Collective, regia di Alexander Nanau (Romania), drammatico, Francia e Lussemburgo 2019, nomination a miglior film internazionale e a miglior documentario ai premi Oscar 2021, oltre a diversi altri premi, voto 5-; film di denuncia sulla devastante situazione presente in Romania con la piena affermazione del modo di produzione capitalistico, in cui l’unica cosa che conta sono i profitti immediati privati, ai quali tutto è sacrificato. D’altra parte il film è decisamente sopravvalutato avendo un impianto naturalistico che lo rende piuttosto noioso e pesante. Si tratta di una scelta stilistica postmoderna, del tutto fine a sé stessa e tipica di una produzione non ancora industriale come quella statunitense, in cui ha ancora spazio il soggettivismo romantico – nella peggiore accezione del termine – dell’“autore”. Inoltre questa impostazione di fondo minimal-qualunquista si ferma, naturalmente, sempre agli effetti immediati della controrivoluzione e non fa il minimo sforzo per risalire alla causa reale, cioè l’abbandono del tentativo abortito di transizione al socialismo.
La ferrovia sotterranea è una serie televisiva statunitense del 2021 creata da Barry Jenkins, distribuita sulla piattaforma Prime Video, che ha vinto diversi premi, voto: 4,5. Sin dal primo episodio la serie tratteggia molto bene lo stato di oppressione degli afroamericani e, al contempo, la loro volontà di riscatto. Interessante anche l’uso del Nuovo testamento da parte del raffinato e sanguinario schiavista per divinizzare ed eternizzare la schiavitù. Significativa anche la pena spaventosamente sanguinaria che era prevista per uno schiavo che fosse in grado di leggere e scrivere.
Il secondo e il terzo episodio sono davvero esemplari nella serrata e appassionata denuncia di pagine davvero buie e sconosciute della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver denunciato in modo realistico la spaventosa sorte degli schiavi in Georgia e dopo aver accennato alle differenze con la Virginia, emergono gli spaventosi sistemi, quasi sempre occultati, presenti nel Sud e Nord Carolina. Nel primo caso, dietro a un’apparente integrazione degli afroamericani, si celano forme di violenza occulte terribili, con le donne sistematicamente sterilizzate e gli uomini avvelenati con medicine funzionali a svolgere esperimenti atti a sondare fino a dove era possibile spingersi nel far patire il corpo umano. Nel Nord Carolina, invece, il puritanesimo vuole una società fondamentalista religiosa purificata dalla presenza degli afroamericani anche nella condizione di schiavitù, così i malcapitati afro discendenti vengono paragonati e sgozzati come maiali. Al loro posto vengono asserviti gli irlandesi che, per difendere il loro status e accecati dall’ignoranza e dal fondamentalismo religioso, talvolta si accaniscono contro gli afroamericani e con chi li tollera. Peraltro si denuncia come lo schiavismo abbia degli esiti davvero infausti, antiliberali e antidemocratici, per la stessa popolazione caucasica, che rischia gravi multe se insegna a leggere e scrivere agli afroamericani e, addirittura, la condanna al rogo per stregoneria per chi li nasconde in Nord Carolina.
Il quarto episodio rappresenta una notevolissima caduta di tono, di interesse e di sostanzialità delle vicende narrate, rispetto agli episodi precedenti. Si tratta di un episodio sostanzialmente insignificante, che non aggiunge nulla di significativo e che sembra fatto esclusivamente per annacquare il brodo. Anche il quinto episodio è alquanto deludente e finisce con l’annoiare, non avendo nulla di sostanziale da aggiungere. Le grandi dinamiche storiche tendono a scomparire dietro rapporti fra individui, che lasciano ben poco su cui riflettere allo spettatore. Nel sesto episodio emerge in modo sempre più evidente il formalismo che anima il regista e principale ideatore della serie, ovvero l’ideologia dominante degli apologeti indiretti del modo di produzione capitalistico. Nel settimo episodio tale tendenza a un formalismo fine a se stesso diviene assolutamente dominante, con il risultato di accrescere la noia per un nuovo e gratuito annacquamento del brodo, sempre più insipido.
