Germinal è una miniserie storica franco-italiana formata da sei episodi, ideata da Julien Lilti e diretta da David Hourrègue, disponibile su Rayplay, voto: 9. Puntata pilota perfetta, con finalmente al centro il conflitto sociale, la serie sembra assicurare un notevole godimento estetico e lascia davvero molto su cui riflettere al pubblico. Non solo sono posti al centro dell’attenzione problematiche sostanziali di ordine economico, sociale, politico ed etico, ma il tutto è presentato nel modo più realistico con personaggi tipici che rappresentano in modo dialettico le diverse posizioni all’interno delle classi sociali.
Gli episodi due, tre e quattro riescono, quasi per miracolo, a mantenersi ai livelli davvero fantastici dell’episodio pilota. Vengono analizzati in maniera compiutamente realistica e dialettica il ruolo dei ceti intermedi, il confronto fra grande e piccola borghesia, la funzione dei protofascisti, le differenze fra le generazioni all’interno della classe dominante. Vengono messe bene in luce anche le contraddizioni in seno al popolo, la funzione determinante, anche etica, dell’avanguardia comunista, i rapporti interpersonali in relazioni al conflitto sociale e, infine, la cattiveria dei poveri e il disfacimento anche morale della classe dominante.
Quinto e sesto episodio introducono tutta una serie di complicazioni e di contraddizioni anche se piuttosto realistiche. Certo, ci sono un paio di cadute, in particolare nella rappresentazione del contrasto fra il giovane rivoluzionario e il rappresentante della Terza Internazionale assurdamente accusato di cretinismo parlamentare e nella visione troppo idealizzata del piccolo capitalista innovativo e avanguardista, ma per il resto la serie si mantiene a livelli elevatissimi. Si denuncia, anche se in maniera eccessiva e un po’ irrealistica, l’opportunismo estremista di sinistra degli anarchici nichilisti, ma nel complesso la rappresentazione complessiva resta realistica, i personaggi tipici sono presentati dialetticamente anche nei loro aspetti contraddittori. Anche la conclusione, nonostante la tragicità molto spinta, preserva una catarsi significativa, che apre a una prospettiva di superamento nel senso del realismo socialista, con punti di contatto con la conclusione di Furore di John Ford.
Argentina 1985 di Santiago Mitre, drammatico, Argentina, Usa 2022, nomination miglior film straniero ai Golden Globe ai Bafta e ai Critics Choice Award 2023 e nomination miglior film internazionale agli Oscar 2023, distribuito su Prime Amazon, voto: 9-. Film davvero bello, riesce ad assicurare un notevole godimento estetico lasciando davvero molto su cui riflettere al pubblico. Film di denuncia e storico, narra con estremo realismo il conflitto politico e giuridico per poter provare le colpe e condannare in Argentina i criminali dirigenti delle giunte militari di destra radicale responsabili di uno spaventoso genocidio di chiunque fosse anche soltanto sospettato di simpatizzare per i rivoluzionari. Molto significativi i personaggi principali, ottimamente interpretati, che per poter svolgere in maniera adeguata il loro dovere di procuratori, debbono necessariamente divenire degli eroi, in uno Stato ancora in gran parte guidato da personale filofascista. Peccato che il film non approfondisca per niente la storia del movimento rivoluzionario argentino, che serve da pretesto per i colpi di Stato e la strategia del terrore dell’estrema destra. I rivoluzionari vengono sbrigativamente liquidati come terroristi. Peccato, inoltre, come non compaia mai la complicità, in primo luogo degli Stati uniti, nel genocidio della sinistra di classe latinoamericana.
