Mario Vegetti definisce la cosiddetta scuola di Platone, ovvero l’Accademia, “come l’ambiente di ricerca nel quale hanno preso forma le discussioni dialogiche, e come una sorta di interlocutore collettivo, che spesso si profila dietro le maschere dei loro personaggi” [1]. Del resto per Platone la dialettica era l’arte di dialogare insieme a uomini interessati alla ricerca della verità. I dialoghi socratici trovano il loro luogo di elezione in una comunità di “compagni”, legati non solo da interessi filosofici e scientifici, ma anche politici, tendenzialmente rivoluzionari.
Come non manca di far notare Vegetti: “in un passo della Repubblica (VI, 496d), Platone parlava del fallimento inevitabile e del rischio mortale (l’uno e l’altro di memoria socratica) in cui incorreva chi volesse entrare nella competizione politica per sostenere la causa della giustizia solo e senza «alleati»; nella testimonianza autobiografica della Lettera VII (325d) egli descrive il proprio iniziale senso di impotenza trovandosi a esser privo di «amici e compagni» (philoi, hetairoi). Dal punto di vista dell’impegno politico, che in quegli anni appariva senza dubbio essenziale a Platone, come provano sia il viaggio a Siracusa sia lo stesso progetto della Repubblica, la fondazione della scuola costituiva dunque il tentativo di raccogliere attorno a sé quel gruppo di «alleati» e «compagni», impegnati in un lavoro di autoformazione (Repubblica, VII, 520b), da cui attendersi la rifondazione della città e il suo futuro governo” (202-03). L’Accademia dimostra, da subito, la sua vocazione internazionalista e l’intenzione di non tener mai separate le riflessioni filosofico-scientifiche dal processo di formazione politica collettiva.
Dunque, “l’Accademia deve perciò venir concepita come l’ambiente in cui il testo della Repubblica è stato elaborato e discusso (…). Più in generale, bisogna pensare che essa abbia costituito, in primo luogo, il gruppo di lavoro nel quale i dialoghi platonici venivano presentati, discussi, eventualmente rielaborati in vista delle critiche che potevano aver suscitato” (206).
Peraltro Platone non sarà mai un caposcuola, come avverrà da Aristotele in poi, ma rimarrà un primus inter pares, che non ha mai cercato di imporre una qualsiasi forma di ortodossia intellettuale. Così “i riassestamenti intervenuti nei campi dottrinali che Platone presenta come «condivisi», cioè come oggetto di homologia – così per la teoria dell’anima tra Fedone, Repubblica e Timeo, per la politica fra Repubblica, Politico e Leggi, per la teoria delle idee e della dialettica fra Repubblica, Parmenide e Sofista – risentono certamente della problematizzazione critica cui essi vennero sottoposti nell’ambiente accademico. Ed è inoltre ragionevole supporre che, insieme con i dialoghi, Platone abbia sottoposto alla discussione nella scuola anche quegli esperimenti teorici che vanno sotto la denominazione (aristotelica) di «dottrine non scritte», cioè non destinate, almeno provvisoriamente, alla trascrizione dialogica: non per una loro presunta segretezza o ineffabilità quanto appunto per il loro carattere sperimentale e per il momento privo di «consenso»” (207).
Nonostante la grande importanza data agli studi matematici, persino la geometria era praticata in funzione e in un contesto “primariamente politico – secondo quella che sembra esser stata la vocazione dominante nella scuola già durante la vita di Platone e nei decenni successivi alla sua morte. La testimonianza più significativa in questo senso è senza dubbio rappresentata dalla spedizione di Dione a Siracusa nel 357, che vide il coinvolgimento attivo dell’intera Accademia” (209).
Come ricorda ancora Vegetti: “gli Accademici contavano su di una sollevazione popolare contro Dionisio (qualcosa di simile, dunque, all’impresa garibaldina dei Mille o allo sbarco di Fidel Castro a Cuba)” (Ibidem). Occorre, inoltre, tenere bene a mente che “non è questo se non l’episodio più noto e clamoroso di quel continuo coinvolgimento dell’Accademia nelle vicende delle tirannidi – con l’intento di abbatterle e la tentazione di prenderne il posto – che caratterizzò la storia della scuola nella seconda metà del IV secolo. La tradizione, anche se talvolta malevola, non lascia dubbi in proposito. Basterà ricordare qualche esempio di questa turbolenta attività politica degli accademici. Nel 359 Pitone ed Eraclide uccisero il tiranno trace Cotys, venendo ricompensati con la cittadinanza ateniese. Nel 352 Clearco, diventato tiranno di Eraclea, venne a sua volta ucciso da altri due accademici, Chione e Leone (Filodemo, col. VI). Eveone di Lampsaco fu esiliato perché scoperto a tramare con l’intento di farsi tiranno della sua città; Timeo di Cizico tentò a sua volta di rovesciarne l’assetto costituzionale (Ateneo, XI, 508f sgg.). Corisco ed Erasto si associarono a Ermia, crudele tiranno di Atarneo, che consegnò loro la città di Asso perché la governassero: essi sarebbero invero riusciti a convincerlo a trasformare la tirannide in «un potere piú mite» (Filodemo, col. VI).
