L’opera di Bertolt Brecht costituisce un imprescindibile punto di riferimento per chi intende rilanciare la prospettiva del realismo socialista in modo non burocratico. Da questo punto di vista ci sembra esemplare la scelta del regista Carlo Cerciello di riproporre La madre in una rappresentazione al contempo fedele e originale. Sarebbe auspicabile che anche qualche altro drammaturgo contemporaneo provi a sviluppare il lascito brechtiano.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
La lodevole rassegna Le vie dei festival, giunta alla XXII stagione, ha finalmente portato a Roma, purtroppo per un solo giorno, una magnifica messa in scena de La madre di Bertolt Brecht. Die Mutter, scritta dal grande drammaturgo di Ausburg nel 1932, ispirata all’omonimo romanzo di Maksim Gorkij del 1907, è andata in scena al Teatro Vascello dopo essere stata giustamente premiata, fra gli altri, dal Museo Cervi Teatro per la Memoria e dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. La pièce, che rappresenta la massima espressione del teatro didattico di Brecht è un’opera dichiaratamente “inattuale” e, così, è coraggiosamente stata presentata dal regista Carlo Cerciello.
Nonostante la non celata “inattualità”, quest’opera, grazie alla sua forma apertamente antagonista rispetto alla piatta e reazionaria vulgata post-moderna in voga nell’Italietta dell’epigono del nano, è oggi un’opera essenziale. Brecht, del resto, aveva rielaborato il testo di Gorkij come netta presa di posizione nei confronti di un’epoca buia, alla vigilia della conquista del potere di Adolf Hitler. Lo stesso Gorkij l’aveva scritta in un momento storico estremamente difficile, ossia nell’epoca della reazione al tentativo rivoluzionario del 1905.
All’inizio del Novecento la posizione del proletariato russo in quello che era il Paese più arretrato e reazionario d’Europa, appariva particolarmente difficile. Il livello dei salari era ancora più misero di quello odierno e la repressione spaventosamente più opprimente. Anche dal punto di vista ideologico la partita appariva impari, vista la spaventosa arretratezza culturale dei lavoratori russi in buona parte analfabeti.
In tale sconfortante situazione vi sono però un pugno di giovani avanguardie di un’organizzazione rivoluzionaria, costretta per altro ad agire nell’illegalità, che riescono a interpretare i bisogni reali della classe proletaria. Operando dall’interno del mondo del lavoro, organizzati in cellule, conquistano l’egemonia sui lavoratori, costringendo anche i “pompieri” dei sindacati a seguirli. Inoltre l’organizzazione ferrea, lo spirito di dedizione, la padronanza della teoria rivoluzionaria consente loro di ottenere l’egemonia anche all’interno dei quartieri proletari.
Così, nonostante le enormi difficoltà al momento dello scoppio della guerra imperialista, con il rigurgito del nazionalismo che finisce per divenire egemone sui settori meno radicali del movimento rivoluzionario, le avanguardie si faranno trovare pronte, al momento opportuno, a guidare la classe sulla via della rivoluzione.
Analogamente Brecht, nonostante la progressiva affermazione del partito nazionalsocialista, che si abbatte con violenza sulle forze progressiste e dei lavoratori, scrive e porta in scena un dramma apertamente rivoluzionario. Il dramma, funzionale allo sviluppo della coscienza di classe dei subalterni, rappresenta il culmine del suo teatro didattico ed è allo stesso tempo un’autentica opera d’arte e non un semplice dramma a tesi.
I personaggi sono realisti e incarnano tipi sociali caratteristici. A partire dalla protagonista, emergono tutte le loro contraddizioni, che ne fanno non delle maschere, ma dei personaggi vivi e dialettici. Ciò è anche il risultato della messa in scena propria del teatro epico, caratterizzato da canzoni e cartelli che interrompono l’azione e dall’effetto di straniamento degli attori. Lo spettacolo riesce a essere, così, al contempo coinvolgente e istruttivo, dando molto da pensare al proprio pubblico. Allo stesso modo favorisce lo sviluppo della coscienza di classe dello spettatore non solo senza mai annoiarlo, ma spesso divertendolo.
In tal modo un’opera destinata di lì a poco a essere messa all’indice e bruciata pubblicamente, non rinunciando alla propria vocazione rivoluzionaria, resta ancora oggi non solo essenziale ma anche unica. La madre è una vera e propria opera d’arte, che non segue nessun genere o modello predefinito, ma ne fonda uno che purtroppo, a causa delle difficili condizioni storiche, non ha sviluppato una maniera adeguata.
