In scena al Teatro Argentina di Roma, fino al 19 Aprile, la Carmen, diretta da Mario Martone e violentata da Iaia forte, è una rivisitazione del testo di Mérimée in salsa lazzaron-napoletana. Molte le differenze con l’originale, compreso il finale. Lo spettacolo, musicato dall’Orchestra di Piazza Vittorio, delude le aspettative. Non bastano infatti dei buoni ingredienti per cucinare una gustosa pietanza
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 5
Appena si alza il sipario si sente lo sciabordio delle onde e si capisce subito che non ci troviamo a Siviglia ma a Napoli, la Napoli dei bassifondi, della criminalità, della prostituzione ma anche della mescolanza di culture, di lingue e di musica che fanno della città il cuore del mediterraneo. È questa l’ambientazione che il regista Mario Martone sceglie per la sua Carmen, più incerto è invece il tempo storico in cui si svolge, che potrebbe ricordare principalmente la Napoli del dopoguerra, ma anche quella del dopo terremoto degli anni ’80. In realtà non è altro che la Napoli stereotipata dei lazzaroni che tanto piace agli “intellettuali tradizionali” pseudo di sinistra, che Martone aveva da poco presentato nella seconda parte del suo film su Leopardi, un’altra occasione mancata. Al centro della scena, e senza nessun effetto di straniamento, troviamo ancora quella schiera di sottoproletari che «... in tutte le grandi città [formano] una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società - gente senza un mestiere definito, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non perdono mai il carattere di lazzaroni» [1].
Basata, a detta dello stesso regista, più sulla novella di Mérimée che sull’opera di Bizet, la Carmen napoletana di Martone è un adattamento del testo di Enzo Moscato intitolato Lacarmén, ideata e realizzata dal Teatro Stabile di Torino (di cui Martone è direttore) in coproduzione con il Teatro di Roma. La Carmen sarà in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 19 Aprile, dal 5 al 17 maggio invece, andrà in scena al Teatro Strehler di Milano, inserito nel programma del «semestre Expo». Una ragione in più per boicottarlo, verrebbe da dire.
Lo spettacolo è tutto incentrato sulla protagonista, Carmen, interpretata da Iaia Forte, che a differenza della Carmen di Bizet, diventa anche la narratrice della storia (accanto a Don Josè) in quanto non muore, ma viene invece accecata dall’amante e, quindi, può raccontare a tutti noi il suo punto di vista.
Lo spettacolo sembra in effetti tagliato a bell’apposta sull’attrice partenopea che trasforma l’esotica gitana Carmen in una popolana lasciva e crudele, libera e infedele che si ritroverà poi cieca e maitresse di un bordello. L’aspetto di donna perduta e viziosa è fortemente ostentato, alcune volte un po’ sopra le righe, e sembra quasi che il personaggio chieda la nostra approvazione alle sue scelte amorali quasi fossero virtù. Siamo all’ormai scontata esaltazione del lazzarone, del Lumpen tipica di una sottocultura marcusiana e pasoliniana, evidentemente necessaria all’intellettuale tradizionale per realizzare la sua volontà di potenza. Si potrebbe dire che come il Lumpen può essere definito marxianamente un proletario che ha perduto la sua connotazione di classe, così un ex-intellettuale di sinistra è un intellettuale che ha abiurato la propria coscienza di classe. Del resto in senso lato il concetto di sottoproletario non connota soltanto gli straccioni, la «schiuma della società», ma più in generale i rifiuti di una classe sociale; dunque anche i bohémiens intellettualoidi, tanto che già Marx denunciava la «riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese». Da parte sua Gramsci parla a questo proposito di «ideologi declassés di tutte le classi: galli che annunziano un sole che mai non sorgerà» [2].
La forte presenza dell’attrice napoletana e della sua narrazione comporta la messa in secondo piano della musica e soprattutto del canto dell’opera di Bizet, che sembra essere piuttosto evocato a mo’ di ritornello quando se ne presenta l’occasione, ma che non riempie mai la scena in modo forte e deciso, a parte in alcuni momenti in cui si arriva a una sua distorsione pop. Ed è un peccato in quanto l’arrangiamento musicale è opera di Mario Tronco, direttore della multietnica Orchestra di Piazza Vittorio che esegue la musica dal vivo. Anche se in alcuni momenti l’Orchestra sale sul palcoscenico confondendosi con i personaggi dell’opera, non è mai veramente in primo piano a differenza, ad esempio, del Flauto magico, riadattato anch’esso dall’Orchestra di Piazza Vittorio, dove musica e canto emergono in tutta la loro originalità fatta di mescolanze di generi, di ritmi, di lingue.
In ogni caso la messa in scena di uno spettacolo più teatrale che musicale avrebbe dovuto comportare un maggiore approfondimento del testo, molto debole del resto, al fine di mettere in luce aspetti di denuncia sociale oppure di aprire a un prospettiva di riscatto. Tutto questo non c’è nello spettacolo che spesso, a causa di questa napoletanità vernacolare troppo esibita finisce in alcuni momenti per assumere aspetti grevi e grotteschi. Al gusto di rimestare nel torbido, di sguazzare nel lordume si sacrifica del tutto il godimento estetico garantito dalla pur leggerissima musica e canto della Carmen di Bizet, come la creatività straniante dell’orchestra di Piazza Vittorio che avevamo ammirato nell’interpretazione spiazzante e produttiva del Flauto magico.
Di sicuro effetto il palcoscenico sempre in movimento ideato da Sergio Tramonti, dove le quinte e le controporte si trasformano d’incanto nei vari ambienti della storia. La dinamicità delle scene, unita a una durata non elevata dello spettacolo (75 minuti), rende comunque questa Carmen partenopea molto ritmata e scorrevole fino alla fine senza annoiare troppo, a patto che si sia dormito a sufficienza la sera precedente. Ma da Martone, un’interpretazione della Carmen e l’Orchestra di Piazza Vittorio ci saremo aspettatati qualcosa di più, che un passatempo per pensionati borghesi, che non possono che apprezzare l’apologia di un ceto sociale sul quale la classe dominante ha sempre potuto contare nei momenti decisivi della lotta di classe, proprio perché il sottoproletariato vive al di fuori del lavoro sociale, è parassitario e possiede una mentalità antisociale, individualista e disponibile a ogni compromesso. Tanto più che, come osservava Gramsci, esiste un legame profondo fra il sovversivismo sottoproletario e quello delle classi dominanti. In particolare in Italia, non essendo «mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo», il sovversivismo dall’alto è «correlativo» a quello «primitivo ed elementare» dei subalterni, a cui manca la «coscienza esatta della propria personalità storica» [3]. «E quale esempio migliore del “sovversivo” Mussolini per esprimere praticamente questa relazione»? [4].
Note
[1] Karl Marx, Le lotte di classe in Francia, Editori Riuniti, Roma, p. 61.
[2] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, p. 1155.
[3] Ivi, pp. 324-5.
[4] Michele Filippini, sovversivismo, in Dizionario gramsciano, a cura di G. Liguori e P. Vozza, Carocci, Roma, p. 786, che rinvia a A. Gramsci, Sovversivismo reazionario, 22 giugno 1921, in Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Einaudi, Torino 1966, pp. 204-6.