Secondo la più favorevole testimonianza di Plutarco, altri accademici avrebbero invece agito soltanto come legislatori delle loro città: così Eudosso per Cnido, Formione per gli Elei, Menedemo per Pirra (Contro Colote, 32)” (210). Più in generale, la linea politica degli Accademici era quella di riuscire a imporre, in una situazione decisamente sfavorevole, un programma politico, sociale ed economico decisamente egualitario utilizzando a tale scopo, come mezzo necessario per il conseguimento di questo alto fine, in modo diretto o indiretto, un potere di tipo dittatoriale. Del resto, per realizzare il loro disegno rivoluzionario erano consapevoli che la via più semplice e diretta era conquistare o portare dalla propria parte chi ha, attraverso il potere politico, un’ampia influenza sugli assetti economici e sociali.
A testimonianza della centralità nel programma politico degli Accademici dell’egualitarismo economico e sociale, Platone rinunciò alla proposta di elaborare una Costituzione per Tebani e Arcadici quando si rese conto che non sarebbero stati disponibili ad accettare l’eguaglianza dei beni. Se dal punto di vista di Platone la società migliore sarebbe quella indicata nella Repubblica, fondata sulla comunione dei beni, in situazioni più arretrate si poteva intanto puntare, come indicato dalle Leggi, a una parità di possessi fondiari. Peraltro tali prospettive non erano certo destinare a rimanere sulla carta o a rimanere delle utopie belle e impossibili, dal momento che, per esempio, un allievo di Platone, Cheiron, dopo aver conquistato il potere a Pellene, esiliò gli aristocratici assegnando agli schiavi liberati i loro beni.
Tali tentativi di imporre con ogni mezzo necessario un programma politico, economico e sociale radicalmente egualitario, testimoniano come nell’Accademia platonica “lontani e dimenticati apparivano dunque tanto il filosofo ascetico del Fedone intento alla salvezza dell’anima mediante la separazione dal mondo e dal corpo, quanto quello del Teeteto alieno da ogni coinvolgimento nelle vicende della politica. Molto più vicine, per contro, la vocazione della filosofia al potere e la sua pericolosa contiguità con la tirannide (da impiegare come rimedio estremo e ultimativo per una riforma radicale della città), evocate tanto nella «bella» Repubblica, quanto nelle «illegali» Leggi e nel Politico” (212).
Perciò Aristotele, per prendere decisamente le distanze dal suo ex maestro e dai suoi ex compagni, dovrà insistere in particolare sulla netta separazione fra attività politica e ricerca scientifico-filosofica. Tale posizione più consona all’andazzo dell’epoca ebbe la meglio, sullo spirito sovversivo, ormai fuori tempo massimo, dell’Accademia platonica. Come ha giustamente posto in evidenza Vegetti: “tutt’altra strada avrebbe preso l’Accademia dopo Aristotele, assimilandosi, a partire dal III secolo, all’esistenza meno turbolenta delle altre grandi scuole di epoca ellenistica” (213).
Presumibilmente la scuola platonica cessò di esistere nel I secolo a. C, ma già nel secolo seguente scuole platoniche furono rifondate nell’Impero romano. Nel 529, lo spirito intollerante del cristiano Giustiniano fece chiudere l’ultima scuola di Atene, circa mille anni dopo la fondazione dell’Accademia da parte di Platone. Gli accademici non si persero d’animo e vista l’irriformabilità dell’Impero romano, emigrarono in Persia dove c’erano condizioni più favorevoli a una influenza di scienza e filosofia sulla vita politica. Vegetti conclude ricordando come “dopo l’antichità e il silenzio medioevale, nel mondo moderno il nome «Accademia» ricomparve – a partire dal sodalizio platonico fondato a Firenze da Marsilio Ficino verso la fine del Quattrocento – per designare libere comunità di pensiero e di ricerca, filosofica o scientifica, contrapposte al dogmatismo scolastico imperante nelle Università ufficiali” [ibidem].
Fra l’interpretazione di Hegel, che vede nella forma dialogica un inutile orpello, che impedirebbe di conoscere in modo sistematico il pensiero di Platone, e quella di Cicerone che al contrario ritiene il costante dialogo privo di risposte l’essenza stessa della filosofia platonica, Vegetti trova migliore quest’ultima convinzione che sarebbe supportata dalla estrema varietà delle interpretazione della filosofia di Platone.
A partire dalla scelta di quali dialoghi privilegiare c’è stato “un platonismo scettico fondato sui dialoghi «aporetici», un platonismo politico e utopistico che dipende dalla Repubblica, uno spiritualistico ispirato dal Fedone, una cosmo-teologia originata dal Timeo, una dialettica metafisica dell’Uno che si richiama al Parmenide. Ognuno di questi platonismi ha attraversato la tradizione antica – ora divaricandosi dagli altri ora incontrandovi provvisori tentativi di sintesi – e ha lasciato le sue tracce, profondamente differenziate, nel pensiero medievale e moderno: tanto che parlare al singolare di un platonismo e di una tradizione platonica significa compiere un errore di metodo, perché comporta il privilegio storiografico di un punto di vista sistematizzante che è solo l’esito di una delle possibili opzioni esperite nell’ambito di un secolare lavoro ermeneutico complesso e intrinsecamente plurale” (216).
Note:
[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 201. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera, indicando in parentesi tonde il numero della pagina. Sempre fra parentesi tonde nel testo indicheremo le pagine delle opere di Platone e delle sue fonti antiche che citeremo.