La mostra, visitabile a Roma alle Scuderie del Quirinale fino al 21 giugno, ha come tema portante l’influenza della decorazione orientale sulla pittura di Matisse. Nonostante il sicuro effetto su un visitatore non smaliziato, grazie a questa sovraesposizione dell’esotico, dalla mostra risulta difficile sviluppare un giudizio complessivo sull’opera di Matisse e ancora più arduo formularne un giudizio critico.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Curata da Ester Coen, la mostra Matisse arabesque, alle Scuderie del Quirinale fino al 21 giugno, presenta 90 opere della produzione dell’artista, che comprendono oltre a dipinti, anche diverse opere minori come disegni e costumi teatrali. L’esposizione, più che essere una retrospettiva sull’autore, ha come tema portante l’influenza della decorazione orientale sulla poetica pittorica di Matisse. Grazie alla fascinazione per l’Oriente e per l’arte primitiva l’artista riesce a superare i canoni pittorici dell’Ottocento, fondando una nuova maniera espressionista, che porta alle estreme conseguenze la rivoluzione artistica inaugurata da Gauguin, Van Gogh e Munch.
L’orientalismo di Matisse viene infatti esposto senza straniamento, non si distinguono secoli e luoghi, ma le opere orientali sono esposte in modo estremamente disordinato e mescolate con l’arte primitiva. L'"Oriente", dunque, non rappresenta una qualche entità geografica o culturale concretamente determinabile, ma uno strumento utilizzato per ingabbiare le cosiddette culture orientali in formule stereotipe e generalizzanti. L’esposizione appare, quindi, un tipico della tendenza propria dell’orientalismo, criticata nell’omonimo saggio di Edward Said, tendente a considerare grandi complessi culturali, come l’Africa, l’estremo oriente, la Polinesia riassumibili in pochi caratteri generali stereotipati dallo sguardo occidentale incapace di reale riconoscimento.
Ogni sala è introdotta da dichiarazioni di Matisse tra le più disparate, senza nessun’altra spiegazione. Il gusto per l’esotico di Matisse, come di altri artisti a lui contemporanei, avrebbe dovuto essere indagato in modo maggiormente critico. Del resto le teorie orientaliste si sviluppano proprio nell’età dell’imperialismo e hanno rappresentato, anche se spesso in modo inconsapevole, uno strumento del dominio colonialista, allora, e neocolonialista oggi. Tanto più che proprio nell’età dell’imperialismo si diffonde in Occidente la poetica dell’evasione, tipica della cultura borghese del tempo, che rifiuta la società occidentale capitalista, ma la cui critica non comporta la trasformazione né il rinvio a una società maggiormente universalista. Come sottolineò bene György Lukács, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, siamo in presenza di una “cultura della crisi” e non di una “critica della crisi”. Anche perché l’esotismo e l’orientalismo si affermano nella cultura francese proprio dopo la pesantissima sconfitta del movimento rivoluzionario culminato nella Comune di Parigi, al quale così tanti grandi artisti avevano attivamente partecipato. È proprio la mancanza nei decenni seguenti di una credibile prospettiva rivoluzionaria a favorire in così tanti artisti francesi, a partire dai grandi poeti maudit (Baudelaire, Verlaine o Rimbaud), una fuga nei paradisi artificiali ed esotici dell’orientalismo.
Il gusto anticlassico e per tutto ciò che si presentava come “barbaro” era sicuramente un aspetto di rottura, di opposizione alla tradizione e al gusto borghese dominante. La poetica pittorica di Matisse, esponente di spicco dei fauves, pur se contiene indubbiamente questo aspetto, non è però radicale fino in fondo. Matisse mantiene nelle sue composizioni il senso dell’ordine e dell’armonia e, dunque, uno stile in senso lato classico rimane una costante delle sue opere. Per mantenere la fama di pittore alla moda, Matisse non rompe radicalmente con la tradizione, mantenendo nei suoi dipinti una certa disposizione naturalistica. Del resto anche quando è più vicino al grande insieme di artisti d’avanguardia che lavoravano a Montparnasse, Matisse se ne differenzia sempre per le sue sembianze conservatrici e i suoi costumi borghesi restrittivi. L’opera di Matisse è animata da un espressionismo decisamente meno radicale di quello di un Maurice de Vlaminck o di un Picasso o di un Georges Rouault, per non parlare di quello coevo tedesco, per la minore angoscia esistenziale e il minore intento polemico e critico nei confronti della società che esprime nelle sue opere.
