Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023, un libro di Marco Mondini

L’influenza e l’incidenza dell’ideologia guerriera nella fondazione dello  Stato unitario e le sue diverse, e trasversali,  declinazioni e mistificazioni nelle varie fasi della vita nazionale


Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023, un libro di Marco Mondini

Se le dimensioni e la densità argomentativa non deponessero per il saggio scientifico di alto profilo analitico, il testo dello storico bassanese Marco Mondini (volto noto, tra l’altro, delle trasmissioni di “Passato/Presente”, su RaiStoria) potrebbe agevolmente evocare l’instant-book, che accompagna e contrappunta il risorto idillio militaristico di un’Italia (ufficiale), che più stracciona e cialtrona non potrebbe essere e che non cessa mai di sorprendere per i vertici di insipienza, cui è ininterrottamente capace di dare forma. E che tale è (già) stata, a giudizio di chi scrive, solo quando a dettar legge e agenda erano gli ascendenti in orbace dell’attuale classe politica di governo, tanto curiosamente simile a una corte dei miracoli, quanto pericolosa nei tratti revanscisti, grossolana nel profilo antropologico e servile nei riguardi del Grande Fratello d’Oltreoceano.

D’altra parte, la linea rossa del 2022, rappresentata dallo scatenamento, dopo lunga e criminale incubazione, del conflitto russo-ucraino, riflessa nel titolo, è in grado di evocare anche per gli italiani, già protetti e nobilitati dall’art. 11 della Costituzione, la questione del rapporto con la guerra, dal momento che gli ultimi arrivati del governismo italico, in ansia di legittimazione atlantista, sono sembrati più volte volersi lasciar coinvolgere (anche in ragione di un’antica, dal loro punto di vista più che comprensibile, pulsione anti-russa) nell’avventura militare del(l’allora) periclitante e declinante Joe Biden.

In realtà, il libro di Mondini (esperto in militaria), affonda la lama in qualcosa di più di una scontata ricognizione di storia patria militare (come il titolo parrebbe suggerire) e tanto esplicitamente quanto implicitamente, si dilata a disamina più ampia, se non di un “carattere” (con i rischi di essenzialismo che un’operazione del genere comporterebbe), di una storica postura del Paese e delle sue classi dirigenti (e non solo), declinata sul piano (sintomatico) delle vicende belliche, avvertite, a ben vedere, come cartina al tornasole identitaria, “anima” di una più generale costituzione culturale in quanto ruvida leva di un’orgogliosa soggettivazione paritaria nel panorama delle relazioni continentali da parte di una formazione statuale late-comer del continente europeo e non priva di fragilità strutturali. Vaso di coccio, dunque, ma con precise e piccate velleità viriliste, in vario modo  strutturate, nel quale uno storico complesso (e provincialissimo) d’inferiorità s’impennava fino a convertirsi in istanza guerriera tout-court. 

Meglio: attraverso l’esame delle vicende militari dello Stato unitario, a partire dal cruciale snodo ottocentesco indicato nel titolo, Mondini disegna e connette la trama di attitudini, modalità esistenziali, proiezioni e “investimenti”, concretissimi comportamenti e suggestioni culturali, in una parola, mentalità, che hanno de-finito e contraddistinto uno “stile” complessivo del Paese, finendo col costituire la trama di una diffusa e gratificante auto-percezione, di un’identificazione risarcitoria (e narcisistica). E se, soprattutto sullo scorcio del secondo conflitto mondiale, esso ha saputo (nella “irregolare” e anomala esperienza resistenziale), in qualche modo uscire dalle più bolse e stucchevoli figure di un eroicismo provinciale e grondante enfasi, un tratto sacrificale e trasceso non ha mai smesso di colorire tutte le vicende, in cui gli abitanti del Bel Paese hanno avuto parte in re militari, così riscattandosi di scacchi anche clamorosi e poco decorose sconfitte nella trasfigurazione del classico “valoroso ma sfortunato” o del “destino cinico e baro”. Per intenderci, un tratto di storico e leggendario vittimismo, del quale anche le cronache più recenti pullulano, anche se su terreni meno cruenti, quasi sempre in modo patetico e auto-assolutorio, rancoroso e mistificante.

Cosicché, pur costellata sin dall’atto fondativo di ripetuti e vistosi infortuni (le cui cause attingono a un’inettitudine tecnico-gestionale e a una superficialità delle classi dirigenti, troppo diffuse e pervasive, per poterle attribuire al classico e già citato destino, questa furbesca e cattiva coscienza nazionale, sormontando la nota derisione “esterna” [1] che da tempo la bersagliava di regolari sarcasmi,  ha saputo zigzagare con abilità, costruendo un’imponente ma efficace e accreditata narrazione domestica, circa la propria originaria virtus bellica (le cui magniloquenze consolatorie sono sparse con generosità e distese nel tempo nelle varie, posticce ma rassicuranti, “memorie” di Corpo”, oltre che nella trasversalità delle sedi retoriche e convenzionali dell’auto-celebrazione).