Dopesick - Dichiarazione di dipendenza è una miniserie drammatica statunitense sviluppata da Danny Strong, in otto episodi; In Italia è stata distribuita da Disney+, come Star Original, voto: 9-. Dopesick – Dichiarazione di dipendenza è stata candidata come miglior miniserie e per il migliore attore e la migliore attrice ai Golden Globe. Davvero eccellente è il primo episodio della serie, ben girato, ottimamente interpretato, avvincente ed emozionante. Esso contiene una decisiva denuncia di carattere economico, sociale e politico, ponendo al centro dell’attenzione il conflitto sociale. La serie denuncia la spaventosa diffusione di oppiacei da parte delle multinazionali, a partire dagli Stati Uniti, che hanno provocato degli effetti catastrofici, in particolare fra i ceti sociali più deboli. La serie denuncia come l’obiettivo del profitto possa completamente stravolgere qualsiasi equilibrio ed eticità sin dall’ambito naturale e immediato della famiglia. Inoltre Dopesick evidenzia come le multinazionali siano in grado di suscitare bisogni indotti fra i consumatori, imponendo i propri prodotti. Molto interessanti anche le strategie di marketing e per imporre le loro merci ai medici. Significativa anche la denuncia degli apparati dello Stato, del tutto succubi alla ricerca del profitto privato, a partire dalla Fbi che garantisce, in modo davvero criminale, la non dipendenza che provocherebbero dei pericolosi oppiacei, utilizzati per curare qualsiasi dolore. Molto interessante la sperimentazione che avviene nelle zone più deboli socialmente ed economicamente del paese, giocando sul fatto che i lavoratori, veri e propri working poors, non potendosi permettere di non andare a farsi sfruttare sul posto di lavoro, diventano consumatori e dipendenti degli oppiacei prescritti dai medici. Significativo anche come la cosiddetta comunità scientifica sia del tutto succube all’ideologia dominante e sia, dunque, pienamente corresponsabile della diffusione di queste pesanti droghe fra la popolazione, con l’idea edonistica che bisogna minimizzare i dolori.
Secondo e terzo episodio confermano in pieno il giudizio estremamente positivo dell’episodio pilota, dimostrando ancora una volta quanto possa essere corrotto il sistema ultraliberista statunitense e come, paradossalmente, proprio lì siano realizzati audiovisivi realisti e di denuncia di alcuni aspetti centrali della società capitalista. Emerge così come la corruzione nella società statunitense sia pienamente legalizzata, grazie anche alle ultime liberalizzazioni che si sono affermate dalla presidenza Reagan in poi, per cui un dirigente pubblico, che dovrebbe controllare il privato, può tranquillamente passare a quest’ultimo, attraverso le “porte girevoli”, guadagnando almeno cinque volte di più. Significativo anche il fatto che, nonostante questo marciume, esistano ancora degli individui che coraggiosamente si ribellano, lo denunciano, lo perseguono e lo fanno emergere. Interessante come, a conferma delle tesi elaborate dalla Scuola di Francoforte, nelle società capitaliste il principio del piacere e il fine naturale di una vita felice non sia precluso soltanto ai proletari, ma anche alla borghesia persino la più alta, costretta a condurre una spietata lotta di classe contro il proletariato e, al proprio interno, contro la concorrenza. Unico neo della serie è che, al solito, manca uno sguardo d’insieme, non c’è il concetto essenziale della totalità e tanto meno della coscienza di classe, per cui un membro della corrottissima e ultraimperialista Dea può passare per una eroina e la resistenza appare essenzialmente individualista.
Anche il quarto e il quinto episodio sono estremamente significativi e mostrano tutto l’assurdo degli ideologi della grande borghesia come Habermas che ritengono che la verità sia il risultato del dialogo all’interno della comunità scientifica. In tal modo, si finge di non conoscere il ruolo spaventoso di indirizzo che mantiene sulla sedicente comunità scientifica il grande capitale. Così si viene a scoprire che lo stesso sedicente articolo scientifico che ha aperto la strada all’abuso degli oppioidi letteralmente non esiste, ma è stato inventato appositamente dalla pseudo comunità scientifica al soldo del grande capitale finanziario. Resta il limite, anche perché almeno in parte si tratta di un limite reale, della mancanza di una opposizione dal basso, di classe, allo strapotere del grande capitale. Sino a che la denuncia viene portata avanti da impiegati dello Stato costretti nell’ingrato ruolo di eroi, in una società sempre più ingiusta e irrazionale, è evidente che lo strapotere delle grandi imprese può essere al massimo scalfito.