Questo importante aspetto non emerge nella mostra, perché completamente assente è l’inserimento dell’opera di Matisse all’interno delle avanguardie della sua epoca. D’altra parte è proprio questa commistione fra l’avanguardismo e un certo gusto compositivo classico a fare ancora oggi la fortuna di questo pittore, capace di provocare un sicuro godimento estetico anche a un pubblico di non addetti ai lavori. Al contempo proprio questo compiaciuto e abilissimo equilibrio di avanguardismo e di godibilità rende poco drammatica, poco vissuta la produzione artistica di Matisse, che certo piace, ma non esalta, che impressiona ma lascia alla lunga piuttosto freddo uno spettatore riflessivo.
Le dieci sale delle Scuderie del Quirinale allestite su due piani di dipinti, oggetti, tessuti, suppellettili, maschere, paraventi, disegni, costumi (compresi quelli che Matisse realizzò per il balletto “Chant du Rossignol” nel 1925 aParigi) a parte l’effetto scenico, ci restituiscono poco dell’arte di questo significativo artista.
Inoltre al di là di un numero ristretto di opere, generalmente provenienti dalle collezioni russe [1], che testimoniano i ruggenti anni giovanili – in cui si realizza, nei primi due decenni del Novecento (fra il 1905-1917), l’intensissima fiammata dei fauves e più in generale l’internità di Matisse al movimento delle avanguardie storiche – la produzione seguente esposta risulta relativamente poco significativa. Il genio artistico di Matisse in tali opere sembra quasi totalmente esauritosi in una, per quanto certo abile, produzione di maniera, anche perché nella mostra sono assenti le opere più significative degli anni trenta e i gouaches découpés degli ultimi anni della sua produzione. Se, dunque, negli anni “selvaggi” dell’avanguardia, negli anni del confronto scontro con Picasso, Matisse ha creato una nuova modalità di espressione artistica, nei decenni successivi ha smarrito quella creatività originaria che sembrava dare luogo a fenomeni naturali, limitandosi a seguire la propria o l’altrui maniera. Le sue opere successive esposte non danno più l’impressione della perfezione, della organicità, che facevano sembrare l’opera giovanile d’avanguardia un organismo vivente quasi prodotto dalla forza generatrice della natura.
Per cui Matisse, ormai artista conclamato, dà essenzialmente l’impressione di essere sopravvissuto a se stesso e di non aver più nulla né di essenziale, né di nuovo e urgente da aggiungere. Perciò le sue opere certo incuriosiscono, restano godibili esteticamente, ma lasciano piuttosto distaccato e in fondo indifferente lo spettatore, che non si accontenta del piacevole, ma ricerca nell’esperienza estetica il bello. Anche la giovanile vivace irrequietezza, il per quanto anarcoide spirito di rivolta appare come acqua definitivamente passata, l’artista ormai affermato ormai tiene famiglia e amministra oculatamente il proprio prestigio. La sua Weltanschaung è decisamente edulcorata e da artista apocalittico Matisse è entrato a pieno titolo nell’ampia schiera dei pittori accademici integrati, con il suo stile “neoclassico” in cui l’elemento dionisiaco è quasi totalmente cancellato da una maestria decorativa in cui la grazia espositiva della superficie occulta ogni profondità e drammaticità del contenuto. Matisse è ormai entrato nel novero dei grandi classici inefficaci del passato, in quanto incapaci di una reale presa sul presente.
