Il primo lungometraggio del regista siciliano assistente di Sorrentino nella “Grande bellezza”. L’elaborazione del lutto per la perdita di un figlio. Ispirato al dramma “La vita che ti diedi” di Pirandello. Suggestiva l’interpretazione della Binoche, nei panni della madre. Dicotomie volute da Messina per evidenziare il contrasto fra verità e negazione della realtà.
di Alba Vastano
Si può restare senza parole, senza commento alcuno per lungo tempo. Questo l’impatto emotivo che può riportare chi ha visto il film “L’Attesa” di Piero Messina. Regista siciliano al suo primo esordio, che ha voluto calare nella sua terra d’origine il suo primo lungometraggio, discostandosi dalla scuola di Paolo Sorrentino, di cui è stato assistente alla regia nei film “ This must be the place” e “La grande bellezza”.
Un tema delicatissimo che accompagna la pellicola fino al “the end”, quello della complessa elaborazione del lutto per la perdita di un figlio. Una madre non può ammetterlo, non riesce a proferire la frase più difficile per lei, “ è morto”. Un figlio non può morire prima di sua madre. È innaturale e inconcepibile per chi gli ha dato la vita e per lei la vita finisce con l’ultimo respiro di suo figlio. Diventa statua di sale. Si trasforma nella Pietà michelangiolesca e su di lei i segni del dolore, per sempre. Sul volto di Juliette Binoche, la protagonista del film, gli stessi segni di un dolore devastante dalla prima inquadratura. Un’altissima interpretazione quella dell’attrice francese, espressiva da togliere il fiato.
Messina, il regista, nell’elaborazione della sua opera, si è liberamente ispirato al dramma di Luigi Pirandello scritto per Eleonora Duse agli albori del secolo e interpretato nuovamente nel ‘42 da un altro mito del teatro italiano, Paola Borboni.
“Come debbo dire io ora? Debbo dire che io, io, non sono più viva per lui, poiché egli non mi può più pensare! - E voi invece volete dire che egli non è più vivo per me. Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so!”
(Luigi Pirandello, La vita che ti diedi)
L’idea dell’attesa, nel film del regista sorrentiniano, è in quell’anestesia che la mente di una madre trafitta da una tragedia ingestibile e immensa, si concede per sopravvivere alla sopraffazione di un dolore impossibile da vivere nella realtà, in attesa di elaborarlo. E inizia a mentire, a raccontare a se stessa e all’ospite inattesa, compagna di Giuseppe, il figlio perduto, una verità contorta e distorta che sostiene a lungo in tutta la vicenda. Un rituale liturgico accompagna l’incontro fra le due donne Anna e Jeanne. Ambientato in terra siciliana, sulle falde cineree dell’Etna, la vicenda assume sovente contorni di suspense, da mozzafiato, e per la suggestiva ambientazione e per la struggente recitazione della Binoche, ma anche per la superba interpretazione della giovane attrice francese, Lou de Laage.
La trama
Inizia la pellicola con la celebrazione di un rito funebre, in una chiesa dell’entroterra siciliano. Sorprendente l’inquadratura in primo piano delle gambe femminili da cui scende un rivolo, d’inequivocabile origine. È il dolore immenso di Anna, la madre del defunto Giuseppe a procurarlo. Il dolore fa anche questo, fa perdere il controllo. E poi il volto.. Uno sguardo perso, umido,lacrime soffocate, strozzate in gola che non riescono a defluire. Dotti bloccati. Volto di pietra. Il buio avvolge l’esistenza della madre. E poi la casa, un villino siciliano di stile gattopardesco, con grandi stanze cupe. Ed emerge la figura di un oscuro personaggio, un maggiordomo dallo sguardo grave che si affretta a coprire con teli neri quadri e specchi della casa, mentre vi si aggirano parenti silenziosi.
Dalla Francia arriva lei, Jeanne, compagna di Giuseppe, scortata verso la casa dal fido servitore di Anna. Dall’aeroporto alla casa, un paesaggio un po’ surreale. Uno spaccato del paesaggio siciliano muto e silente, a ridosso del vulcano. Le parole non ci sono in questo film, non servono. Solo occhi smarriti e sguardi di incredulità nell’incontro fra le due donne. E inizia l’attesa. L’attesa di Anna, che utilizza l’arrivo della giovane per avventurarsi nella menzogna e sospendere una realtà maligna. Così dichiara alla giovane che il funerale appena celebrato è quello di suo fratello e le lascia intendere che Giuseppe arriverà. Sms di Jeanne a Giuseppe rompono sovente il silenzio della casa, mentre gli sguardi furtivi di Anna verso la giovane denotano insofferenza, dettata dalla paura di dover ammettere la realtà.
Per tutelarsi dal dolore Anna compie un transfert nell’attesa della giovane, che è lì per riunirsi al suo compagno e ne sta attendendo il ritorno. La donna sospende il suo dramma e prova a vivere, a respirare di nuovo. Mette in standby il suo dramma interiore. Al rifiuto iniziale di Anna di condividere la presenza della giovane fidanzata del figlio, il regista oppone una svolta. La madre accetterà di condividere con Jeanne alcuni momenti di vita quotidiana. Le preparerà una gustosa colazione, pranzerà con lei, l’accompagnerà al lago, per poi fuggire tormentata dal dolore e lasciarla sola. Uno scorcio di vita sembra illuminare l’atmosfera cupa della casa, quando la giovane, ancora ignara della morte del compagno, si abbandona in una inconsapevole, quanto sensuale performance con due giovani, sulle note di un suggestivo brano di Leonard Cohen, voce di un elegante e sofisticato erotismo che esalta la situazione ad hoc.
Scene finale dal paese etneo, in cui si Anna si avventura chiusa costantemente nella sua dolorosa solitudine di ghiaccio, della processione folkloristica della settimana santa sui suoni gravi in cui sembra troneggiare la signora della morte. Simbolo della passione di Cristo e della Mater dolorosa.
Un film pervaso da continue dualità, da dicotomie. La luce dei raggi del sole che filtrano nella casa chiusa a lutto e il buio degli interni. La realtà della morte e la negazione di essa. I paesaggi etnei coperti di nera lava e la vivida luce che li illumina. Così la giovinezza e la vitalità della giovane Jeanne soffocata dalla tragedia e dal lutto. Il film, pur essendo di grande impatto emotivo, si sviluppa incastrandosi nella vicenda e soffocando le emozioni. Manca forse il pathos espresso che libera il dolore, mancano le parole che lasciano troppo spazio alle immagini e ai paesaggi, Ma forse è questo che lascia lo spettatore senza fiato, gli interminabili silenzi e la visione costante del dolore negli occhi della protagonista. Il finale risolve. Le due donne finiscono per parlarsi liberandosi l’una dalla menzogna, l’altra da un’inutile attesa e compiono, abbracciandosi nel saluto definitivo, un atto di amore e di libertà.