L’ottavo episodio, dopo un inizio naturalista, precipita improvvisamente in un surrealismo postmoderno, sostanzialmente fine a se stesso. È davvero un peccato che una serie tanto promettente dilapidi completamente la credibilità che si era conquistata. Il nono episodio cerca di riprendere in extremis il tema fondamentale della serie, la ferrovia sotterranea, ma lo fa in modo poco verosimile e convincente. Nel decimo episodio il film torna a un lentissimo flashback che ci narra, con dovizie di particolari tendenzialmente e gratuitamente splatter, la tragedia priva di catarsi della madre della protagonista.
Nomadland di Chloé Zhao, drammatico, Usa 2020, voto: 4,5; film, non a caso, premiato con il Leone d’oro al festival di Venezia, può essere considerato un caso esemplare di cinema naturalistico, da non confondere con il grande cinema realista di un Ken Loach. Il cinema naturalista si limita a un rispecchiamento fenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. Un film naturalista è, perciò, astratto in quanto mira a riprodurre ciò che è medio in un determinato ambiente, mentre il cinema realista è concreto in quanto rappresenta il tipico di un insieme sociale, facendo emergere le differenze interne che lo caratterizzano. La vera opera d’arte è solo quella realista, in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti tipi sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico.
Spencer di Pablo Larraín, biografico, Usa 2021, voto: 4+, il film ha ottenuto una candidatura a Golden Globes, 5 candidature a Satellite Awards, 2 candidature a Critics Choice Award; film senza infamia né lode, assurdamente candidato persino a miglior film drammatico. Certo la produzione dell’industria culturale a stelle e strisce limita la mania postmoderna del regista e rende il film tollerabile, anche se decisamente soporifero. Per il resto il contenuto è al solito squallido. Si riprende, senza un briciolo di senso critico, il mito piccolo-borghese di Diana Spencer. La parvenue incapace di adattarsi alle regole bizantine della corte inglese, diviene la martire ribelle che cerca invano, dopo aver sposato l’erede al trono del Regno Unito, di riconquistare la “mitica” libertà del plebeo, sfuggendo alla ricercata e salutista cucina reale, attraverso il gesto trasgressivo di portare i figli ad avvelenarsi in un McDonald’s. Larraín si conferma, ancora una volta, fra i registi più sopravvalutati di questa triste epoca, altrettanto sopravvalutata si dimostra la protagonista Kristen Stewart capace di impersonarsi, senza un briciolo di spirito critico, nel mito di cartapesta di Lady Diana.
Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria di Glen Keane, animazione, Usa, Cina 2020, voto: 4+; ancora un film di animazione sino-statunitense, che dimostra, una volta di più, come non ci sia una significativa differenza ideologica tra le opere prodotte nella Repubblica popolare cinese e quelle dell’industria culturale a stelle e strisce. Al di là della prima parte piuttosto riuscita, il film si rivela, ben presto, una merce piuttosto mediocre dell’industria culturale ormai transnazionale. Il film ha ottenuto, nonostante ciò, diverse nomination e premi come miglior film di animazione: 1 candidatura ai premi Oscar, 1 candidatura ai Golden Globes, 2 candidature a Satellite Awards, 1 candidatura a Producers Guild, 2 candidature a Critics Choice Super.
Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, miglior film e miglior regia agli European Film Awards 2021, drammatico Bosnia-Erzegovina, Austria, Romania, Francia, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Norvegia, Turchia 2020, voto: 4. Fra i film più sopravvalutati dell’anno, premiatissimo, in particolare ha vinto i principali premi degli Oscar europei, che si dimostrano ancora una volta estremamente ideologici nel senso peggiore del termine. Il film può essere anche ben fatto dal punto di vista tecnico-formale, può apparire persino realista e verosimile, ma mediando un contenuto completamente rovescista questi aspetti non possono venir considerati a suo favore. Il regista si propone un imperativo puramente ipotetico, che non ha proprio nulla di morale e razionale. Si ritaglia, in effetti, della grande storia soltanto un frammento, ponendo al centro al solito la retorica delle povere vittime innocenti civili e si omette tutto il resto, ovvero il contesto storico, economico, politico e sociale. Così si mistifica, magari anche in modo non del tutto consapevole, la realtà. Di quest’ultima si dà una interpretazione del tutto ideologica e manichea, per cui i serbi bosniaci sarebbero il male assoluto, i bosniaci mussulmani sarebbero invece il classico agnello condotto al macello, mentre le colpe dell’Onu consisterebbero nel non aver fatto tutto il possibile per scatenare i bombardamenti della Nato, veri potenziali supereroi, contro i super cattivi serbi. Naturalmente di questi ultimi si mostrano solo gli aspetti più deteriori, mentre i musulmani sono presentati come vittime civili. Peraltro eroina del film è un personaggio davvero poco esemplare dal punto di vista morale, in quanto dinanzi a una tragedia di quella portata pensa quasi esclusivamente a salvare – con raccomandazioni e altri mezzucci, per di più completamente fallimentari – esclusivamente i membri della propria famiglia. Anche in questo caso questa triste vicenda e questa tragica attitudine potrebbero essere in sé anche verosimili, se fossero presentate in modo critico, con un po’ di sano effetto di straniamento. Al contrario nel film si fa di tutto per far impersonare l’inconsapevole spettatore con questo personaggio individualista ed egoista. Spingendo la parte peggiore del pubblico a far emergere il proprio lato più cattivo, per potersi così pienamente identificare in questa davvero intollerabile eroina. Certo, bisognerebbe comunque considerare ben più colpevoli di chi ha realizzato questo davvero nefasto film coloro che lo hanno, del tutto acriticamente, osannato addirittura come miglior film europeo dell’anno. Per quanto possa essere nefasta la produzione cinematografica dell’imperialismo europeo, un film così fondamentalmente rovescista avrebbe dovuto essere decisamente criticato e non incondizionatamente esaltato.
Yes-People di Gísli Darri Halldórsson, cortometraggio di animazione, Islanda 2020, voto: 4; certamente deludente per essere stato candidato ai premi Oscar. Per quanto breve, il documentario non ha nulla di sostanziale da comunicare, se non la totale mancanza di connessione sentimentale degli intellettuali che lo hanno realizzato con le masse popolari del loro stesso paese. Sugli elementi più arretrati delle quali si fa una ironia a buon mercato, da un punto di vista marcatamente elitario.
Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, drammatico, Italia 2020, voto: 4; film esaltato in modo davvero aberrante dalla critica della sinistra radicale cinefila, che dimostra ancora una volta di essere completamente egemonizzata dagli aspetti più irrazionalistici ed estremi dell’ideologia dominante fra gli “intellettuali tradizionali continentali”, ossia il postmodernismo. Nel caso specifico abbiamo finalmente un contenuto davvero sostanziale, ossia il selvaggio sfruttamento – strumentalizzando l’immigrazione clandestina – dei braccianti agricoli nel nostro paese e i relativi conflitti sociali che ne derivano, utilizzato come una ulteriore esibizione della propria subalternità all’ideologia che più fa comodo ai fautori dello status quo. Ecco allora che questi temi, estremizzati fino a renderli inverosimili, vengono strumentalizzati per rimestare ancora una volta nel torbido, riducendo la potenziale complessità della questione socio-economica affrontata all’unica interpretazione che sono in grado di darne questi intellettuali ultra decadentisti, cioè mirando a farne emergere esclusivamente gli aspetti più grotteschi.
Normal People è una miniserie televisiva irlandese in dodici episodi prodotta da Element Pictures per Bbc Three e Hulu, voto: 4. Il primo episodio sembra introdurre a una serie avvincente e godibile, sulla falsariga statunitense, ma più profonda e malinconica, ovvero tipicamente europea. La serie sembra, dunque, sintetizzare gli aspetti migliori delle serie americane ed europee, evitandone gli aspetti peggiori, il postmoderno continentale e l’ingenuità anglosassone. D’altra parte la storia è priva di elementi sostanziali, resta completamente ripiegata nella sfera immediata e naturale dell’eticità della famiglia e sembra una tarda ripresa del romanticismo. Peraltro, con tutte le nomination ricevute, era lecito aspettarsi decisamente di più.
Come spesso accade il secondo episodio vanifica gli spunti significativi presenti nell’episodio pilota e ne accentua gli aspetti più deboli. Innanzitutto il non avere nulla di sostanziale da comunicare, se non una banalissima storia d’amore fra un ragazzo e una ragazza. Sembra, dunque, il consueto episodio per allungare inutilmente il brodo. La serie appare come una mera merce di evasione, di mediocre qualità, dell’industria culturale, incapace di interessarsi alle problematiche storiche, geopolitiche, sociali, economiche, etiche etc. Dopo un episodio del genere è difficile che una persona intelligente abbia interesse a continuarne la visione.
