comunista sarebbero realmente estendibili all’intero insieme sociale. Anche se tale forma di autogoverno, per quanto ideale, resta per Platone il modello perfetto. Tanto che nel mondo liberale anglosassone, per salvare Platone quale fondatore del pensiero occidentale dalle accuse rivoltegli da Popper di totalitarismo, si arriverà a inventare che la preferenza per il comunismo di Platone sarebbe solo ironica, secondo un’interpretazione che “si scontra con ogni buona regola storiografica di lettura dei testi” (113). Quindi, sebbene la posizione di Platone sia inconciliabile con la tradizione liberale, resta a ogni buon contro il fondatore del pensiero occidentale, a meno che non si pretenda che quest’ultimo “debba necessariamente sfociare in una sorta di «pensiero unico» dettato da quell’orientamento” (114).
Peraltro per Platone il modello comunista era difficile da realizzare, ma non certo “impossibile” (499d, 502c), in quanto “era conforme alla natura, benché contraddicesse i costumi vigenti – questo vale per esempio per la parità di funzioni tra uomini e donne, e per il governo degli individui razionalmente meglio dotati –, e perché era costruito secondo una sequenza logica rigorosa, che enunciava le condizioni necessarie per conseguire finalità che risultavano effettivamente desiderabili” (114). Peraltro tale modello ideale “stimolava, sul piano psicologico prima ancora che politico, l’attesa – che, a differenza della teoria, non poteva che essere impaziente – dell’occasione propizia, del manifestarsi della «fortuita necessità» capace di aprire la via alla prassi della sua realizzazione” (115).
D’altra parte tale modello di società perfetta “costituisce un punto di riferimento capace di orientare la prassi etica e politica. Ma qualsiasi traduzione del modello «nei fatti», qualsiasi sua realizzazione nella dimensione storica, non può che comportare una de formazione. (…) La kallipolis storica sarà dunque un’approssimazione inevitabilmente imperfetta a quella ideale” (116). Ciò “comporta un ragionevole grado di flessibilità negli eventuali tentativi di riproduzione del modello ideale in ambito storico politico” (116).
Controinsurrezione di Valerio Evangelisti, Cento Autori, Villaricca 2020, voto: 8; racconto storico che narra uno dei momenti più alti della storia del nostro paese, cioè la rivoluziona mancata del Risorgimento. Si narrano le gloriose e tragiche vicende conclusive del momento maggiormente rivoluzionario del Risorgimento, ovvero la Repubblica romana del 1849. La vicenda storica è sostanzialmente la stessa narrata dall’autore in 1849. I guerrieri della libertà del 2019, di cui costituisce lo spin-off. In altri termini si narrano le stesse vicende storiche, ma da un punto di vista significativamente diverso, ovvero dal punto di vista di un rivoluzionario aristocratico. Il racconto non solo assicura un notevole godimento estetico, ma lascia davvero molto da riflettere al lettore. Sembra confermare quanto notava già Aristotele sul valore conoscitivo della vera opera d’arte, che consente di comprendere un mondo storico in modo più efficace di un libro di storia. Ciò, naturalmente, dipende dal punto di vista di classe da cui è affrontata la narrazione letteraria e storica dall’autore che, oltre a essere un eccellente narratore, ha anche una davvero eccezionale competenza storica. Inoltre ha una solida formazione marxista che gli consente di interpretare la realtà dal punto di vista più avanzato, grazie al materialismo storico e dialettico e al socialismo scientifico. Al solito di grande rilievo è la capacità di narrare gli eventi da un punto di vista straniante –valorizzando al massimo un tratto peculiare delle opere di Bertolt Brecht – nel caso specifico dal punto di vista di un aristocratico che ha tradito la propria classe d’origine per schierarsi con la classe che rappresenta il futuro socialista.
Rinvio, infine, alla recensione dell’unico significativo spettacolo teatrale che sono riuscito a vedere in quest’anno funestato dalla pandemia:
L’eccezione e la regola di Bertolt Brecht al Teatro Basilica di Roma, regia di Walter Pagliaro, voto: 8+; nonostante il regista resti sostanzialmente estraneo alle intenzioni dell’autore e non ne condivida affatto la visione del mondo che intende mediare, il dramma didattico del 1930, messo meritoriamente in scena, mantiene tutta la sua attualità. Alla base dell’opera vi è il rovesciamento caratteristico della società capitalista, in cui tutto appare capovolto. Il gesto umano e solidale fra due uomini diviene una inverosimile eccezione dinanzi alla regola che, nel caso specifico, contrappone sfruttatore e sfruttato. Perciò il padrone – come farà l’altrettanto classista tribunale che lo assolverà – non può che considerare un gesto minaccioso l’offerta da parte del portatore, da lui sfruttato, di una borraccia in un deserto, quando entrambi i personaggi rischiano di morire di sete. Il padrone è ben consapevole della crudele lotta di classe che porta avanti nei confronti dei suoi lavoratori e, quindi – naturalizzando questo aspetto – ritiene che anche l’oppresso non potrà che sfruttare la prima occasione utile per portare a termine la sua vendetta sociale. Tanto più che si trovano momentaneamente in un luogo deserto, in cui il padrone non ha dalla sua parte, come di consueto, il potere repressivo dello Stato quale strumento decisivo della lotta di classe.
D’altra parte, non appena tornano dal luogo selvaggio nella “civiltà” e in un “palazzo di giustizia”, riemerge immediatamente la natura di classe del diritto e, ancora di più, della sua applicazione. Nonostante le prove schiaccianti dell’assassinio da parte del padrone del suo lavoratore salariato, il giudice considera legittima difesa l’aggressione preventiva da parte dei ricco mercante, non essendo comprensibile in un mondo dominato dal più bieco individualismo utilitarista, il gesto solidarista dell’oppresso nei confronti del suo oppressore. Gesto che, in realtà, è dettato dalla consapevolezza da parte dello sfruttato della natura di classe della “giustizia” borghese.
Tutto lo spettacolo ha una ben precisa attitudine didattica, ovvero intende insegnare allo spettatore come deve comportarsi a teatro e, più in generale, nella vita. In altri termini il regista vuole che lo spettatore non deleghi la sua coscienza mediante l’immedesimazione con i personaggi del dramma, ma mantenga uno sguardo vigile e critico. Peraltro l’effetto di straniamento è favorito non solo dalle disposizione sceniche del drammaturgo, volte a ricordare costantemente al pubblico che si trova in una rappresentazione teatrale, ma anche dalla messa in scena. In effetti, facendo di necessità virtù, avendo a disposizione attrici donne – a ulteriore dimostrazione di come oggi anche l’arte, tolti i ruoli apicali, sia divenuta appannaggio quasi esclusivo del gentil sesso – il regista le impiega per rappresentare i ruoli quasi esclusivamente maschili del dramma.
Tutto ciò favorisce la comprensione del profondo spirito dialettico del dramma, che rappresenta in modo realistico la paradossalità della società capitalista in cui un gesto umano e solidale, in un contesto classista necessariamente dominato dal conflitto sociale, non può che essere interpretato e giudicato come il suo opposto.
Note:
[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 109. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera indicando in parentesi tonde il numero della pagina. Sempre fra parentesi tonde indicheremo le pagine delle opere di Platone che citeremo.