Da bambino, e fino all'età del matrimonio, ho abitato in un borgo popolato da artigiani, operai e contadini ricchi di saggezza e comunisti all'80 per cento – certificato dagli esiti delle elezioni – e ho frequentato sia le botteghe artigiane sempre aperte ai ragazzi, dove sentivo parlare di cose per me misteriose, come la legge truffa, che la casa del popolo o una altrettanto popolare osteria in cui si ritrovavano gli uomini adulti dediti a cantare canzonacce, o a sfottersi oppure a dibattere davanti a un fiasco di vino, circondati da noi ragazzi in piedi intorno al tavolo luogo della tenzone.
Una “tecnica di discussione” era l'ottava rima, che poi ritrovavo anche nella campagna dove abitavano molti miei parenti e dove alla sera, in alcune occasioni, si riunivano anche i vicini. L'ottava rima è fatta di otto versi, improvvisati e cantati secondo una melodia standard alquanto impegnativa, composte da otto versi endecasillabi di cui i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema
AB
AB
AB
CC
In genere si trattava di un “contrasto” tra due improvvisatori e quindi si prestava a raccontare aspetti contraddittori della realtà e anche contrasti di classe.
Un ulteriore elemento di difficoltà era costituito dal fatto che chi replicava a un'ottava, doveva iniziare la propria con un verso che faceva rima con quello conclusivo della precedente. Cioè se l'interlocutore aveva appena concluso con CC, il replicante doveva iniziare con CD, e così via con discussioni rimate fatte di repliche e controrepliche che potevano durare moltissimo senza che l'attenzione dell'ascoltatore si attenuasse.
Rimanevo estasiato ad ascoltare questi contrasti, pieni non solo di grande capacità di improvvisare rime e metriche perfette (o quasi) ma anche di padronanza dei temi e arguzia nel “rispondere a tono”.
Del resto, in un'epoca in cui l'analfabetismo era ancora diffuso (ricordo di essere stati io, la mia mamma e la mia sorella a insegnare alla mia nonna ormai anziana a leggere e scrivere) poteva accadere che la comunicazione dei fatti di cronaca e la narrazione di storie avvenisse in una forma “poetica” che favoriva la memorizzazione e quindi la trasmissione, come avrebbe detto De André, di bocca in bocca. Che poi è stato il principale modo di trasmissione della cultura almeno fino all'invenzione della stampa a caratteri mobili.
Pilade Cantini, un toscanaccio molto più giovane di me, ma come me allevato a pane e comunismo, e per di più dotato di un'arguzia e una capacità comunicativa che gli ho sempre invidiato – fra l'altro è una delle migliori penne del giornale “Il resto del Cremlino”, titolo già eloquente –, si è cimentato con questa tradizione per narrarci nientedimeno che il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels.
Che tipo di “animale politico” sia Pilade lo si intuisce anche dalla scelta dell'immagine di copertina del libretto, un noto disegno in cui ai profili dei due autori del Manifesto è affiancato quello di Lenin.
Nell'introduzione l'autore osserva che già l'incipit dello scritto di Marx ed Engels, secondo la traduzione togliattiana, “Uno spettro si aggira per l'Europa”, è un endecasillabo (contare per credere!) che egli ha dovuto però modificare per il banale fatto che le parole facenti rima con Europa che aveva trovato erano sconvenienti (provate a immaginare per credere). E comunque, trattandosi di un classico fra i più diffusi al mondo e senza dubbio il più diffuso fra quelli che trattano la lotta di classe fra capitalisti e proletari, la sua “ritraduzione” in forma idonea alla trasmissione orale ha probabilmente costituito per Pilade una sorta di dovere morale. Tant'è che in poche ottave ha sintetizzato, rimanendo incredibilmente fedele ai contenuti dell'originale, i passi più significativi del capolavoro marx-engelsiano.
A titolo di esempio si riportano i seguenti 4 versi:
Da quando l’uomo è nato ed esistito
e sulla Terra ha mosso i primi passi
la storia – questo fatto è definito –
è sempre stata lotta tra le classi.
L'incipit del Manifesto è invece tradotto con la seguente ottava:
S'aggira per l'Europa una paura
chiamata comunismo dai padroni
riconosciuta come duratura
dai potenti di tutte le nazioni
e se risulta questa la lettura
di papa e zar, si sgherri e capoccioni
concludere si può con la sentenza
che i comunisti sono una potenza.
Mentre la sussunzione dei lavoratori, compresi quelli intellettuali, sotto il capitale è “tradotta” in tre versi che assomigliano incredibilmente a una terzina dantesca e che esprimono a in maniera impeccabile e nello stesso tempo emotivamente coinvolgente la pervasività di questo modo di produzione.
Il capitale, senza ipocrisia,
in merce ogni persona ha trasformato,
che faccia il pane o canti la poesia
Oltre al componimento poetico fanno parte del libello alcune spassose presentazioni di Simona Baldanzi, Guido Carpi, Max Collini, Carlo Lapucci e Federico Maria Sardelli, oltre a una molto più seriosa e che francamente ho trovato meno divertente di Mario Caciagli.
Il libro, che si legge tutto d'un fiato essendo costituito di una novantina di pagine gustose, me lo hanno regalato le figlie a cui non posso che essere eternamente grato. Il titolo è “Il Manifesto del Partito Comunista in ottava rima”, l'editore è Clichy di Firenze, l'anno di edizione è il 2017, casualmente (casualmente?) centenario della rivoluzione d'Ottobre, il prezzo non sono in grado di dirvelo perché rigorosamente cancellato come si conviene per i doni, ma credo che sia acquistabile senza mandare in rovina un qualunque lavoratore, ancorché precario, la lettura è vivamente consigliata.