Si è dovuto aspettare il centenario della nascita di Nelson Mandela per vedere un film che riconoscesse il contributo essenziale dato dai comunisti nella lotta contro l’apartheid. La figura storica di Nelson Mandela divenuto, dopo la sua liberazione dal carcere, l’uomo politico più popolare al mondo, è stata completamente fagocitata dall’industria culturale. Anzi la società dello spettacolo, vera e propria fabbrica del falso, ha fornito un’immagine del tutto capovolta di questo grande dirigente comunista nella sua lotta, con ogni mezzo necessario, contro il colonialismo e l’imperialismo. Fra gli infiniti esempi che si potrebbero fare basti qui ricordare il film di Clint Eastwood Invictus, infinitamente più pubblicizzato di Atto di difesa, che può essere considerato un vero e proprio capolavoro di rovescismo storico. Nel film di Eastwood assistiamo alla trasfigurazione di uno dei più significativi rivoluzionari del XX secolo – che ha dato un contributo decisivo a quell’epica lotta, che costituisce l’evento più significativo del secolo, ovvero l’emancipazione dei popoli coloniali – in un campione del gattopardismo, fondato sulla nota massima trasformista: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
In effetti, con una perfetta operazione di mutilazione della verità, l’ideologia dominante, alias la fabbrica del falso, ci ha presentato Mandela come il campione del pacifismo e del perdono, tanto che una volta conquistato, con le prime elezioni democratiche, il potere politico sarebbe divenuto sostenitore, contro la sua stessa base, della salvaguardia dei privilegi degli Afrikaner, ottenuti mediante il sistema di ultra sfruttamento dell’apartheid. In tal modo, facendo di un singolo momento del percorso storico di Nelson Mandela, un tutto, si è prodotto un capolavoro di negazionismo storico, ovvero si è fatto del massimo rappresentante della lotta contro il colonialismo imperialista, un pacifista non violento che, nonostante la netta affermazione elettorale, dopo secoli di asservimento dei subalterni, si sarebbe fatto garante della salvaguardia degli sporchi privilegi degli Afrikaner.
Al contrario, nel film tradotto in italiano con il titolo Atto di difesa, dal titolo originale Bram Fischer, quest’ultimo, rampollo di una delle più ricche e potenti famiglie Afrikaner, rinuncia non solo a tutti i propri privilegi, ma alla sua stessa vita, professionale, familiare e biologica per dare una direzione consapevole alla volontà di riscatto della popolazione africana, dopo secoli di dominio colonialista. In effetti, con un primo scarto rispetto alla visione capovolta fornita dall’ideologia dominante, abbiamo realisticamente Mandela rappresentato quale membro di spicco di una organizzazione collettiva rivoluzionaria, in cui il partito comunista era egemone. A capo di questo partito, di cui Mandela era membro, vi era proprio Bram Fischer.
I comunisti sudafricani erano stati costretti, dalla violenza degli Afrikaner nella difesa dei loro privilegi, a unirsi con l’ANC (African National Congress) in un’organizzazione clandestina, La lancia della nazione, intenta a organizzare con una serie di azioni di sabotaggio, considerate terroristiche dal potere costituito, per innescare un processo insurrezionale della massa dei subalterni. Ora, rovesciando un altro dei pregiudizi maggiormente mistificatori del pensiero unico dominante, per cui chiunque critica lo Stato sionista di Israele sarebbe un antisemita, nel film viene mostrato, realisticamente, come la massima parte dei dirigenti del partito comunista sudafricano fosse costituito da bianchi provenienti dalla comunità ebraica. Al punto che, il pubblico ministero, che si batte per la condanna a morte dei “terroristi”, ovvero dei rivoluzionari guidati dai comunisti, viene considerato, in quanto ebreo, un traditore della sua stessa gente e della storia di oppressione razzista che ha subito. Quindi, nel film, a essere considerato dalla maggioranza della comunità ebraica, schierata contro l’oppressione razzista, un antisemita è proprio il pubblico ministero, schierato, come lo Stato sionista d’Israele, dalla parte del regime dell’apartheid.
Inoltre nel film vediamo, contrariamente ai cliché pacifisti e rovescisti dell’ideologia dominante, un Mandela non solo marxista e comunista, ammiratore di Fidel Castro e della rivoluzione cubana, ma fra i più accesi sostenitori della linea insurrezionalista. Al punto che, sebbene già agli arresti, intende rivendicare a pieno titolo la linea insurrezionale che la Lancia della nazione era in procinto di lanciare, nonostante che in tal modo sarebbe stato certamente condannato, in quanto terrorista, a morte dal tribunale Afrikaner. Anzi, al centro del film c’è il confronto-scontro fra Bram Fischer, a capo del partito comunista, e contrario a proseguire sulla linea insurrezionalista – dal momento che la maggioranza della direzione dell’organizzazione rivoluzionaria era stata arrestata – e Nelson Mandela che vorrebbe invece sfruttare il processo per rivendicare in pieno la politica giudicata terrorista dalle autorità, in modo tale che lui e gli altri popolari dirigenti della Lancia della nazione sarebbero stati condannati a morte e ciò avrebbe favorito la tattica insurrezionalista, nonostante la decapitazione della dirigenza.
Al contrario Fischer, con uno sguardo più lucido al contesto internazionale in cui si viene a inserire la lotta di classe in Sudafrica, ritiene tatticamente migliore utilizzare il processo per denunciare, non solo al popolo africano, ma ai subalterni di tutto il mondo, la violenza del regime di apartheid e la necessità della lotta contro di esso da parte degli esponenti della Lancia della nazione, che non dovevano essere considerati terroristi, ma combattenti per la libertà.
