Al Teatro Costanzi di Roma è andata in scena, dopo un’assenza di 60 anni, La dama di picche di Pëtr Ilich Čaijkovskij. Un’opera lirica dalla partitura musicale estremamente complessa tratta da un magnifico racconto di Puškin stravolto dal libretto dei fratelli Čaijkovskij, a sua volta stravolto da un regia e da un’interpretazione che fa acqua da tutte le parti.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 4
È da un magnifico racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin che Pëtr Ilich Čaijkovskij attinge per la sua opera lirica del 1890 La dama di picche. Una vecchia contessa che nasconde un segreto, un giovane innamorato, ma estremamente avido e tre carte sono gli assi su cui ruota la storia. Peccato che il genio di Čaijkovskij, impeccabile musicalmente anche in questa opera lirica, abbia in qualche modo, insieme al fratello Modest Il'ič, stravolto il racconto di Puškin. Per venire incontro al cattivo gusto della classe dominante nella Russia zarista del tempo, il riadattamento per la lirica trasforma un capolavoro profondamente realistico in un’opera intrisa di romanticismo posticcio che fa acqua da tutte le parti. Hermann, il personaggio principale del racconto di Puškin, un piccolo borghese freddo, spietato e cinico, come solo può essere un arrivista tedesco nella Russia del tempo, diviene qui un ibrido che oscilla fra il romanticismo più scontato e l’opportunismo più bieco.
Anche il bellissimo e realistico personaggio di Liza è stravolto, non è più una giovane di talento costretta a costanti umiliazioni dalle sue basse origini. Ma diviene la rampolla di una ricchissima e nobile famiglia, appena promessa sposa a un principe. In modo totalmente irrealistico ella abbandona questo roseo e sereno futuro, per cedere senza neanche far finta di resistere al finto amore romantico del povero e folle Hermann: ella si dichiara più volte sua schiava e giustifica anche i più biechi delitti e tradimenti dell’amato, nonostante si riveli sempre più meschino.
Tra i pochi temi interessanti dell’originale puskiniano c’è il tema dell’oracolo, che anzi è raddoppiato dai Čaijkovskij. Un oracolo, una profezia, non sono altro che il tanto necessario quanto ambiguo e vano tentativo di anticipare con la riflessione i risultati di un’azione futura. Dal momento che la riflessione viene sempre dopo l’azione, la pretesa, per quanto necessaria, di prevenirla, è al contempo alla base della tragedia di ogni agire. Chi non comprende la natura ambigua della riflessione razionale alla base dell’azione, finisce per non riconoscersi nei risultati del proprio operare, perché non corrispondono alle buone intenzioni, di cui per altro è lastricata la strada dell’inferno. Del resto è proprio la natura apollinea dell’oracolo, ossia della previsione razionale, a indurre in errore, perché la troppa luce, l’eccessiva razionalità, fa dimenticare il lato necessariamente oscuro della realtà, che nella sua imprevedibile complessità è sempre il prodotto non solo di altre autocoscienze interagenti, ma di potenze naturali solo in sé razionali. Dunque l’oracolo non potrà che trarre in inganno Hermann, che lo segue alla lettera, perdendo di vista la necessaria duttilità che ogni azione nella sua natura imprevedibile impone.
L’opera ha, comunque, diversi spunti interessanti, non solo musicalmente. Particolarmente valide le parti corali, a dimostrazione che il nuovo vento democratico circola anche nell’aria della Russia degli Zar. Significativa, quindi, la scelta di rimetterla in scena al Teatro Costanzi di Roma nella stagione estiva del Teatro dell’opera, visto che mancava a Roma da 60 anni. La buona idea di utilizzare, per la prima messa in scena in russo a Roma dell’opera, cantanti madre lingua è guastata dall’esigenza di limitare al massimo i costi, per cui abbiamo un cast privo di stelle e di acuti, nel complesso mediocre. Le buone doti canore dell’interprete di Liza non compensano del tutto la maldestra recitazione; delude decisamente l’interprete del faticosissimo ruolo di Herman, costretto da Čaijkovskij a cantare in ogni scena. Discreta, invece, l’interpretazione musicale del direttore statunitense James Conlon per l’orchestra del Teatro dell’opera, alle prese per la prima volta nella loro carriera con una delle partiture più complesse della letteratura musicale russa.
Ma ciò che delude è soprattutto la regia di Richard Jones, ripresa da Benjamin Davis. Veramente imbarazzante questa scelta del Teatro dell’Opera, soprattutto perché era stata annunciata la ripresa di un messa in scena di ben altro spessore e interesse, opera di Peter Stein, per poi constatare, all’ultimo momento che ne rimaneva troppo poco per poter procedere all’ormai consueto copia-incolla, certamente più economico che investire in nuove creazioni artistiche. Non fosse mai che dovessero mancare le risorse necessarie per le armi di distruzione di massa, per le grandi opere, per le imprese ecc..
