Era il 1973 quando allo GNAM di Valle Giulia il critico e storico dell’arte Cesare Brandi curò una grande esposizione su Giorgio Morandi. Dopo 42 anni Morandi torna a Roma: Giorgio Morandi 1890-1964 è la mostra dedicata al pittore bolognese che possiamo ammirare nel Complesso del Vittoriano fino al 21 giugno.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 7,5
L’esposizione, al contrario di quella dedicata a Matisse alle Scuderie del Quirinale, è curata nei minimi dettagli da Maria Cristina Brandera, grande esperta di Morandi e direttrice della Fondazione Longhi e già curatrice nel 2008 di una importante mostra su Morandi al Metropolitan Museum di New York. Al solito però lo spirito della mostra è decisamente acritico, ossia improntato al consumismo dell’industria dello spettacolo per cui si tende ad accentuare unicamente gli aspetti progressivi del pittore esposto, tacendo completamente i limiti storici della sua opera. Anzi si tende al solito a non sottolineare gli alti e bassi della carriera del pittore, né si distinguono a dovere le opere riuscite da quelle meno, i capolavori dai semplici esercizi manieristici. La logica del mercato, che impone di vendere il prodotto a ogni costo, ha dunque, come di consueto, il sopravvento sullo spirito critico.
La retrospettiva in mostra a Roma ricostruisce la vicenda artistica del pittore bolognese attraverso un percorso cronologico e tematico al tempo stesso che si snoda attraverso una selezione di più di cento opere, la maggior parte delle quali di buon livello. Oltre ai dipinti a olio, sono esposti i disegni, gli acquerelli e le incisioni ordinati in un percorso che ci permette di attraversare il cammino di ricerca dell’artista, ma anche di cogliere la grandezza della sua pittura e ciò che l’artista stesso considerava il fine della sua opera, ovvero “toccare il fondo, l’essenza delle cose”, accentuando il distacco fra il dato apparente e la sua essenza nascosta e, in qualche modo, inarrivabile.
Si tratta di una mostra difficile, che si rivolge a un pubblico culturalmente disponibile a farsi coinvolgere in una esperienza estetica il cui godimento difficilmente è immediato. La pittura di Morandi è senza dubbio una pittura difficile, che può apparire addirittura fredda e indifferente allo sguardo di uno spettatore poco avvertito e dal gusto non sufficientemente coltivato. Tanto più che al di là dei primi quadri esposti, in cui Morandi dipinge a grandissimi livelli alla maniera delle principali avanguardie storiche, che si sviluppano in Italia fra gli anni dieci e gli anni venti, in tutte le opere successive, che rappresentano i quattro quinti dell’opera del pittore e di conseguenza della mostra, appare evidente la completa indipendenza di Morandi dal gusto astrattista dominante nel mondo occidentale. Anzi l’ostinata figuratività della sua pittura appare tanto più estranea al gusto imposto dall’industria culturale ai consumatori museali per la sua esclusività ed elezione tanto da apparire antica nella sua classicità.
Questa ampia rassegna su Morandi è estremamente esaustiva in quanto la varietà delle opere scelte tiene conto di tutte le tecniche di espressione dell’artista a partire dalle incisioni, di cui gli fu riconosciuta la grandezza anche prima di quella pittorica: Morandi ottenne nel 1930, grazie alla sua raffinata attività di incisore, «per chiara fama» (senza concorso) la cattedra di incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, che tenne per 26 anni. Grazie a questa mostra è possibile ammirare le incisioni dell’artista con le lastre originali in rame conservate nei depositi della Calcografia nazionale a Roma. Oltre alle tecniche, particolare attenzione viene data ai temi ricorrenti nella vicenda artistica di Morandi quali l’autoritratto, le nature morte, le conchiglie, i paesaggi e i fiori.
Altro aspetto che emerge da questa bella esposizione è come il suo isolamento – Morandi svolse tutta la sua attività artistica nell’atelier bolognese di via Fondazza [1] – non gli impedì di raccogliere le suggestioni che provenivano dalle varie avanguardie europee pur mantenendo una costante attenzioni per i grandi del passato come Giotto, Masaccio, Piero della Francesca fino a Rembrandt e, soprattutto, a Cézanne.
