I Am Not Your Negro

Il miglior film dell’anno fra quelli fino a oggi usciti nelle sale del nostro paese.


I Am Not Your Negro Credits: youtube.com

I Am Not Your Negro di Raoul Peck documentario Usa-Francia 2016, valutazione: 8

In quest’anno cinematografico in cui, fra i film impegnati, si è decisamente imposta la tematica dell’oppressione degli afro-americani – grazie alle importanti proteste dell’anno precedente contro il razzismo ancora imperante nell’industria cinematografica – il film del regista haitiano Peck è certamente il migliore, almeno fra quelli proiettati in Italia. Non a caso, mentre il peggiore Moonlight di Barry Jenkins ha vinto l’oscar come miglior film – pur essendo la pellicola più sopravvalutata dell’anno – I Am Not Your Negro, pur essendo candidato come miglior documentario agli oscar, ha avuto, in particolare in Italia, una scarsa distribuzione. Si dirà che si tratta di un documentario – categoria che per altro rischia di star stretta al film di Peck – ma ciò non impedisce a I Am Not Your Negro di essere decisamente più avvincente e in grado di suscitare un godimento estetico certamente maggiore del penoso Moonlight.

Ponendosi agli estremi opposti, il raffronto fra questi due film ci permette di comprendere come deve essere fatto un film impegnato dal punto di vista socio-politico e di come anche le tematiche dei film di “denuncia” possano essere strumentali tanto all’industria culturale, quanto a far apparire “naturale” anche gli aspetti più irrazionalistici dello status quo. I Am Not Your Negro è un ottimo esempio di film realista, che denuncia nel modo più rigoroso gli aspetti irrazionali dell’esistente e fornisce allo spettatore degli strumenti critici per comprenderne le cause profonde e per individuare delle soluzioni concrete e radicali a problematiche di fondo della propria epoca storica.

Moonlight è altrettanto esemplare come film naturalista, che si limita a riprodurre, a fotografare l’esistente senza portare lo spettatore a metterlo in questione e, dunque, scoraggiandolo sia nella ricerca delle cause – se non immediate e apparenti – sia all’individuazione delle possibili, plausibili e necessarie soluzioni. In tal modo si naturalizza l’esistente, anzi lo si presenta come necessario e immutabile. La conclusione cui tutto porta è: sei nero, gay, povero, orfano ovvero “diverso” e, dunque, sei “naturalmente” svantaggiato, non hai alternative al subire passivamente le angherie, sempre più violente, cui sarai soggetto da parte dei “normali”, a meno che non diventi a tua volta lupo, ovvero se non divieni a tua volta in grado di importi con la violenza sui più deboli. Solo così si può, in quanto “diversi” integrarsi nel sistema, ovviamente adattandosi a un ruolo subordinato nella catena di sfruttamento e di oppressione su cui il sistema si regge.

Al contrario il film di Peck mira a portare gli spettatori a voler contribuire alla lotta per spezzare questa catena di sfruttamento e oppressione, proprio per far crollare, come una spaventosa tigre di carta, quel sistema profondamente ingiusto e irrazionale che su di essa si regge. In Moonlight lo spettatore è costretto a identificarsi nel protagonista, per quanto non si tratti affatto di un personaggio tipico, ma del personaggio medio, prodotto di una visione standardizzata dell’“altro” imposta dal punto di vista del “normale”. Così lo spettatore soffre passivamente il calvario del protagonista, che lo porta a credere che l’unica via di uscita per l’oppresso sia quella di passare dalla parte degli oppressori. Il film di Peck è invece architettato, sin dal titolo, su un esemplare uso dell’effetto di straniamento in quanto offre molto da pensare e da riflettere criticamente sull’artificiosità dell’idea dell’“altro”, del Negro, ovvero del membro di una minoranza oppressa, del capro espiatorio dei mali sociali, del discendente diretto dello schiavo che impediva al proletariato di prender coscienza di sé come membro della classe rivoluzionaria – in quanto era solo lo schiavo a non aver altro da perdere che le proprie catene.

Dunque, sin dal titolo, il film è spiazzante, spinge a riflettere criticamente, a dubitare di quei pregiudizi che hanno portato a considerare “naturale” quella condizione di discriminazione, sfruttamento e oppressione del “negro”, da noi oggi generalmente sostituito con l’emigrato clandestino, con il musulmano e lo zingaro, ieri con l’ebreo. Al di là delle varie forme che ha preso nel corso della storia, si tratta sempre dello stesso capro espiatorio indispensabile alla classe dominante, per portare avanti unilateralmente la lotta di classe, spingendo i subalterni egemonizzati alla fratricida guerra fra poveri, di cui si nutrono da sempre populismo di destra e fascismo.

Ancora più spiazzante, straniante è che l’eroe del film non è il classico uomo d’azione – né in senso cattivo, il solito e “naturale” spacciatore di Moonlight, né in senso positivo: Malcom X o Martin Luther King. Protagonista è un intellettuale, per di più afroamericano e antagonista al pensiero dominante: James Baldwin, scarsamente conosciuto, in particolare in Italia. Inoltre il film non ci vuole far rivivere, immedesimandoci nella vita di un oppresso, di un subalterno “naturale” la sua condizione di discriminazione, anche perché al centro del film non vi è affatto la vita del protagonista né, per altro, quest’ultimo è veramente un oppresso e un subalterno. Al contrario, almeno rispetto alla stragrande maggioranza degli afroamericani, Baldwin non può che apparire e considerarsi un “privilegiato”, avendo potuto non solo studiare, ma apprendere a intendere in modo critico – sin da piccolo – il corso del mondo, tanto da divenire un significativo intellettuale in grado di tenere testa coraggiosamente al pensiero (unico) dominante. Il film – e perciò riesce a essere straniante anche rispetto al genere in cui si finisce per cercare di ingabbiarlo: il documentario – è infatti tratto da un breve abbozzo di uno scritto teorico che l’autore non ha, per altro, portato a termine.