Abbrivo istituzionale di questa traiettoria, assai accidentata ma sapientemente “lavorata” con ostinazione dall- e nell’ -immaginario nazionale, è quella che verrà in modo altisonante inserita nel pantheon guerriero come Terza guerra d’indipendenza, la sequenza di scontri militari che vide il giovanissimo regno d’Italia alleato della Prussia bismarckiana contro lo storico nemico austriaco. Quel breve, ma decisivo conflitto estivo che si sarebbe concluso con l’acquisizione del Veneto e di parti del Friuli (dunque remunerativamente), ma avrebbe lasciato nella memoria comune lo strascico amaro di due sonore e raggelanti sconfitte in confronti diretti carichi di implicazioni simboliche (la terrestre Custoza del 24 giugno e la navale di Lissa, in Adriatico, il 20 luglio 1866, e proprio mentre il raggiungimento dell’unità nazionale sembrava poter accreditare una credibilità e “normalità” raggiunta e acquisita). Sgradevolmente “corretto” sul piano diplomatico, dunque, ma insediato in modo inquietante in una memoria fondativa, che avrebbe preferito le goliardie e le enfasi rotonde di una “ritrovata” gloria militare solo momentaneamente occultata dalle sfortunate circostanze esterne.

Prima della crudele e farsesca messinscena del regime fascista, l’epopea coloniale si staglia come l’iperbole di questa attitudine alla mistificazione organica del profilo bellico del giovane stato peninsulare. Giungendo dopo la figuraccia già segnalata, la catena di sconfitte patite in Africa orientale (Dogali, gennaio 1887 e soprattutto Adua, marzo 1896) si nutre e ammanta del sigillo plebeo di un colonialismo straccione e declamante, che non esita a derubricare le popolazioni locali a res nullius (in coerenza con le dominanti suggestioni europee della Belle Epoque), prima di scoprirne a caro prezzo la coriacea e indomabile vis guerriera, a colpi di centinaia di caduti mandati al macello da comandanti a dir poco insipienti – immediatamente trasfigurati, dalla solita stampa connivente, in intrepidi  e infaticabili portatori di civiltà italica, immolatisi per una sana causa di affermazione del prestigio nazionale, costruttori al momento sfortunati del famoso “posto al sole” e comunque titolari di una bronzea postura marziale, a mala pena offuscata dal successo tattico delle miriadi di feroci “selvaggi” urlanti. Basti pensare, a quell’ Alfredo Oriani, (tra gli scrittori più amati da Mussolini) che a proposito di Dogali, non esitava ad esaltare il sacrificio a suo dire “inevitabile”, dei soldati italiani ma esaltava ”l’impassibilità di un orgoglio nel quale morire non era più una sconfitta”, evocando quel  valore che  misurava “quanti africani  valeva un soldato d’Italia” (p. 64). 

È per questo che l’avventura libica del biennio 1911-1912, (sostenuta da banche, ceti possidenti e stampa, benedetta da una Chiesa mossa da spirito di crociata, nonché da patetiche frange del socialismo riformista, che vi vedevano la possibilità di interessanti... sbocchi occupazionali per la classe lavoratrice italiana, oltre che l’occasione di un’utile mediazione con l’ambiente governativo giolittiano) parrà l’occasione decisiva per l’anelato riscatto delle armi, cosmetizzato da un imponente apparato retorico di un’innegabile efficacia propagandistica (“Tripoli bel suol d’amore”, recita l’incipit del famoso motivo). Anche se, anche oltre il salveminiano “scatolone di sabbia”, e la precarietà del controllo del territorio “conquistato”, l’intera vicenda si rivelerà un disastro finanziario, per altro complicando non poco, qualche anno dopo, lo sforzo col quale l’Italia vorrà impegnarsi nella Prima guerra mondiale.