La sua parabola ricorda appieno quella dei “giovani” criticati da Hegel, che appunto mirano essenzialmente con il loro spirito di rivolta a prendere il posto dei padri. Tale attitudine giovanile in Matisse si esprime essenzialmente in quadri dai colori violenti, puri, spesso dissonanti, dove la potenza espressiva “selvaggia” spazza via ogni residuo di naturalismo. In tal modo Matisse rompeva in modo radicale con l’arte accademica, disinteressandosi del significato dell'opera e puntando tutto sulla potenza espressiva più originaria, da qui il culto per il primitivo, per l’immediatezza della pura forma, del puro colore, spesso spremuto direttamente dal tubetto sulla tela. In tal modo Matisse individuava un rivoluzionario, dal punto di vista formale, modo espressivo fondato sull’autonomia del quadro: il rapporto con la realtà visibile non era più naturalistico, in quanto la natura era intesa come repertorio di segni al quale attingere per una loro libera e tutta soggettiva trascrizione. Questa era indubbiamente al contempo la grandezza e il limite dell’arte di Matisse tutta formalista, il chiaro indizio che la sua rivolta era in fondo interamente rivolta a fondare una nuova maniera e poco interessata a contribuire alla fondazione di un nuovo mondo nonostante la crisi della società capitalistica, resa drammaticamente evidente dalla prima guerra imperialista mondiale.
Una volta conquistata una posizione più o meno confacente con le proprie ambizioni e i propri meriti i giovani, come sottolinea ancora Hegel, tendono a relegare del tutto nel passato lo spirito rivoluzionario e a sviluppare un’attitudine essenzialmente conservatrice, che in Matisse appare evidente sin dal primo dopo guerra in cui si assiste a un deciso rilassamento e ammorbidimento del suo approccio, indizio di un progressivo e ormai sostanzialmente irreversibile ritorno all'ordine. Così negli anni della maturità, la attività pittorica di Matisse si è svolta quasi esclusivamente nel suo quieto e intimistico ambiente familiare, sempre più distante dal drammatico mondo storico, dalla "cage aux fauves" della sua fase avanguardista, tanto da apparire sempre più estraneo agli stessi clamori della vita. L’elemento decorativo e la maestria compositiva avevano ormai del tutto il sopravvento sulla potenza espressiva degli anni giovanili.
Al solito la mostra alle Scuderie del Quirinale presenta alcuni dei suoi pezzi migliori nella prima sala, in cui troviamo due opere di grande rilievo Calle, iris e mimosa, proveniente da Mosca, e Scultura e vaso con edera, realizzate fra il 1913 e il 1917. Anche se proprio la datazione delle opere non può che far riflettere su come quest’artista in anni così drammatici per il suo paese e, più in generale, per l’Europa fosse in grado di barricarsi a tal punto nella sua torre d’avorio da baloccarsi nell’illusione che la Belle Époque non fosse precipitata nel macello della prima guerra inter-imperialista mondiale. Molto interessante nella prima sala è anche Angolo di tavola (Violette) opera del 1903 circa, unica opera giovanile esposta, antecedente all’esplosione del fauvismo. Per tornare al livello della prima sala bisogna attendere I pesci rossi del 1911, anch’essa proveniente da Mosca, con cui si conclude il percorso espositivo, in una sala, la 10, in cui c’è davvero poco altro di memorabile. Decisamente sotto tono, come accade troppo spesso alle Scuderie, sono in generale le sale espositive disposte al piano superiore, in cui spiccano quasi unicamente oltre agli interessanti Bozzetti per Le Chant du rossignol della sala 8, la Spagnola con tamburello (1909) della sala 7, anch’essa proveniente da Mosca, l’unica opera esposta afferente propriamente al periodo del movimento dei Fauves. Nel piano inferiore alla sala 4 di sicuro interesse, in cui sono esposte ampie testimonianze pittoriche del soggiorno di Matisse in Marocco, fa riscontro la sala 3 decisamente sotto tono. Nella seconda sala incontriamo opere di indubbio interesse, anche se non provocano il godimento estetico di quelle esposte nella prima sala, come Le tre sorelle, L'italiana, il Ritratto di Yvonne Landsberg e Giovane con copricapo persiano, insieme a opere decisamente più tarde e molto meno significative. Discorso analogo vale per la sala 5, dove a fianco di opere che testimoniano ancora la significativa produzione maghrebina di Matisse vi sono opere successive di valore decisamente inferiore.
Note
[1] Si tratta di opere testimoniano la sensibilità per questo artista di grandi collezionisti russi come Sergei Shchukin.