La mostra, seguendo un rigoroso ordine cronologico, mostra prima le opere dell’esordio negli anni dieci, quando l’artista non era ancora apprezzato dalla critica d’arte e ne ripercorre gli anni della formazione artistica: prima l’accostamento al filone innovatore del futurismo e poi soprattutto l’influsso di Cézanne, artista culto del movimento cubista cui Morandi si avvicinò dopo aver abbandonato il futurismo. Contemporaneamente nasceva la pittura metafisica alla quale Morandi ha fornito opere di rilievo.
Gli anni venti sono invece quelli in cui c’è un rinnovamento nella visualizzazione dell’oggetto da parte di Morandi, gli anni in cui elabora un nuovo senso della luce e dello spazio e dove sono presenti in nuce tutti i temi che svilupperà in seguito. Nella nuova pittura di Morandi «la luce è come se fosse la trama stessa dell’immagine sull’ordito dell’oggettualità plastica» [2]. È in questo periodo che Morandi diviene pienamente se stesso, smette di dipingere, sebbene in modo mirabile, alla maniera di, e diviene un’artista di genio, che fonda una nuovo stile pittorico, dando così una nuova regola alla pittura. Così l’elaborata sintesi che da questo momento in poi si pone «alla base della sua pittura», per citare ancora il grande critico e massimo interprete del pittore bolognese Cesare Brandi, «spiega chiaramente come Morandi, dalle giovanili sublimi astrazioni, sia potuto passare ad una prensilità nuova sull’oggetto: sapeva bene come padroneggiarlo, perché non divenisse naturalistico, perché la sua struttura pittorica non fosse meno rigorosa e impeccabile delle geometrie solide che aveva elaborato fin d’allora» [3].
Con gli anni trenta e quaranta gli oggetti delle natura morte di Morandi sono sempre più smaterializzati, le forme assumono profili incerti, producendo un presumibilmente inconsapevole effetto di straniamento [4]. Tale effetto, impedisce una fruizione acritica dell’esperienza estetica, facendo avvertire nel modo più schietto la distanza che necessariamente intercorre fra l’oggetto di natura rappresentato e l’immagine che da esso si diparte. Quest’ultima è riprodotta sulla tela con mezzi rigorosamente pittorici che operano una netta cesura fra la presenza subitanea e irrefutabile che l’immagine realizza e la flagranza dell’oggetto sensibile che è solo apparentemente lo stesso, in quanto Morandi non fa alcuna concessione al revancismo naturalista [5].
Oltre le nature morte, troviamo esposti di quegli anni anche i paesaggi essenzialmente di Grizzana, la casa estiva del pittore e di Via Fondazza a Bologna, dove Morandi ha vissuto e lavorato dal 1910 al 1964, in cui tutto è ridotto all’essenziale e assume in un certo senso un tono drammatico. Notevole la serie dei Fiori, tema ricorrente negli anni Quaranta e Cinquanta, dove l’artista evidentemente sente l’influsso di Renoir, nonché dell’arte orientale. «Eppure dall’Impressionismo in poi, nessuno ha dipinto fiori così conturbanti, nella loro verità di pittura, e così austeri nella formulazione» [6].
Ciò che si nota è come le ultime opere dell’artista siano sempre più scarne ed essenziali, sintomi di un percorso volto principalmente alla perfezione nella rappresentazione della forma pittorica che porta a spogliare l’oggetto dell’aspetto naturalistico, e in un certo senso anche contenutistico.
