Due documentari, This Change Everything ed El Impenetrable, recentemente presentati a Roma, che lasciano molto da pensare sull’importanza e i limiti delle lotte in difesa dell’ambiente e dei settori più deboli della popolazione mondiale. Nonostante emergano chiaramente i pericoli per la sopravvivenza stessa dell’umanità in un modo di produzione interessato solo a massimizzare i profitti di poche grandi imprese, i movimenti di resistenza non sono ancora in grado di delineare un modello di sviluppo più razionale.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Premiato al Toronto Film Festival e ispirato al best seller internazionale di Naomi Klein, compagna del regista Avi Lewis, This Change Everything è un documentario che non lascia indifferenti dinanzi agli spaventosi disastri ambientali che il modo di produzione capitalista, nonostante la devastante crisi, riproduce su scala sempre maggiore. Anzi, lo sfruttamento sempre più selvaggio delle risorse ambientali si rende necessario ora che i margini di profitto sono progressivamente ristretti. Questo modo di produzione, sempre più irrazionale, sacrifica così gli interessi dell’intero genere umano a quelli di un numero progressivamente ristretto di grandi proprietari. Tale ottica assolutamente miope non solo crea dei danni irreparabili all’ecosistema, ma produce sempre più oppressione, sofferenza e malattie all’intero genere umano e, in particolare, ai settori più deboli della popolazione.
El Impenetrable è un interessante documentario di Daniele Incalcaterra che, partendo da un caso specifico, fa emergere come le devastazioni ambientali non siano altro che le conseguenze delle politiche imperialiste che continuano a operare sotto forme diverse, ma che hanno alla loro base sempre gli stessi meccanismi, la medesima logica perversa.
This Change Everything, invece documenta in giro per il mondo le devastazioni prodotte dalla sete di profitto delle multinazionali occidentali che sfruttano senza pietà e senza preoccuparsi delle conseguenze le risorse naturali di quei popoli già aggrediti e depredati dal colonialismo e dal neocolonialismo.
Il film cerca, inoltre, di risalire alla logica che sta alla base della distruzione dell’ambiente e che mette in discussione anche la stessa sopravvivenza della specie umana sulla terra, ovvero il pensiero borghese moderno fin dalle sue origini. In particolare, il film denuncia la prospettiva dualistica che porta, a partire da Bacon e da Cartesio, a una netta contrapposizione fra soggetto e oggetto, fra piano umano della ragione e mondo della natura, considerando quest’ultimo come un territorio di conquista e di spoliazione da parte del primo. È proprio questa incapacità di riconoscersi nell’altro da sé, ovvero nella natura di cui l’uomo fa parte essendone il prodotto, a favorire questo rapporto di asservimento e di saccheggio delle risorse naturali, senza considerare che, infierendo sulla natura, l’uomo finisce per infierire su se stesso. Tanto più che tale perversa logica, che sacrifica all’utile particolare l’utile universale, è alla base dello stesso selvaggio sfruttamento, del completo asservimento delle popolazioni extra-europee, dal momento che la schiavitù che si imponeva ai loro corpi naturali sarebbe stata funzionale alla salvezza delle loro anime spirituali.
Nel documentario di Incalcaterra si assiste esterrefatti al perpetuarsi fino ai nostri giorni del saccheggio senza pietà delle risorse naturali dei paesi extraeuropei da parte dei discendenti ed eredi dei coloni occidentali. Nel caso emblematico rappresentato nel film, ovvero il Paraguay, abbiamo una violenta dittatura militare, coperta e sostenuta in primo luogo dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, che fa del proprio Paese un “far west”, terra di conquista alla mercé delle multinazionali internazionali e dell’oligarchia al potere, composta dai discendenti dei colonizzatori. Per cui amplissime porzioni del territorio del Paese, abitate da millenni dalle popolazioni autoctone già decimate dalle politiche coloniali e neocoloniali, sono cedute per cifre irrisorie alle poche famiglie di latifondisti che si spartiscono le risorse insieme a ricchi investitori stranieri, in genere affaristi privi di scrupoli, condannando la maggioranza della popolazione ad una miseria endemica e l’ambiente naturale alla progressiva desertificazione in nome della ricerca del profitto immediato e di una illimitata necessità di accumulare, imposta dalla spietata logica del mercato.