Il sesto e settimo episodio, pur rimanendo estremamente significativi nella denuncia del reale “potere forte” del grande capitale all’interno della società statunitense, finiscono con il risultare un po’ pesanti in quanto mancano di una reale prospettiva di superamento e del necessario spirito dell’utopia. Anche se qualche timido tentativo si fa, per esempio, narrando la redenzione del dottore caduto, anche lui, nella dipendenza da medicinali a base di oppioidi. Anche in questo caso il limite consiste, ancora una volta, nel credere di poter individuare il “principio speranza” sempre al livello necessariamente insufficiente e insoddisfacente dell’individuo.
La serie si conclude con un bilancio di quanto le battaglie condotte contro Big Pharma abbiano ottenuto – soprattutto nei rari casi in cui sono divenute mobilitazioni collettive – dei risultati comunque significativi, senza però riuscire a vincere la guerra, in quanto nello Stato imperialista statunitense i proprietari delle grandi imprese restano intoccabili ed evitano sia condanne che serie sanzioni economiche. La catarsi finale, pur mostrando l’importanza dell’impegno e della volontà di riscatto di singoli – che cercano nel loro piccolo di ricostruire una comunità fra i colpiti dagli oppiacei – rischia di rimanere la classica buona intenzione di cui sono lastricate le vie dell’inferno.
Snowpiercer è una serie televisiva statunitense, distribuita in Italia su Netflix, 3x10, voto: 8+; la terza stagione riprende il filo delle precedenti, con episodi di alto livello che rimettono al centro il conflitto sociale e, in primo luogo, la resistenza contro l’oppressione classista del grande capitalista. La serie riesce così a garantire godimento estetico lasciando al contempo molto su cui riflettere agli spettatori, anche su problematiche sostanziali. L’aspetto meno convincente è l’eliminazione da parte del grande capitalista delle differenze sociali, in quanto impone un regime totalitario di tipo dispotico in cui tutti divengono suoi subalterni.
Il terzo e il quarto episodio approfondiscono le dinamiche del conflitto sociale con un’analisi accurata, problematica e dialettica dei diversi tipi sociali. Resta la difficoltà di un po’ tutta l’arte contemporanea di rappresentare dinamiche collettive e di classe attraverso dei personaggi individuali, che finiscono per svolgere una funzione troppo preminente, irrealistica e poco verosimile.
Nel quinto e sesto episodio emergono le contraddizioni in seno al popolo nel conflitto fra il principale dirigente rivoluzionario e il tipico esponente dell’individualismo anarcoide. In questa occasione emerge l’intrinseca debolezza del ceto sociale che dovrebbe costituire la base di massa delle forze rivoluzionarie dove sembra prevalere, almeno al livello di coscienza sociale, il sottoproletariato. Del resto, il processo rivoluzionario in atto non dà nessun valore e importanza alla formazione dell’uomo nuovo. In tal modo, le sue basi restano decisamente fragili e ciò non può che favorire le forze della reazione.
Dopo sei episodi molto densi ed estremamente coinvolgenti, tutti incentrati sul conflitto sociale. il settimo episodio vira sull’onirico e finisce con l’annoiare. Nell’ottavo episodio la serie torna a essere estremamente coinvolgente e anche commovente, anche se le dinamiche del conflitto sociale finiscono per lo più sullo sfondo.