Tuttavia, in un’epoca storica altrettanto dura e difficile come la nostra, attraversata da pericolosi rigurgiti reazionari, non è un caso che chi intenda realizzare in controtendenza un’opera impegnata, di rottura con la maniera postmoderna e formalista dominante, spesso tendente all’irrazionalismo o al minimal-qualunquismo, senta il bisogno di ripartire dalla Madre di Brecht e del compositore Eisler, considerata l’importanza decisiva che ha la musica in quest’opera.
L’attuale messa in scena riesce a rimanere coraggiosamente fedele al portato rivoluzionario di Brecht con solo due sbavature. La prima, tutto sommato tollerabile, è la rappresentazione in forma di festa musicale popolare della prima parte, ancora pacifica, della manifestazione del 1905. La scelta, per quanto godibile, è fuori luogo in quanto fa perdere di vista la tensione e le aspettative dietro tale manifestazione, in una situazione così pericolosa e delicata. Tuttavia, per quanto sia troppo tagliata sulle attuali manifestazioni, che troppo spesso vengono interpretate come momenti di socialità e di festa e non di lotta di classe, essa è anche utile a sottolineare il contrasto con la sanguinosa repressione, assolutamente ingiustificata, degli apparati repressivi dello Stato.
Certamente più grave è la trasformazione del celebre ritornello della Lode dell’imparare, in cui, nell’originale, l’importanza decisiva dell’apprendimento è spiegata e finalizzata alla conquista del potere da parte della classe subalterna che deve divenire a tale scopo in grado di gestirlo. Nell’attuale messa in scena il refrain “tu devi prendere il potere” – indispensabile a far capire all’umiliato e offeso la necessità in qualsiasi frangente ed età di impegnarsi nella formazione – diviene un più blando e generico “tu devi prendere l’iniziativa”.
Per il resto la messa in scena non fa un passo indietro e soprattutto non fa alcuna concessione alla vulgata dominante post-moderna nei confronti della quale rappresenta un’aperta sfida. Non si tratta però di una rappresentazione filologica, né di un classico del passato ormai inefficace, o di un lavoro pulito, ma poco innovativo. Al contrario, la compagnia e i singoli attori mostrano non solo di aver compreso la portata di quanto portano in scena, ma ne sono anche emotivamente e razionalmente coinvolti. Inoltre in più di un momento riescono ad attualizzare il testo, innanzitutto dal punto di vista musicale, senza forzatura e senza fargli perdere la carica realista.
Resta da capire come mai questa magnifica meteora proveniente da un altro pianeta sia potuta apparire nel grigio e improntato ideologicamente al pensiero unico panorama teatrale attuale in Italia. Quel che è certo è che rischia di svanire nel nulla, nonostante al suo passaggio abbia creato una enorme impressione in un pubblico non più abituato a una rappresentazione così capace di far riflettere divertendo, di offrire una prospettiva rivoluzionaria rispetto alla miseria dell’esistente, pur rimanendo realista e verosimile. La madre riesce a ricostruire un mondo storico apparentemente distantissimo da noi, nello spazio e nel tempo e ancor più ideologicamente, e al tempo stesso ci fa riflettere sui contrasti di classe che viviamo nella vita di tutti i giorni, in primo luogo sui posti di lavoro.
L’impressione è che non ci sia, o se c’è abbia difficoltà ad emergere, una tendenza nell’attuale drammaturgia a seguire e sviluppare la traccia segnata da Brecht e che rischia così di essere abbandonata come reperto archeologico di un tempo, per quanto eroico, oggi inesorabilmente tramontato. Allo stesso modo colpisce negativamente l’assoluta incapacità della critica della a-sinistra radicale di valorizzare adeguatamente tali coraggiose opere così apertamente controcorrente. Ciò dimostra come nonostante le pose da apocalittici siamo dinanzi a una generazione ormai perduta di integrati, che considerano il loro essere radicali, come essere pasdaran della cultura dominate, espressione di una classe dominante ormai incapace di favorire lo sviluppo del Paese.
Del resto, se non avessimo una intellighènzia così incapace di reagire all’offensiva ideologica della classe dominante, così pronta a farsi egemonizzare da qualsiasi moda passeggera dell’industria culturale – a patto che sia elitaria e minoritaria come l’attuale intellettualità radicale – non avremo un panorama politico e sindacale assolutamente sconfortante come il nostro.