Da questo soggetto apparentemente impossibile, Peck opera il “miracolo” di realizzare un film al contempo, profondo, innovativo e significativo dal punto di vista formale, godibile e in grado di denunciare l’ordine costituito, l’ideologia dominante e l’industria culturale. Il breve e incompiuto scritto di Baldwin diviene il filo conduttore di un film, che utilizzando nel modo più produttivo immagini di repertorio e interviste o brevi interventi in televisione dell’intellettuale, ricostruisce dei momenti importanti della storia dell’oppressione degli afroamericani e della lotta per la loro emancipazione. D’altra parte il film non si limita a ciò, ma mostra come questa lotta non riguardi soltanto gli afroamericani e i loro oppressori, ma tutti gli statunitensi e in prospettiva tutti gli uomini del mondo, essendo una pagina importante, a tratti decisiva e ancora attuale di quella lotta, che attraversa e segna di sé tutta la storia umana, fra le forze conservatrici e reazionarie – che si battono contro l’emancipazione o per la de-emancipazione dell’umanità – e le forze progressiste, radicali e rivoluzionarie che lottano per la liberazione del genere umano da ogni forma di oppressione.

Esemplare, a tale proposito, è la straniante scena madre del film, in cui vediamo Baldwin intervistato in quanto invitato a una vecchia trasmissione televisiva in bianco e nero; siamo, dunque, in un’epoca in cui è ancora in piedi il sostanziale sistema di apartheid vigente negli Stati Uniti nei confronti degli afroamericani. Il giornalista, che appare e indubbiamente si sente un liberal, tollerante e compassionevole nei riguardi degli afroamericani, che si considera e appare di ampie vedute, non fosse altro che per aver invitato e posto una domanda a un afro-americano – riconoscendogli così lo statuto di intellettuale – viene svelato per quello che realmente è dalla semplice risposta di Baldwin. Il giornalista è, infatti, il tipico esempio dell’esponente intellettuale, paternalista e in fondo razzista, di quell’ideologia dominante che considera in fondo i neri una razza, naturalmente, inferiore. La domanda, apparentemente spontanea e doverosa, posta dal giornalista: cosa pensa Baldwin del futuro dei neri in questo Paese – in un momento in cui si sta sviluppando il movimento che si batte per i diritti civili e la fine dell’apartheid – cela il pregiudizio che si tratti di una questione che riguarda essenzialmente i neri, gli oppressi, di cui il “bianco” non può che essere uno spettatore, per quanto magari partecipe e interessato. A tale questione Baldwin replica pazientemente – lasciando al contempo trasparire la pena che gli costa dover rispondere a questioni poste nel consueto modo “paternalista” – che “il futuro dei negri in questo Paese è precisamente tanto luminoso od oscuro quanto il futuro del Paese”. Dunque la lotta contro l’apartheid e per il riconoscimento dei diritti civili e politici agli afroamericani non è solo e non tanto una lotta contro la discriminazione razzista di una minoranza, ma una questione decisiva per gli interi Stati uniti, per la pretesa stessa degli Usa di essere un Paese liberale e democratico, al punto da dover costituire un modello da seguire per gli altri paesi. Non potrà, infatti, che essere decisamente ipocrita la pretesa di un Paese, che opprime e discrimina le proprie minoranze, di assumere un ruolo guida a livello internazionale, in quanto modello e punto di riferimento di chi si batte per i diritti dell’uomo.

Inoltre, prosegue Baldwin, la domanda è in realtà sciocca – per quanto sia posta con supponenza – perché dimentica la cosa essenziale, ovvero che “è tutto nelle mani del popolo americano”, quindi l’intellettuale non può essere un profeta, anche perché la storia la fanno gli uomini e non i loro dèi, né può prevedere il futuro, in quanto questo esso non è il frutto di una necessità, di leggi naturali e immutabili, ma dipende dalle libere scelte di tutti i membri del popolo americano, che dovranno necessariamente prendere posizione o a favore delle forze che si battono per l’emancipazione o per quelle che lottano per impedirla.

Tale azione, in un senso o in un altro, sorge necessariamente da una riflessione, o meglio da una domanda che “ogni americano si porrà nel proprio cuore”, ovvero: “perché è stato necessario creare il negro”. Quindi, con un nuovo colpo di scena, lo spettatore diviene consapevole che il “negro”, come la razza in generale e ogni forma di discriminazione non è nulla di naturale, ma è un prodotto storico e, in quanto tale, non è affatto il prodotto del caso, ma di una logica ben precisa, per quanto immorale possa apparire. Si tratta di una “necessità” dal punto di vista sociale, indispensabile al divide et impera e alla conseguente guerra fra poveri.

Ecco allora che Baldwin rivela come l’imperatore sia nudo, in quanto il noto, proprio perché tale non è conosciuto; come sostiene a ragione Baldwin, egli non è affatto un “negro”, come presuppone razzisticamente l’intervistatore “liberal”, ma piuttosto un uomo, in quanto tale eguale al bianco. E conclude: “ma se voi pensate che siamo dei negri, significa che avete bisogno di noi”. Non esiste infatti il servo, il subalterno e tantomeno la minoranza discriminata per natura, ma essa si viene a creare su una precisa esigenza di chi ha il potere, il dominio, e inventa tali forme di discriminazione solo per difendere i propri privilegi, accumulati a discapito di tutta quella parte dell’umanità cui sono stati, in un modo o nell’altro, sottratti.

24/06/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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