Disobedience di Sebastián Lelio è una delle migliori sorprese, in senso positivo, fra i film usciti quest’anno nelle sale italiane. È ben girato, bene interpretato, tocca tematiche sostanziali come il ruolo dell’altro, del diverso, del non conforme, dell’anticonformista di contro a una comunità tradizionalista, chiusa in se stessa, tanto moralista quanto fondamentalmente ipocrita. Questo universo chiuso, perbenista, convinto di avere rivelata da dio una verità assoluta esoterica, con un sistema di valori arcaici fondati sui dettami di una legge divina che non prevede, né accetta il non conforme alle immutabili norme etiche immediatamente accolte da ogni membro della comunità, dimostra improvvisamente tutta la propria debolezza e instabilità nell’incapacità di sapersi rapportare al proprio altro, a chi non accetta di cancellare il proprio io, la propria soggettività, di sacrificare la propria individualità, la voce della coscienza a questa eticità assoluta su cui si fonda questo arcaico comunitarismo.
Così, basta una personalità troppo spiccata, che si ostina a pensare con la propria testa e a riflettere prima di conformarsi alle regole millenarie della comunità, a provocare un terremoto. Ronit, magnificamente interpretata da Rachel Weisz, pur essendo l’unica figlia del rabbino capo, indiscusso punto di riferimento etico e religioso, non ha potuto, proprio perché figlia del più importante intellettuale organico alla comunità, che entrare in rotta di collisione con essa.
In una comunità arcaica e tradizionalista, del tutto patriarcale in cui la donna è ancora considerata un’appendice e nei fatti una proprietà privata dell’uomo; in una comunità in cui la sessualità, il desiderio in particolare femminile è considerato una fonte di pericolo – dinanzi all’assolutezza di una legge divina che intenderebbe annichilirla, sottomettendola unicamente all’esigenza riproduttiva, ingabbiandola in una ritualità etico-religiosa sempre identica a se stessa – la stessa libera espressione della sessualità di Ronit non può che essere considerata un elemento dirompente, che rischia di minare i secolari costumi della comunità. Tanto più se tale sessualità non si rivolge secondo la “natura” e la “legge” all’uomo, ma a un’altra donna della comunità, per altro subalterna in quanto priva dello spessore intellettuale che porta Ronit a riflettere, divenendo così libera di sottomettersi o no all’eticità primitiva comunitaria.
Un tale amore ha anche una spontaneità e naturalezza dirompente, perché del tutto in contrasto con le norme etico-religiose antiche che lo considerano, in quanto rivolto a una persona dello stesso sesso, qualcosa di degenerato, perverso e contrario alla stessa natura. Anzi, l’amore omosessuale fra due donne è talmente tabù da non essere nemmeno contemplato dalla Legge, pur così sacra e totalizzante, proprio perché la donna, costola dell’uomo, non è riconosciuta come legittima portatrice di un desiderio sessuale, tanto più se ha l’ardire di rivolgersi a un’altra donna, mettendo in discussione dalle fondamenta la tradizionale e considerata immutabile struttura ultra-patriarcale della società.
Tanto più che a essersi macchiata di un tale abominio è la figlia unica del rabbino capo, che con la sua predicazione e il suo esempio di vita rappresenta il principale punto di riferimento per la sua conformista e puritana comunità. Ecco che allora la rea non può che essere espulsa per sempre da questo regno dell’eticità, anzi la sua stessa memoria deve in qualche modo essere cancellata. Tanto più che Ronit, avendo ormai appreso a ragionare con la propria testa e ad agire seguendo la propria coscienza, non può certo ritornare a lasciarsi vivere in questo mondo animale dello spirito. Si arriva così a una, per quanto paradossale, separazione consensuale. Ronit cambierà continente, romperà ogni rapporto con la comunità e famiglia di provenienza e si affermerà con le sue doti personali e creative all’interno della società civile. Anche la sua sessualità, troppo a lungo repressa, si afferma liberamente, presumibilmente anche troppo, in quanto è ormai per lei talmente necessaria salvaguardare la propria individualità che sembra in modo più o meno consapevole rifuggire a ogni forma di rapporto di coppia troppo stabile, duraturo o troppo impegnativo sul piano sentimentale.
Nel frattempo la comunità, espulso l’elemento di disturbo, si è richiusa in se stessa lavando via la scandalosa colpa, per cui il più fedele discepolo del rabbino sostituisce in pieno la figlia naturale reproba, tanto da sposare in un “matrimonio riparatore” la debole e subalterna Esti, che non sarebbe stata in grado di resistere alla tentazione.