Il terzo episodio è un minimo più movimentato in quanto la protagonista non accetta l’ennesimo sopruso del ragazzo. Detto questo anche l’unica vicenda di cui si occupa la serie, ovvero il rapporto “d’amore” fra i due protagonisti è del tutto irrealistico e inverosimile, dal momento che è il ragazzo che si vergogna davanti alla società della sua relazione, sebbene sia il figlio della donna delle pulizie della famiglia ricca e aristocratica della sua ragazza. A questo punto non ci resta che consigliare di seguire il nostro esempio e di smettere di continuare a vedere questa mediocre serie.
Padrenostro di Claudio Noce, drammatico, Italia 2020, il film ha ottenuto 3 candidature ai Nastri d’Argento, 1 candidatura a David di Donatello, Il film è stato premiato al Festival di Venezia, voto: 4. Padre Nostro è un film decisamente sopravvalutato. Pur essendo in teoria incentrato su una questione sostanziale come i conflitti sociali negli anni settanta e la deriva avventurista terrorista, il film si occupa esclusivamente dei risvolti che questa tragedia storica ha su un bambino, il cui padre è stato ferito in un conflitto a fuoco. In tal modo non vi è nessun approfondimento sull’evento e l’epoca storica e il film finisce con l’essere decisamente soporifero, non avendo nulla di realmente significativo da offrire alla riflessione dello spettatore.
Petite maman di Céline Sciamma, drammatico, Francia 2021, distribuzione Teodora Film, ottobre 2021, vincitrice del premio miglior film Alice nella Città 2021 al festival di Roma, voto: 4; ennesimo film assurdamente sopravvalutato, di impronta minimal-qualunquista, non ha nulla di sostanziale su cui far riflettere lo spettatore, né è in grado di offrire un soddisfacente godimento estetico.
Falling – Storia di un padre di Viggo Mortensen, drammatico, Usa 2020, distribuito da Bim, voto: 4-; il film, pur offrendo una rappresentazione realistica del fascismo quotidiano americano, molto diffuso dell’elettorato repubblicano, è davvero troppo noioso, non avendo niente altro di significativo da comunicare. Peraltro le alternative offerte al fascismo sono le solite prospettive postmoderne, davvero inefficaci - con la loro rivendicazione della differenza in quanto tale – ad aprire una prospettiva di superamento al davvero intollerabile identitarismo tradizionalista.
Estate ’85 di François Ozon, drammatico, Francia 2020, voto: 4-; ennesimo film sopravvalutato, assurdamente vincitore del festival del cinema di Roma. Un film decisamente inutile, del tutto privo di aspetti sostanziali. La solita storia d’amore romantica, con l’unica specificità, di avere come protagonisti due ragazzi.
Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, drammatico, Netflix, Canada 2020, voto: 4-; film noiosissimo di cui non si capisce davvero la ragione di essere. Di un naturalismo esasperato, di fondo postmoderno per la quasi totale assenza di questioni sostanziali e di reali motivi di interesse, quantomeno, non essendo di produzione europea, mantiene il decisivo elemento catartico tipico del cinema nordamericano. Mantiene però, al contempo, l’altrettanto tipico snobismo del cinema europeo realizzato da intellettuali tradizionali cinefili per intellettuali tradizionali cosmopoliti, incapace di stabilire una qualche forma di connessione sentimentale con il popolo.
Heimat è uno spazio nel tempo di Thomas Heise, Germania 2019, voto: 4-; realizzato su misura per i cinefili snob, generalmente della a-sinistra, che non possono non considerare un capolavoro un film ideato per impedire ogni connessione sentimentale con le masse popolari. Tutto ciò in nome di uno sperimentalismo fine a se stesso, che vorrebbe rivendicare la sua assoluta particolarità – come se fosse un bene in sé – ma in realtà non fa che prender parte a quella distruzione della ragione, anche nello specifico filmico, così caratteristica del decadentismo dell’Europa continentale.