Che rappresenta il punto di svolta dell’intera vicenda e che, a ben vedere, al di là di tutte le osservazioni critico-analitiche che vi vanno collegate e filtrata degli innumerevoli fattori involutivi che ne statuiranno il carattere di “peccato originale del Novecento” [2], costituisce l’unica impresa vittoriosa dello stato unitario. Il cui governo e la cui conduzione imporranno uno sforzo titanico, dal quale il Paese uscirà trasformato (certo non migliorato), e le cui ridondanze auto-celebrative costituiranno il punto di non ritorno di un’auto-coscienza nazionale emendata e roboante, pronta a entrare fragorosamente, con le dovute censure e omissioni, nell’arsenale immaginale del regime fascista, con un rilancio in grande stile della morte come sublimata fonte di riscatto supremo e suggello di una gloria imperitura. Le autentiche colate di magniloquenza che seguiranno compenseranno così alla fine una strutturale percezione di minorità, avvalendosi della rivendicazione orgogliosa di una filiazione più o meno diretta dalle glorie “romane”, e l’ormai consolidato paradigma auto-celebrativo maturerà presto le aspettative iperboliche dell’affermazione imperiale. Inutile dire che anch’esso avrà presto modo di rivelarsi un prometeismo a buon mercato, esercitato per altro su popoli e “razze” (in teoria) facilmente assoggettabili, sotto l’occhio condiscendente, e paternalistico, degli stati europei che contano, prima di naufragare, a tempi di record e in una goffa replica di antichi limiti conclamati, alla prova di una guerra mondiale, nella quale proprio non si scherza, e che sembra dolorosamente riproporre gli antichi stereotipi. Con il fascismo, dunque, quella sorgiva pulsione retorica, connaturata e patente come filo rosso di una storia patria in perenne inseguimento del proprio modello ideale, si era gonfiata a dismisura e inverata, prima di prodursi nel tonfo rovinoso che avrebbe azzerato qualsivoglia velleità di occupare il centro della ribalta storica.

D’altra parte, prosegue Mondini, quella disponibilità al martirio e all’immolazione, l’idea che la morte costituisca il lavacro di un estremo e imperioso affrancamento collettivo tornano generosamente in campo, con un segno opposto e irriducibile, nella prassi resistenziale, che per ragioni di organicità al lessico disponibile non può non far propria la retorica incorporata in quella parabola culturale. Nelle parole di Ferruccio Parri, la “nuova Italia” è apparsa “sotto la camicia fascista”; un’Italia “che ha sentito il dovere e il diritto di versare anche il suo sangue (… ). Ci siamo purificati, o cittadini, col sangue dei figli migliori. E il sigillo di sangue abbiamo posto sul fascismo perché ogni ponte fosse rotto ed impossibile ogni ritorno verso il passato” (p. 264) Parole, che oggi possono risuonare ridondanti (e, per ragioni contingenti, assolutamente suggestive) ma che, osserverebbe l’Autore, attingevano al repertorio linguistico-concettuale di un Paese, che se ne era nutrito, per conferire un senso all’interezza della sua vicenda storica, oltre che militare. 

Il dopoguerra, si sarebbe trascinato quest’attitudine fino agli anni Sessanta allorché, per ragioni e dinamiche interne, quanto internazionali, una nuova e assai più sfumata sensibilità critica avrebbe incrinato quell’aura retorica, spezzandone la strisciante (e trasversale) dominanza e demistificandone i tanti e sinistri retropensieri. La politica stessa sembrava avervi messo una prudente sordina, espressa anche in termini legislativi. Sembrava esser residuata solo la prassi nostalgica delle associazioni d’arma, impegnate a far rivivere in un acefalo e omissivo reducismo le gesta e una memoria sempre piuttosto posticcia. 

È, non a caso, con gli anni novanta che riprende a scivolare nella cronaca una rinnovata attenzione per le forze armate, la loro storia e le questioni ad esse attinenti. E sarà un Presidente della repubblica, il laico Carlo Azeglio Ciampi, sormontando ogni e qualsiasi considerazione critica e auto-critica, restaurando un’ideologia ingenuamente patriottica, a rimetterne in campo una centralità e neutralità, perfettamente in linea con le “dimenticanze” e la sistematica “rimozione delle colpe e delle guerre sporche“(p. 228), che lo Stato italiano aveva ingaggiato nel tempo. A restituire agli “aggressori sconfitti”, trasformati in “vittime, non invasori”, la verginità, che già la pubblicistica di destra e buona parte dell’opinione pubblica, impegnata a “cancellare le tracce più imbarazzanti del proprio passato” (p. 229) invocavano come carattere distintivo dell’”italianità”.

 Note

  1. Si pensi alla battuta circolante negli ambienti del vecchio impero austro-ungarico e attribuita all’ammiraglio Tegetthof, dopo lo scontro navale di Lissa, recitante che “navi di legno comandate da uomini con la testa di ferro hanno sconfitto navi di ferro comandate da uomini dalla testa di legno” (rispettivamente il comando austriaco e quello “regnicolo”)
  2. È il titolo dell’efficacissimo libretto di Domenico Losurdo (Roma-Bari, 1998)

18/10/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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