Riflessione critica a partire da tre spettacoli e una mostra di quest’autunno romano che, pur nella loro diversità, sono il sintomo della decadenza di questa città e di questo Paese: un’offerta culturale mediocre e un pubblico acritico pronto a riconoscersi in questo deserto del reale e ad autoconvincersi di aver assistito in ogni caso ad un evento.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
May Be
Voto: 3,5
All’interno della rassegna Roma Europa Festival è andato in scena al Teatro Argentina lo spettacolo di teatro danza May be di Maguy Marin. May be è un omaggio a Samuel Beckett ideato dalla danzatrice e coreografa nel 1981. Sono novanta minuti di spettacolo senza intervallo, novanta minuti che nel migliore dei casi annoiano, nel peggiore infastidiscono sia per la mancanza di contenuto, sia per l’inconsistenza della forma. In particolare la danza, cuore dello spettacolo, è programmaticamente rappresentata nel modo più sgradevole immaginabile, in quanto mira a mettere in scena la sua assoluta negazione, ossia la completa disarmonia. In tal modo la possibilità stessa del godimento estetico è negata alla radice.
L’originalità e novità di questo famoso spettacolo sembra, così, la sua pretesa di rappresentare il puro negativo, mediante la negazione radicale di forma e contenuto, secondo un modello che allora poteva apparire originale ma che oggi, in piena vulgata postmoderna, non può che apparire scontato. Il minimalismo della rappresentazione è appesantito dalla costante ricerca dello squallore che generalmente sfocia nel grottesco. Tale prospettiva nichilista finisce con il far scomparire tutto il resto, ossia ciò che fa di una rappresentazione un’opera d’arte; qualsiasi rapporto con la storia, la società, le diverse classi è radicalmente negato.
Segno dei tempi, d’altronde Maguy Marin, già danzatrice di Maurice Béjart e poi coreografa del teatro impegnato negli anni Settanta, all’inizio degli anni Ottanta dall’incontro con Beckett ricava questo spettacolo, che segna una profonda cesura con i contenuti progressisti messi in scena negli anni precedenti. La sovrastruttura culturale riflette così la mutata struttura sociale: sono ormai gli anni della crisi economica e della conseguente sconfitta delle strategie riformiste e tradeunioniste, dell’involuzione del blocco sovietico, con il conseguente rovesciamento dei rapporti di forza nella lotta di classe anche a livello culturale. L’egemonia della classe dominante, messa seriamente in questione negli anni precedenti, è – all’inizio degli anni Ottanta – in grado di riprendere progressivamente il controllo, al punto che negli ultimi anni si parla di “pensiero unico”.
Colpisce la acritica riproposizione di questo spettacolo oggi, 25 anni dopo, segno della crescente difficoltà a produrre qualcosa di nuovo anche a livello ideologico. Ancora più grave il fatto che nel patrimonio degli spettacoli del passato si vada a ripescare uno spettacolo tutto sommato mediocre come questo, riproposto senza nessun distacco critico.
Altrettanto privo di distacco critico appare il pubblico, sempre più negativamente segnato da un ventennio di dominio incondizionato dell’ideologia postmoderna e del pensiero debole. Impressionano, così, in modo particolarmente negativo gli applausi scroscianti del pubblico, verso uno spettacolo decadente ed elitario, indizio di uno spettatore medio sempre più acritico e che tende a riconoscersi incondizionatamente in questo deserto del reale, ossia nel piatto orizzonte nichilista della vulgata postmoderna.
Casa Patas en Roma
Voto: 5,5
Lontano dall’elitismo di May be è invece lo spettacolo Casa patas en Roma, all’interno del Festival di Flamenco svoltosi all’Auditorium Parco della Musica dal 5 all’11 Ottobre. Casa patas è uno storico locale di Madrid, punto di riferimento del flamenco, il cui palcoscenico è stato calcato dai ballerini più celebri di quest’arte. A Roma si esibisce un quintetto composto da due cantanti, due danzatori, un uomo e una donna, e un musicista.