El Impenetrable si limita a documentare la lotta coraggiosa - ma dal valore soltanto di testimonianza - di un proprietario illuminato, lo stesso regista che, con il supporto di una Ong e sfruttando la più unica che rara parentesi nel Paese di un governo progressista (poco dopo travolto da un colpo di Stato soft, fortemente voluto dal premio nobel per la pace Obama), riesce a imporre un limite, anche se simbolico, allo strapotere delle multinazionali e allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Decisamente più significativo è, da questo punto di vista, This Change Everything che documenta lo sforzo compiuto dalle popolazioni locali, dai popoli del cosiddetto Sud del mondo, di auto-organizzarsi e lottare senza tregua in difesa delle proprie risorse naturali e di quell’ecosistema indispensabile allo loro stessa sopravvivenza naturale e materiale.
La prospettiva dei due documentaristi, che è poi quella dei ceti medi riflessivi che nei Paesi a capitalismo avanzato si battono per la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, presenta degli evidenti limiti che, più in generale, spiegano la modesta efficacia dei movimenti ambientalisti. Assistiamo, infatti, ad una inconsapevolmente reazionaria esaltazione della visione del mondo mitologico-religiosa delle popolazioni autoctone, che viene contrapposta, come un modello di cui riappropriarsi, al pensiero moderno occidentale. Si tratta di una prospettiva reazionaria simile a quella che portava i Romantici a scagliarsi contro i limiti dell’Illuminismo, in nome dei tempi oscuri medievali, o che porta la piccola borghesia a criticare la disumanizzante e alienante logica del capitalismo finanziario in nome di epoche ancora più irrazionali e caratterizzate dal rapporto servo-padrone, come le epoche poste agli albori dello sviluppo capitalistico.
Tanto più che tale reazionaria esaltazione delle antichissime tradizioni locali è propria più dello sguardo orientalistico del ceto medio riflessivo occidentale che delle stesse posizioni autoctone, le quali non intendono affatto rinunciare agli indubbi vantaggi offerti dalla scienza e dalla tecnica moderna per conservare i propri atavici modi di vita. Ciò appare chiaramente nel documentario di Incalcaterra, che spera di potersi liberare quanto prima della pesante eredità paterna, ovvero dei terreni in Paraguay acquistati dal padre che ha approfittato della svendita dei territori delle popolazioni autoctone da parte della sanguinaria dittatura fascista di Stroessner. Il regista si illude di risolvere il problema realizzando un film che immortali il suo nobile gesto di restituire agli indigeni la terra sottrattagli dalla cieca sete di profitto del padre. Tuttavia, come gli spiega un intellettuale impegnato del posto, gli autoctoni non intendono più vivere nel modo primitivo del passato. Come evidenzia involontariamente This Change Everything, la tanto inconsapevolmente esaltata mentalità primitiva non fa altro che rovesciare il rapporto servo-padrone imposto dal dualistico pensiero moderno borghese, ponendo al contrario la natura divinizzata o quale prodotto divino al di sopra dell’uomo. Tale situazione di soggezione e dipendenza dalla natura esterna può essere condivisa solo dai settori più conservatori delle società extra europee, i più interessati a mantenere quei rapporti sociali altrettanto improntati al dominio che in tali società si affermano e che non vengono mai presi in considerazione dallo sguardo orientalizzante dell’intellettuale occidentale.