Undine – Un amore per sempre di Christian Petzold, drammatico, Germania e Francia 2020, voto: 4-: fra i film più sopravvalutati dell’anno, opera di un regista altrettanto insensatamente sopravvalutato, Undine è un’opera senza nessuna qualità. Il film non solo non ricostruisce in nessun modo un mondo storico, ma ne dà soltanto la pessima interpretazione classista dell’ideologia dominante e non presenta un solo personaggio tipico. Il film è del tutto irrealistico, inverosimile e con cadute piuttosto pesanti nell’irrazionale. Alla base vi è una concezione del tutto irrazionale, romantica (nel peggior senso del termine) dell’amore a cui tutto il resto è sacrificato. Il film è decisamente noioso e non lascia nulla di significativo su cui riflettere allo spettatore.
A Classic Horror Story di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, horror, Italia 2021, voto: 4-; film del tutto sopravvalutato dalla presunta critica cinefila sedicente di sinistra, è anche un’opera assurdamente pretenziosa. In realtà non ha nulla di sostanziale o significativo da comunicare e rappresentare, se non la spocchia dell’intellettuale privo di qualsiasi connessione sentimentale con il popolo. Quest’ultimo è rappresentato come morbosamente attratto dai fatti di cronaca violenti e – per quanto concerne la componente meridionale e, in particolare, calabrese – come se fosse composto da dei caproni selvaggi del tutto soggiogati alla malavita organizzata.
Emily in Paris 1x10, serie tv Usa, fra le più ingiustamente premiate dell’anno, voto: 3,5; prodotto ben confezionato d’evasione dell’industria culturale statunitense. Certamente piacevole, anche se pieno di luoghi comuni alquanto scontati. Emerge, in maniera significativa, come i francesi temano i lavoratori statunitensi che, con la loro logica calvinista e neoliberista, favoriscono l’auto sfruttamento e l’aumento di orari e ritmi di lavoro. In altri termini, il messaggio che viene trasmesso è che gli statunitensi vivrebbero per lavorare e si realizzerebbero attraverso il lavoro – naturalmente astraendo da tutte le problematiche dell’alienazione del lavoro salariato – mentre i francesi lavorerebbero per vivere e per godersi la vita, al di fuori dell’estraneazione del lavoro salariato. Inoltre i francesi avrebbero decisamente più buon gusto e gli statunitensi maggiore spirito imprenditoriale.
Il secondo episodio prosegue sulla falsariga del primo, discreto prodotto meramente culinario, gradevole, ma non bello, senza acuti né cadute, se non l’intollerabile concezione apologetica dello statunitense, priva di sfaccettature e decisamente inverosimile. Tali perplessità non possono che aumentare nel terzo episodio, in cui la giovane statunitense viene rappresentata come un modello di sensibilità dinanzi alla presunta rozzezza dei parigini. Così, dai luoghi comuni siamo passati a una rappresentazione decisamente rovescista. Il quarto episodio non aggiunge nulla di significativo, la serie pare aver già esaurito il poco che aveva da offrire.
Il quinto episodio rende sempre più surreale una serie che ha come protagonista una laureata in marketing, che adora il suo lavoro e che ha come principale obiettivo quello di far comprendere al suo dirigente – che la bistratta continuamente – che starebbero dalla stessa parte. Aspetto comune ad altre serie comiche statunitensi è quello di presentare, senza un briciolo di effetto di straniamento, lavoratori sfruttati e bistrattati dai loro dirigenti, che non ambiscono ad altro che entrare nelle loro grazie e sono disposti, a tale scopo, anche ai più umilianti sacrifici.
Sesto e settimo episodio sono alquanto anonimi e servono quasi esclusivamente ad allungare il brodo. La serie apparentemente puramente culinaria e di evasione mira, in realtà, a far introiettare quanto c’è di peggio nell’ideologia neoliberista. Così l’eroina, con cui si tende a identificarsi, non essendoci naturalmente nemmeno un minimo di effetto di straniamento, ha due scopi fondamentali nella vita: far fare profitti a una ditta che pubblicizza beni di lusso e conquistarsi il proprio dirigente con ogni forma, anche la più umiliante, di captatio benevolentiae. Così l’americana a Parigi da una parte fa la moralista puritana davanti ai francesi, che sarebbero tutti, secondo i più scontati luoghi comuni statunitensi, dei mezzi pervertiti, dall’altra normalizza e naturalizza gli aspetti peggiori del pensiero unico dominante.