Lo spettacolo è godibile, ma è fin troppo nazional-popolare, ai limiti del folkloristico anche se non li oltrepassa mai. La danza è appassionata e sentita, ma la coreografia è piuttosto “sporca”, non curata nel dettaglio, quasi a voler dare l’effetto dell’improvvisazione, aspetto che sembra emergere anche nel canto. Sembra un flamenco d’antan, dall’anima popolaresca, ancora non raffinato dalla contaminazione con la danza classica. I ballerini sono molto sanguigni, tanto da apparire a tratti sciatti e, in generale, esteticamente poco curati. Dominano gli assoli, l’uomo e la donna non ballano mai insieme, così non emerge mai l’aspetto armonico della danza, ma solo lo spirito dionisiaco del movimento senza freni proprio di un assolo appassionato e improvvisato. Segno anche che i membri del gruppo sono stati assortiti in maniera poco organica, quasi si trattasse di un saggio di artisti non abituati a lavorare assieme.
Anche se fortunatamente lo spettacolo non è una rivisitazione postmodernista del baile, è forse troppo tradizionalista, quasi che il processo di innovazione iniziato negli anni Settanta dal grande ballerino e coreografo Antonio Gades non ci sia mai stato.
Il livello del cante del baile e del toque è buono, anche se tra il quintetto non spicca nessuno in particolare, tanto che in assenza del baile, l’aspetto più spettacolare del flamenco, la parti solo cantante o gli assoli con la chitarra risultano alquanto noiosi.
Gli spettatori dalla platea partecipano con vigore e applaudono sentitamente, anche in questo caso in modo piuttosto acritico, quasi si trattasse di un riflesso condizionato o della necessità di autoconvincersi di aver assistito in ogni caso a un evento.
Ascesa e caduta della città di Mahagonny
Voto: 5
Il teatro dell’opera di Roma mette in scena Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Bertold Brecht e Kurt Weil. Mahagonny è la città-ragnatela che promette ricchezza facile e divertimento, una sorta di Las Vegas che attira lavoratori ingenui e scontenti di tutto il mondo per spogliarli dei frutti del loro lavoro; è la città trappola dove si diventa schiavi di tutto ciò che si desidera e che non si riesce a ottenere. Il bersaglio di Brecht è la società consumistica del tempo, che somiglia molto all’attuale e che rivela l’illusorietà del sogno americano che ammaliava la Germania del tempo, sconvolta dalla crisi. L’opera è una contaminazione tra teatro, musica colta e musica popolare; gli autori infatti si servono degli elementi tipici della cultura americana del tempo, dalla canzone popolare, al jazz e al cabaret, al fine di sviluppare una mordace critica di questo mondo, costruito sul duro lavoro, lo sfruttamento e l’alienazione di una società dei consumi in cui tutto è mercificato e l’unica cosa che domina è la spietata legge del profitto.
L’opera è del 1930 ed è successiva a L’opera da tre soldi di cui sembra una ripresa manierista al fine di ripeterne il successo, quindi priva del brio e della sana provocazione che, ripetuta in tono minore e serioso, perde gran parte dell’effetto dirompente che aveva avuto. Mahagonny è soprattutto incapace di produrre quel godimento estetico che garantisce il successo all’Opera da tre soldi ed è qualitivamente decisamente peggiore della successiva opera di Brecht, La madre, di appena due anni dopo, un capolavoro in cui emerge la maturazione artistica del drammaturgo grazie alla scoperta del marxismo.
La messa in scena del teatro dell’Opera di Mahagonny è appena sufficiente, e se il primo atto risulta a tratti godibile e con qualche spunto interessante, il secondo e il terzo annoiano sempre di più. Al di là di qualche trovata, le scenografie risultano piuttosto povere e minimal, gli interpreti non brillano e risultano piuttosto anonimi e la discreta performance dell’orchestra e del suo direttore non è sufficiente a salvare la serata. Così il tema dell’opera di Brecht, ovvero la critica della società capitalista, il cui prototipo sono gli Stati Uniti, resta piuttosto superficiale e finisce con l’essere ripetitiva e scadere nel grottesco.