Ciò che ci rimane alla fine di questa bella esposizione è la consapevolezza di trovarci di fronte alle opere di uno dei più grandi pittori formalisti del Novecento. Il problema però è tutto qui, ossia la grande arte di Morandi è una rappresentazione esemplare della concezione formalista dell’arte per l’arte. Tale concezione, evidentemente, non può che andare a genio a un critico d’arte di stampo crociano come Longhi, che ha avuto l’indubbio merito di aver per primo riconosciuto la grandezza dell’arte di Morandi, mentre non può che essere considerata con sospetto non solo da una critica marxista, ma più in generale da una critica ispirata a una concezione del mondo razionale. Da questo punto di vista non è possibile non cogliere come l’arte di Morandi non sia affatto un’arte critica della propria epoca storica, sebbene non né apologetica, tanto da essere stata avversata dal fascismo [7], né conformista, rompendo con il dominio incontrastato dell’astrattismo nel mondo occidentale. L’opera di Morandi ha scarso valore non solo dal punto di vista del realismo, del tipico, della prospettiva storica, ma anche come rappresentazione sensibile del sopra sensibile, come espressione dello spirito assoluto, come mimesi e catarsi. Tale impostazione non può, dunque, essere accolta acriticamente da una critica di impostazione non solo marxista, sia di stampo francofortese che luckacsiano, ma neanche da una critica di impostazione hegeliana, kantiana e persino aristotelica. La poetica di Morandi appare invece del tutto conforme alla concezione conservatrice dell’estetica di Croce, che ha dominato in Italia nel corso del Novecento, pur dovendosi confrontare nel ventennio con la concezione fascista e nel secondo dopoguerra con la concezione realista di impronta marxista.
La pittura di Morandi è, dunque, un’esemplare dimostrazione del carattere di passatezza che acquisisce l’opera d’arte nella nostra epoca, ossia di quella che Croce definiva impropriamente morte dell’arte. Siamo, dunque, di fronte a una raffinatissima espressione della cultura della crisi, che non è però in grado di ergersi al contempo a denunzia della crisi, la quale è per così dire interiorizzata e, dunque, in qualche modo naturalizzata.
In conclusione ci piace ricordare una significativa riflessione di Brecht sui limiti dell’arte pura:
Me-ti [che rappresenta Brecht in quanto marxista] disse: Recentemente il poeta Kin-jeh [che rappresenta Brecht in quanto poeta] mi chiese se coi tempi che corrono fosse lecito scrivere poesie su impressioni naturali. Gli risposi di sì. Quando lo incontrai di nuovo, gli chiesi se avesse scritto poesie su impressioni naturali. Mi rispose di no. Gli chiesi il perché. Disse: Mi posi il compito di trasformare il rumore delle gocce di pioggia che cadono in una sensazione piacevole per il lettore. Riflettendoci sopra e buttando giù un verso qua e là, capii che era necessario trasformare questo rumore di gocce di pioggia che cadono in una sensazione piacevole per tutti gli uomini, quindi anche per coloro che non hanno tetto e a cui le gocce cadono sul collo mentre tentano di dormire. Di fronte a questo compito mi scoraggiai.
L’arte non conta solo sul giorno d’oggi, dissi facendo il tentatore. Dato che di queste gocce di pioggia ce ne saranno sempre, una poesia di questo genere potrebbe durare a lungo. Sì, disse lui tristemente, quando non ci saranno più uomini a cui cadranno sul collo, allora la si potrà scrivere [8].
Note
[1] «Una vita tutta dedicata alla pittura, alla famiglia, a pochi amici modesta ma non meschina, schiva e cosciente ma non presuntuosa» (Cesare Brandi, Morandi, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 108). Si tratta, d’altra parte, di una ordinata ritirata, nella sfera etica privata della famiglia e della società civile, dinanzi al mondo grande e terribile, alla tragicità di un corso di storico di cui si è attoniti spettatori più che protagonisti. Una vita, dunque, tutta dedita a contribuire allo sviluppo della storia della pittura, idealisticamente intesa non come sovrastruttura, ma come sfera autonoma della pura arte.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 109.
[4] «Via via che dall’iniziale 1920 ci si muove lungo il suo percorso, troncato nel 1964, l’elaborazione pittorica si articola nel senso di una progressiva spoliazione chiaroscurale e di una luminosità sempre più radiante» (Ibidem).
[5] Ciò appare nel modo più evidente se si raffrontano gli oggetti reali che Morandi amava dipingere esposti nella mostra con la loro trasfigurazione pittorica.
[6] Ivi, p. 111.
[7] Come osserva a ragione ancora Brandi: «osteggiata dal fascismo, la pittura di Morandi, che non celebrava il Duce, né l’Etiopia, né la battaglia del grano, ha sempre visto, e inopinatamente, riscoppiare ostilità al suo piede» (Ibidem).
[8] B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1965], trad. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970, p. 103. Sul tema dell’arte pura cfr. anche Ivi, pp. 75-76 e pp. 95-96.