Vediamo inoltre come Fischer, il protagonista, benché contrario in quel preciso momento a rilanciare le azioni di sabotaggio per innescare l’insurrezione, condannata alla sconfitta in quanto priva – in quel momento – della direzione consapevole e, quindi, puramente spontaneista, si sottomette lealmente al centralismo democratico dell’organizzazione rivoluzionaria, mettendo a repentaglio la sua stessa vita e quella della sua amata famiglia.
Solo così, non rompendo individualisticamente con l’organizzazione, ma continuando con enorme pazienza a convincere, non solo la maggioranza della sua organizzazione, ma lo stesso tribunale razzista, della superiore razionalità della sua linea. Fischer riuscirà, così, nel “miracolo” di evitare una ormai certa condanna a morte di Mandela e della direzione del Partito comunista e dell’Anc, che, dopo la sconfitta dell’apartheid, anche grazie al forte sostegno internazionale, sono in coalizione alla guida del paese da quasi trent’anni.
Il film, inoltre, appare rivoluzionario anche dal punto di vista formale, seguendo un’impostazione razionale e realista, senza cedere a nessun elemento dell’irrazionalismo formalistico e soggettivistico oggi divenuto completamente egemone considerati i rapporti di forza sfavorevoli, sul piano internazionale, alle forze rivoluzionarie e comuniste. Abbiamo, dunque, una forma del tutto adeguata al contenuto che vuole trasmettere, un film che mira a lasciare molto da pensare al proprio pubblico, piuttosto che mettere sempre in primo piano, al posto della cosa stessa, la soggettività particolarista del regista, intento costantemente ad autocompiacersi, mediante dei virtuosismi formalistici del tutto fini a se stessi.
Questa scelta di aperta rottura con il pensiero unico tanto dal punto di vista del contenuto, quanto dal punto di vista della forma è costato al film la damnatio memoriae da parte dell’ideologia dominante, politica e cinematografica, che ha preferito evitare di stroncare il film, preferendo farlo passare del tutto inosservato, impedendogli di mettere in discussione il pensiero unico dominante, dal punto di vista politico ed estetico.
D’altra parte, il regista Jean van de Velde, per riuscire a farsi produrre il film e a consentirgli un minimo di distribuzione, grazie anche al patrocinio di Amnesty International, ha dovuto cedere completamente all’ideologia dominante nel finale. In esso, in modo del tutto irrealistico, il protagonista si converte e converte lo stesso Mandela al pacifismo non violento, pronto a perdonare, piuttosto che mettere in condizione di non nuocere, i propri nemici di classe.
Per portare a termine questa genuflessione finale all’ordine costituito, il regista finisce per dare anche lui un contributo alla mutilazione della verità storica, quale strategia necessaria al suo compiuto travisamento ideologico. Ecco che allora il segretario del partito comunista, dopo aver convinto a non perseguire la linea insurrezionale i suoi compagni, si converte in un pretesco sostenitore del perdono, quale antidoto alla lotta di classe. Al punto che, nonostante fosse ormai prossimo il suo arresto, non si mette nemmeno in salvo, come consigliano i suoi familiari e amici, ma si lascia arrestare e immolare in carcere come un “agnello condotto al macello”.
Ora, appunto parliamo di verità mutilata, se è vero che Fischer fu poco dopo arrestato, è anche vero che, pur potendo mettersi in salvo all’estero, preferisce farsi processare in patria per denunciare il regime di apartheid, organizzando al contempo la sua evasione prima della conclusione del processo. Aspetto del tutto omesso nel film, che allo stesso modo occulta il fatto che dopo la fuga Fischer guida in clandestinità la lotta del partito comunista contro l’apartheid, fino al successivo e definitivo arresto. Dopo questa grave omissione, il film si limita a raccontare come Fischer, nonostante si ammali di cancro in prigione, gli viene impedito di curarsi, di partecipare al funerale del figlio gravemente malato e, addirittura, una volta morto viene cremato e invece di essere seppellito, come richiesto dai familiari, con l’amatissima moglie, le sue ceneri vengono ricondotte in carcere.
Infine, con un altro enorme omissis, dal punto di vista storico, assistiamo al lieto fine con la liberazione di Mandela, ormai divenuto il personaggio gattopardesco in cui lo ha trasmutato Clint Eastwood, in nome di quel pensiero unico, del quale il regista statunitense è notoriamente un fanatico adepto.
Ora, dinanzi a una conclusione che ci rimanda alla celebre abiura su cui ci invita a riflettere Brecht nel suo capolavoro, Vita di Galileo, sarebbe utile interrogarsi se l’abiura del regista – a un finale consono all’ideologia dominante, dopo averla fino a quel momento coraggiosamente avversata – sia da considerare più dal punto di vista positivo, come un abile stratagemma per far circolare almeno una parte di verità, sfuggendo allo strapotere della fabbrica del falso, oppure vada considerata come una resa dell’intellettuale al potere costituito, che condanna l’arte a tradire la propria vocazione di affermazione della verità, in quanto tale rivoluzionaria. Anche perché, abiurando, ha rinunciato alla possibilità, per quanto rischiosa, di una diffusione militante e ha finito per offrire un prodotto, una merce di nicchia al sistema che consolida nella sua forza, in quanto gli consente di dimostrarsi tanto liberale da consentire il pieno diritto di critica, a patto che non metta in discussione i fondamenti del sistema stesso e resti rinchiusa nella torre d’avorio in cui può fruirla esclusivamente il ceto medio riflessivo.