Lodevole, comunque, da parte del Teatro dell’Opera la scelta di uno spettacolo poco rappresentato dove, a differenza di certe cadute di stile proprie di diverse rappresentazioni degli ultimi anni, non assistiamo a trovate pacchiane, dove la messa in scena è originale e non mira unicamente al risparmio ed è frutto di una produzione internazionale.
Lo spettacolo non è però godibile perché il realismo e la tipicità dei personaggi, già poco sviluppati nell’originale, sono del tutto sacrificati nella messa in scena al grottesco; assente è la possibilità di catarsi, di una via di fuga, di una prospettiva di superamento della desolante realtà sociale messa in scena.
Ciò che colpisce negativamente, come del resto in May B, sono gli applausi a scena aperta di un pubblico che appare incapace di qualsiasi attitudine critica. Pronti come in televisione ad applaudire a comando, gli spettatori sembrano far propria la decadenza e la crisi che queste opere mettono in scena, rivelandosi del tutto parte di questo sistema e mostrando l’incapacità di sfuggire al suo stato putrescente.
Raffaello, Parmigianino, Barocci
Voto: 4
La mostra Raffaello Parmigianino Barocci. Metafore dello sguardo in corso ai Musei Capitolini vuole essere un confronto a distanza tra due artisti ovvero Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, e Federico Fiori, detto il Barocci, e il loro “maestro” Raffaello.
A parte la dichiarazione d’intenti, la mostra è fasulla in quanto l’eccezionale quadro di Raffaello riportato nella locandina risulta l’unico di questo straordinario artista, mentre il resto della mostra è quasi completamente dedicata al minore dei tre, ovvero Barocci, se si escludono alcuni ottimi disegni di Raffaello e del Parmigianino. Barocci, di fronte a questi due giganti della pittura, sfigura, e anche lo stesso Parmigianino è schiacciato al paragone con il grande Raffaello, vetta assoluta dell’arte pittorica.
Le spiegazioni poste all’inizio di ogni sala risultano poco utili e i paragoni proposti tra i tre sono già noti e piuttosto superficiali. Fra i vari disegni compare, in modo del tutto decontestualizzato, la Melanconia di Albrecht Dürer. La maggior parte delle opere proviene dai Musei Vaticani e dalla Galleria degli Uffizi, qualche disegno dal Museo Albertina di Vienna.
Poco significativa anche l’altra mostra presente ai Musei Capitolini sulla età romana tardo antica, L’età dell’angoscia. Da Commodo a Diocleziano, che, in realtà, riorganizza essenzialmente materiali dei musei di Roma a partire dagli stessi capitolini. Il titolo del tutto fuori luogo è solo una trappola per visitatori, come riconoscono gli stessi organizzatori nella locandina di presentazione della mostra.
Certo, il titolo che cattura resta un buon metodo per attirare i visitatori in un museo che spesso rischia di passare in secondo piano rispetto alle eccezionali opere d’arte presenti a Roma. Ma le opere della mostra permanente del museo, soprattutto nella Pinacoteca, non sono ben esposte, né adeguatamente restaurate, ci si consola con un terrazza dalla vista mozzafiato in uno dei luoghi più belli del mondo.
Infine, l’entrata gratuita per i residenti a Roma una volta al mese è una foglia di fico rispetto a un biglietto di ingresso dell’assurda cifra di 15 euro, che grida vendetta e impedisce ai lavoratori, romani o turisti, l’accesso e allontana i visitatori da Roma, stanchi di essere costantemente spennati. Il salasso, tra l’altro, è raddoppiato per chi crede di vedere oltre alla mostra permanente una mostra temporanea su Raffaello e Parmigianino o una mostra di arte antica di taglio esistenzialista che esiste solo sulla carta. Un turista con poco tempo rischia di perdersi, di restare spaesato e di essere esposto alla sindrome di Stendhal.