Le cose sembrano aver finalmente ritrovato il loro rituale e sempre identico ordine sino a che il rabbino capo, dopo una significativa predica sul valore e il rischio della dannazione che si cela nella conquista della libertà da parte dell’uomo, muore sul campo. Della sua precedente malattia e della stessa morte, per volontà dello stesso rabbino, nessuno si è nemmeno sognato di avvisare la “figlia prodiga”, ad eccezione di Esti che, dopo aver scontato in pieno la sua pena, reprimendo completamente il suo amore omosessuale e comportandosi sotto tutti i punti di vista da donna devota, si sente in dovere di avvertire l’amica del decesso del padre.
Così, in modo del tutto inatteso, e senza avere il tempo necessario a prepararsi, Ronit si trova a dover fare, dopo tanti anni, il suo ritorno in una comunità tanto esclusiva, che la considera non solo un ospite inatteso, ma essenzialmente inopportuno. La sua stessa presenza sembra ai più quasi sconveniente, quasi un’onta per il rabbino defunto, che riapre una dolorosa ferita, uno scandalo mai del tutto sopito, che non può che apparire come una macchia nella vita integerrima condotta da un uomo che è stato punto di riferimento della comunità.
Tanto più che l’amore, soffocato sul nascere fra Ronit ed Esti, è stato impedito con la forza dall’intera comunità, ma non si è estinto. Non si è mai sopito soprattutto in Esti che, pur calandosi nel suo ruolo di moglie devota non può che mantenere un vivido ricordo dell’unico momento in cui è stata veramente libera e ha potuto dare corso ai propri desideri, sentimenti e sessualità del tutto inibiti.
Il riesplodere quasi irrefrenabile di una passione troppo a lungo compressa non può che attirare l’attenzione dei membri della comunità, che sin dal primo momento tengono gli occhi ben puntati su Ronit, di cui non possono non temere lo spirito libertario e ai loro occhi del tutto anticonformista. In breve la frittata è fatta, vengono colti in fragrante da due anonimi membri della comunità, che non perdono un momento a denunciare l’inaccettabile riprecipitare nell’abominevole peccato delle due reprobe.
Per Esti è una tragedia, in quanto tutta la sua vita sociale, familiare e lavorativa è indissolubilmente legata alla comunità, che non può in alcun modo tollerare la sua conclamata omosessualità. A rendere la vicenda ancora più tragica, vi è la condizione del marito, comunque amato come un amico e un fratello da Esti, al quale sembra crollare tutto il mondo addosso. Egli è infatti il legittimo successore del rabbino morto quale nuovo capo della comunità, a cui quest’ultima, appena rimasta orfana, guarda convinta di potervi trovare un rinnovato punto di riferimento etico-religioso. Come se non bastasse Esti fa la altrettanto tragica scoperta che il figlio, da tanto tempo atteso, in particolare dal padre, è finalmente in arrivo e questo non può che rendere ancora più utopistica la via di fuga insieme a Ronit.
Per altro quest’ultima, diseredata dal padre e messa nuovamente all’indice dall’intera comunità, ritiene sia giunto il momento di ritornare alla sua vita, di riprendere quel ruolo libero e pieno di soddisfazioni che si è costruita nella società civile, in cui è pienamente riconosciuta e valorizzata proprio per il suo spirito libero, indipendente e anticonformista. Tanto più che il marito, per altro amico d’infanzia della stessa Ronit, considera quest’ultima come la tentatrice che ha fatto nuovamente ricadere nella colpa la sua infine redenta moglie, senza per altro offrirgli una reale alternativa di vita.
A questo punto tutto sembra precipitare verso uno scontato e in ultima istanza reazionario tragico fine melodrammatico, con il suicidio della traviata Esti, sedotta e abbandonata, dalla libertina e individualista Ronit. Al contrario anche il finale risulta imprevedibilmente ben riuscito. La tragedia, inaspettatamente in questa epoca di dominio dell’ideologia postmoderna, si compie nella catarsi. Esti lascia libera l’amica di ritornare alla vita che si è costruita e da cui la ha involontariamente strappata per farla precipitare nella sua tragedia esistenziale. L’inatteso concepimento non costituisce la classica goccia che fa traboccare il vaso, ma dà la forza a Esti di emanciparsi dall’ambito comunitarista di cui è stata sino ad allora prigioniera. Anzi, facendo tesoro del suo tragico percorso esistenziale, si risolve ad abbandonare la comunità per non costringere la sua prole a farne parte, come era accaduto a lei.
Lo stesso Dovid riesce, infine, a liberarsi del suo ruolo etico di marito e di predestinato punto di riferimento etico e religioso di una comunità tanto ortodossa quanto chiusa. Invece di seguire, in modo conformistico, come tutti gli altri patriarchi della comunità si aspettano, il vecchio maestro alla lettera, Dovid – scoprendo finalmente anche lui la possibilità di emanciparsi dal comunitarismo e di divenire un individuo realmente libero – coglie e interpreta produttivamente lo spirito dell’ultimo discorso del rabbino, il suo testamento spirituale, in cui indicava proprio nella libertà il tratto essenziale e irrinunciabile dell’essere umano.