L’ottavo episodio è sostanzialmente anonimo, al solito gradevole, ma ideologicamente micidiale. Nella serie i rappresentanti degli aspetti più rozzi del capitalismo – secondo il consueto luogo comune – sarebbero incarnati dai cinesi, mentre l’eroina statunitense si presenta come una donna che si è fatta da sola, grazie all’amore e l’assoluta deduzione per il proprio lavoro. Emily rappresenta in pieno la banalità del male, visto che non si interroga mai criticamente sul lavoro che svolge, sul suo (non) senso, sui suoi fini.
Nel nono episodio scopriamo un’altra perla di “saggezza” neoliberista, ovvero che un uomo ricco e di bell’aspetto sarebbe un ottimo partito per una donna, del tutto a prescindere dal fatto che sia un impresario laido, snob e del tutto privo di contenuti sostanziali, in ciò in perfetta consonanza con la serie. La decima puntata mostra, senza volerlo, tutta l’ipocrisia del moralismo pietista statunitense. La protagonista procede tranquillamente sulla duplice staffa dei due amanti, sfruttando la crisi nel rapporto d’amore della sua migliore amica francese. Dunque, sarebbe lecito tradire le amiche, appena possibile, mentre al padrone si dovrebbero fare costantemente tutti i possibili salamelecchi, rinunciando a qualsiasi residuo di dignità del lavoratore. Penoso anche il luogo comune per cui, a causa della burocrazia, non sarebbe possibile in Francia licenziare “liberamente” i lavoratori salariati, anche da parte di proprietari di imprese private.
Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet, commedia, Francia 2001, nomination Oscar 2002 miglior film straniero, sceneggiatura, scenografia, fotografia e suono, film cult, voto: 3; difficile individuare un film così stupidamente sopravvalutato. Il favoloso mondo di Amelie è una vera e propria ode all’ideologia dominante dell’imperialismo europeo: il postmodernismo, degno erede della distruzione della ragione portata alle estreme conseguenze dal nazionalsocialismo. Non è un caso che tale opera programmaticamente ideologica abbia avuto successo anche negli Usa, dal momento che gli intellettuali della sinistra borghese statunitense si atteggiano a intellettuali postmoderni europei. D’altra parte l’irrazionalismo è frenato dalla stessa industria culturale, la quale deve comunque vendere dei prodotti che, se fossero eccessivamente ideologici, non avrebbero che un mercato di nicchia.
Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude, drammatico, Romania, Repubblica ceca, Lussemburgo e Croazia 2021, voto: 3; film insostenibile, ultraideologico dal punto di vista formale, essendo completamente improntato all’ideologia dominante continentale postmoderna, mentre dal punto di vista del contenuto considera rivoluzionari i controrivoluzionari del 1989 che hanno aperto la strada alla transizione al capitalismo nella sua forma più selvaggia.
Anche se nel film lo si vorrebbe addirittura interpretare, in modo rovescista, come conseguenza del socialismo, colpisce il livello davvero barbaro prodotto dalla controrivoluzione capitalista. Vediamo, così, una società povera, dove tutto è ridotto a merce e domina l’individualismo e la conseguente asocialità più sfrenata. La assoluta insostenibilità dei film prodotti nei paesi in cui si è affermata la controrivoluzione, lasciano molto da riflettere sul ruolo svolto dallo Stato durante l’abortita transizione al socialismo, quando il settore pubblico interveniva, cercando di dare un indirizzo alle produzioni, completamente finanziate dalla collettività. Se in quel sistema vi erano evidenti limiti, l’attuale neoliberismo non è certamente preferibile. Inoltre il film, fra i più sopravvalutati dell’anno, mostra ancora una volta come lo spirito del mondo abbia da tempo abbandonato il continente europeo. La cinematografia europea – a partire dai film presentati e premiati dai festival ed esaltati dalla dominante critica cinefila – è completamente imbevuta dell’intollerabile pensiero unico postmoderno, imperante nell’Europa continentale. Ancora una volta il festival di Berlino manifesta attraverso i suoi premi quanto sia reazionario l’imperialismo tedesco.