Tali posizioni antimoderne, vicine a pensatori come Heidegger o alla teocrazia vaticana, che considerano lo sviluppo tecnologico e scientifico come il prodotto della hybris dell’uomo moderno, che intende assoggettare alla propria limitata ragione l’opera divina della natura, incontrano difficilmente consensi negli stessi Paesi in via di sviluppo. In tali Paesi non disprezzano affatto le conquiste della modernità, i frutti dello sviluppo tecnologico e scientifico e, nel momento in cui lo hanno assaporato, non intendono certo tornare allo stato precedente di sottosviluppo, come astrattamente e in modo irresponsabile auspicano gli occidentali sostenitori della decrescita e della necessità di contrastare il consumismo con uno stile di vita più austero, come se non bastasse la drastica riduzione dei consumi imposte dalla logica neoliberista dell’austerità.
Come è costretto a riconoscere lo stesso This Change Everything, nonostante sia a tratti accecato dal suo ideologico ambientalismo radicale, sino a che i Paesi del “Sud del mondo” sono in lotta per uscire dal sottosviluppo non hanno modo né tempo di occuparsi troppo delle problematiche ambientaliste. Solo nel momento in cui, in Paesi come la Cina, una parte della popolazione è ormai definitivamente uscita dal sottosviluppo e si è creato un ceto medio riflessivo, anch’esso sviluppa una coscienza ecologica finalizzata a difendere la propria nuova condizione di vita. Tanto che nel documentario appare evidente che i Paesi a capitalismo avanzato tendono a scaricare i costi sociali e ambientali del proprio sviluppo sui Paesi più arretrati del Terzo mondo. Oppure, come denuncia El Impenetrable, acquistano dai grandi proprietari del Sud del mondo il loro preteso diritto ad inquinare l’ambiente, mantenendo improduttivi i loro latifondi e consentendo ai Paesi imperialisti di proseguire indisturbati nella loro devastazione dell’ambiente in altre zone del mondo.
Dunque, nei Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, la lotta in difesa dell’ambiente si sviluppa essenzialmente come lotta per la difesa dei propri diritti dinanzi a imprese straniere, dei Paesi coloniali o dei discendenti dei colonizzatori, e non sono generalmente dettate da logiche reazionarie come quelle della “decrescita” o volte a idealizzare lo “stato di natura”. Ciò che generalmente manca nelle coraggiose lotte di resistenza dei popoli del Sud del mondo e nelle altrettanto coraggiose denunce dei documentaristi ambientalisti occidentali è la consapevolezza che il principale responsabile della distruzione dell’ambiente e della spoliazione delle risorse naturali dei Paesi sottosviluppati sia il capitalismo. Del resto, è proprio quest’ultimo che, nel tentativo di procrastinare nel tempo la crisi prodotta dalle sue intime contraddizioni, genera l’imperialismo con le sue guerre e la sua devastazione e saccheggio delle risorse naturali, a danni in primis dei più deboli.
In This Change Everything vi è soltanto una manifestante greca, contro la devastazione dell’ambiente da parte di una multinazionale canadese, che timidamente porta sul banco degli imputati il modo capitalistico di produzione. E, non a caso, delle diverse lotte documentate in tutto il globo le uniche che sembrano avere avuto un qualche esito positivo – oltre a quelle che hanno favorito in Cina la consapevolezza di sviluppare le fonti energetiche alternative – sono quelle hanno portato i greci ad eleggere un governo con un programma volto a impedire lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle multinazionali. Tuttavia, in questo documentario ispirato al best seller di Naomi Klein, la soluzione esemplarmente positiva viene invece individuata nella coscienza ambientalista che avrebbe portato il popolo tedesco a imporre un modello di sviluppo più ecosostenibile, proprio quello stesso popolo tedesco che ha sostenuto, con poche lodevoli eccezioni, il micidiale ricatto economico che ha imposto al governo greco di capitolare, cancellando brutalmente lo stesso principio di speranza che la sua elezione aveva suscitato.