La controrivoluzione di Trump

Il libro di Mikkel Bolt Rasmussen ci parla del fascismo non come una minaccia esterna ma una possibilità immanente insita nell’organizzazione capitalistica della società.


La controrivoluzione di Trump

È uscito, in lingua italiana, un bel libro e di agile lettura, l'autore, Mikkel Bolt Rasmussen, è uno storico dell'arte e marxista danese. Parliamo de “La controrivoluzione di Trump”, Edizioni Agenzia X, con prefazione e traduzione di Marcello Tarì, autore a sua volta di innumerevoli pubblicazioni.

Il testo è già stato oggetto di una bella recensione di Gigi Roggero che meglio di noi ha analizzato gli aspetti salienti dell'analisi di Rasmussen. La tesi centrale del testo parte dal presupposto che il fascismo non sarebbe l'antitesi della democrazia perché nasce, si sviluppa e vince in seno alla democrazia stessa, approfitta della crisi utilizzandola a fini reazionari.

E così Trump prende corpo da Occupy e dai movimenti antirazzisti (black lives matter) repressi con interventi militari nelle metropoli abitate da neri e si presenta come alternativa al liberismo e alla speculazione finanziaria cullata dai democratici. Lo fa con immaginari e linguaggi politici nuovi (quante analogie con Salvini!), adotta il linguaggio politicamente scorretto, fa del razzismo il cemento che tiene insieme tante posizioni.

Trump è la prova finale della trasformazione della politica costruita da immagini, quella spettacolarizzazione già analizzata mezzo secolo fa da Debord con le tesi sulla società dello spettacolo.

Non è la prima volta che dalla sconfitta di movimenti radicali protagonisti di lotte e scioperi e a lungo egemoni, prende corpo la reazione. Con le dovute distinzioni storiche è avvenuto con il nazismo e il fascismo – quest’ultimo dopo il biennio rosso – che vinsero le elezioni politiche salvo poi costruire regimi totalitari, reazionari e razzisti.

È innegabile che un messaggio accomuni tanto Trump quanto Salvini, entrambi sono ben consapevoli della crisi del sistema democratico, in entrambi i paesi la crisi attraversa anche il welfare, il mondo del lavoro. Si dichiara che l'uscita dalla crisi sia sostenuta da politiche anti immigrazione e dall'idea che ogni scelta debba salvaguardare prima gli autoctoni, siano italiani o americani è indifferente.

Ma il welfare americano non è mai stato tale, basti pensare che solo di recente milioni di cittadini hanno avuto accesso a un programma sanitario, per quanto ancora incentrato sulle assicurazioni e sui servizi privati. Ha quindi ragione Rasmussen a parlare di welfare bianco, nazionalista e discriminatorio verso le corpose minoranze etniche. Analogo discorso potremmo fare per il nostro welfare pensato per famiglie monoreddito nell'Italia degli anni sessanta, ben diversa dal paese odierno.

A dimostrazione di questa tesi stanno la infima percentuale di donne occupate al sud, gli asili nido pubblici che nelle regioni Meridionali sono una rarità, un welfare che non prevedeva fino ad oggi sostegni al reddito. Welfare incompleto e mai realizzato fino in fondo, anzi da anni soggetto a tagli e depauperamenti. La crisi della classe operaia e del ceto medio, la speculazione finanziaria ad acuire la forbice sociale e salariale, l’incapacità della sinistra tradizionale di rompere lo schema liberista: da qui nasce l'ascesa delle destre.

Non convince la vulgata ufficiale della sinistra contro Trump e Salvini, il politicamente corretto in antitesi alla scorrettezza dilagante, il parlar gentile contro il turpiloquio, l’educazione e la cultura contro le cattive maniere e la assenza di argomenti. Si tratta di semplificazioni che alla fine regalano i ceti popolari, più inclini al fascino dell'immagine, alle destre, mentre rassicurano il ceto medio e la politica dominante sulla credibilità della sinistra anche rispetto ai centri economici e finanziari dominanti.

La ricerca di personaggi che uniscano e non dividano per anni ha finito con creare da nulla leader destinati a durare poche stagioni, salvo poi scoprire la loro organica dipendenza da blocchi di potere antitetici agli interessi popolari.

Le tesi di Rasmussen in realtà hanno paternità illustri da K. Korsch ad Amedeo Bordiga, da Agamben agli operaisti, tutti uniti nel contestare la democrazia e la sua inadeguatezza nel fronteggiare il fascismo. Detto in altri termini il fascismo non rappresenta una minaccia esterna ma una possibilità immanente, il fascismo può rappresentare nelle sue varietà storiche e nazionali il superamento della crisi capitalistica. È già accaduto con il keynesismo di guerra 20 anni fa, accade oggi con Trump negli Usa.

Senza proseguire oltre nella disamina del libro ne consigliamo la lettura visto anche la scelta editoriale di contenerne il prezzo che va sempre apprezzata e sostenuta.

17/02/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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