Il buco di Michelangelo Frammartino, voto: 2+; uno dei film decisamente più sopravvalutati dell’anno. Il buco dimostra il solito snobismo dell’intellettuale tradizionale cui piace rimirarsi la lingua e mantenere la massima distanza verso il proprio stesso popolo, nei confronti del quale non ha alcuna connessione sentimentale. Anche il grande tema della questione meridionale è del tutto sacrificato al formalismo e alla piena e convinta adesione all’ideologia postmoderna, dominante al di fuori del mondo anglosassone.
Un altro giro di Thomas Vinterberg, Danimarca 2020, voto: 2+; film del tutto insostenibile, sebbene sia stato considerato il miglior film europeo dell’anno. Un altro giro fornisce una pessima e del tutto inverosimile immagine degli insegnanti che, per poter riuscire a interessare gli studenti e non cadere nella depressione, si impongono di bere quantità sempre maggiori di alcolici. Paradossalmente gli insegnanti troverebbero così il successo nel luogo di lavoro e nella famiglia. Anche se l’aumento eccessivo di alcolici rischia di farli divenire alcolizzati, con conseguenze negative sul lavoro e in famiglia. Tanto che uno dei quattro sperimentatori muore, ma gli altri tre sembrano non solo avere successo, ma paiono suggerire agli stessi studenti in difficoltà di bere alcolici per superare con profitto la paura dell’esame.
Le sorelle Macaluso di Emma Dante, commedia, Italia 2020, voto: 2-; film assolutamente insostenibile, improntato al più bieco e ideologico postmodernismo all’amatriciana, noiosissimo in quanto tutto è dipinto con il solo colore del grottesco. Per quanto alcuni critici abbiano avuto il coraggio di cercare di salvare il film, mettendo in evidenza come la regista ami sempre indagare la vita delle masse popolari, in realtà non vi è nessuna consonanza spirituale con il proprio popolo, di cui si è in grado di cogliere i soli aspetti grotteschi. Anzi, film come questo mirano a voler cancellare dalla coscienza delle masse popolari anche quel residuo barlume del principio speranza e dello spirito dell’utopia, naturalizzando, per eternizzarla, la misera condizione dei subalterni.
Non mi uccidere di Andrea De Sica, drammatico, Italia 2021, distribuito da Warner Bros, nomination miglior film, montaggio, fotografia e colonna sonora ai Nastri d’Argento 2021, voto: 1,5; film decisamente insostenibile, senza capo né coda, si limita a mescolare nel modo più insensato una serie di luoghi comuni dei generi più diversi. Abbiamo, inoltre, la solita rovescista riabilitazione dell’irrazionalismo, come se costituisse, in quanto tale, un elemento sovversivo. È davvero assurdo come sia possibile continuare a sprecare risorse pubbliche e, più in generale umane, per prodotti così scadenti e diseducativi.
Titane di Julia Ducournau, drammatico, Francia, Belgio, 2021, miglior film al festival di Cannes e nomination miglior film e regia agli European Film Awards 2021, oltre a diversi altri premi, voto: 1. È veramente arduo trovare un film assolutamente insostenibile come questo, che ha ottenuto un numero così elevato di riconoscimenti nel modo più assoluto a tal punto immotivati. Per quanto si intenda assumere la posa da snob, per quanto si intenda distinguere la propria individualità dalle disprezzate masse popolari, non si capisce proprio come sia possibile giungere a un livello di così completa incapacità di formulare un giudizio estetico nei confronti di un film così palesemente ripugnante.
Oldboy di Park Chan-wook, drammatico, Corea del Sud 2003, voto 0,5; film assolutamente indecente. Fino a poco tempo fa la riproposizione dei classici del cinema marcava una decisa discontinuità rispetto alle tante, troppe misere opere prodotte nei nostri tempi. Purtroppo questi ultimi stanno sempre più prendendo il sopravvento anche nella selezione di sedicenti classici da ripresentare nelle sale, film che sono delle pure e semplici odi alla distruzione della ragione. Resta incredibile come abbia mantenuto un minimo di credibilità quella “critica” cinefila che oggi, come allora, considera questi pessimi saggi dell’ideologia postmoderna – nella sua fase di putrefazione – come se fossero dei veri e propri capolavori dell’arte cinematografica.