Già la prima scena, che dovrebbe rappresentare il giardino d’estate in una magnifica giornata che annuncia la primavera, appare estremamente scarna: non si tratta di mirare all’essenziale, non c’è nessun concetto dietro. Siamo dinanzi a un’ostentata sciatteria dettata dalle solite ragioni economiche del capitalismo, nella sua cieca smania di profitto immediato, a cui tutto deve essere sacrificato. I toni in scena, compresi costumi, acconciature ed attori sono tutti grigi [1], i vivaci colori della primavera sono cancellati. In tal modo si perde completamente il contrasto con la tempesta che di lì a poco si scatena, quale oscura premonizione di una passione amorosa che si rovescerà in tragedia con l’emergere del demone del gioco, del denaro. La stessa ambientazione a fine settecento di Čaijkovskij, che rappresenta l’alta società russa apparentemente maestosa e serena, ignara del terremoto che di lì a poco si scatenerà con la rivoluzione Francese e Napoleone, è totalmente sacrificata, in quanto sarebbe stato troppo costoso mostrarne lo sfarzo. Certo, in tal modo, con una modesta spesa si ottiene un discreto profitto, ma alla lunga sempre meno persone saranno disponibili a spendere tempo e soldi per spettacoli così poco curati [2].
Così come irrealistica è la seconda scena in cui troviamo una serie di damigelle tutte in camicia da notte, tanto che sembrerebbe di stare in un collegio, mentre in realtà si è a casa di Liza. La stanza, spoglia di qualsiasi ornamento, appare squallida nella sua irrealistica povertà, dal momento che dovremo essere in una dimora signorile. Qui si inserisce l’ennesimo siparietto, che dà all’opera di Čaijkovskij la forma di un varietà. Si passa così dai peggiori cliché del romanticismo al folklore russo. Ora, questi aspetti, se rendono l’opera disorganica, sono anche le parti più interessanti e godibili dell’opera di Čaijkovskij. Ma in questa pessima messa in scena restano occasioni sprecate. Manca un corpo di ballo e le cantanti negli spazi assurdamente contingentati si muovono a stento.
Anche la scena su cui si apre il secondo atto appare piuttosto spoglia, priva com’è di sfondo e scenografia. Ridicole appaiono le acconciature e goffo il modo di muoversi dei personaggi in uno spazio irrealisticamente affollato. La scena del sontuoso ballo di fine settecento di Čaijkovskij è sacrificata all’esigenza di risparmiare sul corpo di ballo. Ancora più pesante è il sacrificio della godibilissima pastorale, qui risolta in un ridicolo girotondo dei personaggi. Il balletto, aspetto in cui Čaijkovskij eccelle, è sostituito da un enorme tavolo, su cui ha luogo una del tutto fuori luogo rappresentazione di marionette, che acquista senso solo dal punto di vista del risparmio economico [3].
Insomma, da una parte abbiamo la pessima riscrittura dei Čaijkovskij, dall’altra la pessima regia di Jones, aspetti che la bella partizione musicale non riesce a compensare. Sintomatica la scena finale in cui, con la solita mancanza di realismo, di senso storico e di gusto, la casa di gioco altolocata è ridotta a una bettola. In essa i frequentatori si abbandonano a volgarità gratuite e del tutto fuori luogo. La pièce si chiude con uno sgradevole discorso di sapore nietzschiano, che pone il protagonista al di là del bene e del male. Tale cinismo si rovescia senza senso nel suo opposto, ossia nell’ipocrita scena in cui in punto di morte, per evitare di scontare i propri peccati, il tragico destino a cui lo hanno portato le sue irrazionali e infami azioni, il protagonista chiede, con una ipocrisia gesuitica, perdono [4].
Note
[1] Spiccano, in particolare, per la completa mancanza di gusto proprio i costumi, le acconciature, le scenografie, tutti aspetti in cui l’Italia emergeva, segno evidente della decadenza del nostro paese.
[2] Già ora il pubblico, modesto nel numero, è costituito essenzialmente da vecchi abbonati in pensione e turisti. Viene, dunque da domandarsi cosa succederà ora che tendono a sparire le pensioni del passato e anche i turisti tendono a diminuire visti gli alti costi e gli scarsi servizi che offre il nostro paese.
[3] La scena si chiude con un servile inno alla zarina Caterina, che suona come un insulto alla memoria del decabrista Puškin.
[4] In questo caso stridente e a tutto svantaggio di Čaijkovskij è il raffronto con la conclusione del Don Giovanni di Mozart, in cui il protagonista, dimostrando una statura infinitamente superiore al gesuitico Hermann, si rifiuta di pentirsi dei suoi peccati nonostante stia per precipitare all’inferno.