Già altri lettori, prima di me, hanno suggerito l’appartenenza de La Città in riva al continente al romanzo di formazione. Mi riferisco alle recensioni e alle interviste alla web tv di Fronte Popolare, ma anche a più informali chiacchierate con gli amici davanti a una birra. Pur correndo il rischio di suonare ripetitivo, vorrei spendere due parole sulla Bildung di Sara, la protagonista del libro, in relazione all’esperienza romanzesca italiana.
Ma partiamo dal libro di Alessio Arena e più precisamente dai suoi primi indicatori interpretativi, cioè titolo ed epigrafe. La città in riva al continente rimanda a certe suggestioni presenti soprattutto all’inizio del percorso iniziatico di Sara. Ritrovandosi alla “frontiera impercettibile che separa la negazione dall’odio”, in quella fase preliminare di soglia descritta da Turner per i riti di passaggio, la giovane sceglie di fuggire dagli incanti di quel mondo. Una città irreale, illusoria, un non luogo che si colloca in riva al continente.
La propensione al lirico assume tonalità diverse a seconda che si tratti di una lettera, di un monologo o della voce narrante che si incarica di raccontare le vicende. Procedendo nella lettura, lo stile diventa più prosaico e vicino al resoconto. Ma si continua a respirare un clima di sospensione e di indeterminatezza quasi onirica, che attraversa gli incubi familiari. E si protrae fino a quando la narrazione trasognante si avvia verso il “risveglio” finale di Sara: una consapevolezza di chi ha ancora un po’ gli occhi assonnati. Verso un’autocoscienza quindi, anticipata dall’epigrafe di Eluard. La ragazza si incammina alla meta prima a uno a uno, e poi a due a due. Ovvero, l’anima solitaria diventa anima collettiva.
Potrei aggiungere che sono notevoli le descrizioni, le osservazioni psicologiche e in generale ciò che l’autore seleziona dalla realtà per mostrare ambienti, evocare atmosfere e ritrarre personaggi. Ci sarebbe anche molto altro da dire. In questa sede però vorrei fare una riflessione comparativa con la nostra tradizione letteraria.
Se c’è una caratteristica propria della formazione novecentesca è quella di sottrarsi in maniera irreversibile alle ipotesi di un’integrazione organica ed equilibrata del giovane protagonista all’interno degli statuti sociali del suo tempo. Caso esemplare è Agostino di Moravia, in cui l’omonimo personaggio scopre la realtà in modo crudele e ne rimane turbato. Manca in lui l’attraversamento, in cui soggettivamente e socialmente avrebbe acquisito uno statuto più adulto. Questa condizione si ritrova in altri romanzi. In Con gli occhi chiusi di Tozzi ci sono rivolgimenti ambigui, che lasciano intendere l’esclusione sociale e l’anaffettività di Pietro. I toni nostalgici dell’Isola di Arturo di Morante o le esperienze omoerotiche dell’Ernesto sabiano sono accomunati da un tragitto doloroso, che non conduce all’entrata in società, ma all’arresto del mondo adulto.
Così non è per Sara che varca la soglia e partecipa alla lotta, perdendo l’evanescenza originaria: “A tratti mi sento reale, concreta, definita al punto da esserne travolta”. Certo il percorso è ancora lungo, non meno di quello dei protagonisti dei romanzi citati. Ma se “fuori del limbo non v’è eliso”, per citare ancora Morante, è pur vero che qui, sulla terra, ci sono ancora spazi di autenticità, di aggregazione sociale, che c’incamminano alla meta.