Anche gli ultimi due episodi confermano l’ottimo livello di questa terza stagione della serie. Il conflitto sociale, come è giusto che sia, torna a essere centrale e determinante. Altrettanto importante è la centralità che assume, anche qui in modo decisamente realistico, lo spirito dell’utopia e il principio-speranza in un mondo radicalmente migliore. Molto interessante anche lo scontro fra due blocchi sociali in una situazione di dualismo di potere e la centralità che assume la lotta per l’egemonia sui decisivi ceti intermedi, cui fanno riferimento, per lo più, tanto gli apparati repressivi quanto gli intellettuali e i tecnici. Stimolanti anche le riflessioni sulla grandezza e i limiti della democrazia, sugli alti fini che giustificano i mezzi indispensabili al loro raggiungimento e sulla necessaria dialettica fra capacità politica di egemonia e di costruire alleanze tra classi differenti e preparazione militare necessaria a impedire la violenza degli apparati repressivi del potere. Peccato che l’essenziale catarsi finale - pur non rendendo l’ultimo episodio unicamente funzionale ad allungare il brodo in vista di possibili nuove stagioni – non vada al di là di una lenta riconquista delle condizioni precedenti di vita.
200 metri di Ameen Nayfeh, drammatico, Palestina, Giordania, Qatar, Italia, Svezia 2020, voto: 8. Film davvero bello, emozionante ed essenziale. 200 metri è convincente sia dal punto di vista del contenuto che della forma. Narra una vicenda di grandissima rilevanza, come l’occupazione militare della Palestina. Il film è avvincente, commovente e lascia molto da riflettere allo spettatore. Ottima la prova degli attori e i personaggi sono decisamente tipici. L’impianto del film è saldamente realista senza nessuna concessione al postmodernismo. Il film riesce a essere molto valido dal punto di vista didattico e ad assicurare, al contempo, un significativo godimento estetico. L’unica pecca è che non appare in grado di aprire una reale possibilità di superamento dialettico della grande tragedia storica che rappresenta. Certo la situazione della Palestina oggi potrebbe apparire realmente disperata, tuttavia il film pare fare di necessità virtù. La prospettiva indicata dal protagonista, bene interpretato, ma senza effetto di straniamento, è quella di riuscire a vivere nel mondo animale dello spirito senza dover rinunciare perciò del tutto alla propria dignità. Tale prospettiva è in realtà sostanzialmente irrealistica, a causa dell’occupazione militare, dello stato di apartheid e del muro che costringe i palestinesi sotto occupazione a vivere in diverse prigioni a cielo aperto, sotto la costante minaccia dei coloni, in continua espansione. D’altra parte, ogni tentativo di resistenza, per quanto abbia un valore essenzialmente di testimonianza, viene bollato nel film come una forma di avventurismo che si può permettere solo chi non vive i reali problemi della gente comune, costantemente posta sotto minaccia della durissima rappresaglia da parte degli occupanti. Si cade così in una delle maggiori trappole dell’ideologia dominante, quella di prendere le parti e la prospettiva delle mere vittime e non di chi si batte per l’emancipazione del genere umano.
In nome del cielo (Under the Banner of Heaven) è una miniserie televisiva statunitense creata da Dustin Lance Black in sette episodi, disponibile su Disney+, come Star Original, voto: 8-; serie davvero eccezionale nei primi cinque episodi, cala purtroppo molto nel penultimo e in parte nell’ultimo episodio. Si basa su una storia vera, esemplare del principale pericolo interno negli Stati Uniti d’America, cioè la violenza dei gruppi fondamentalisti religiosi di estrema destra. Molto significativi i due protagonisti, un investigatore mormone e un investigatore nativo, il primo dei quali prende progressivamente consapevolezza di tutti gli aspetti assurdi e criminali che caratterizzano la storia della sua setta religiosa, cioè i mormoni. Emerge così uno dei tanti aspetti davvero terrificanti della storia degli Stati uniti e della colonizzazione del paese che ha prodotto, fra l’altro, il genocidio dei nativi.