Immaginate di essere obbligati a vivere in una stanza; di costruire un altro muro, molto stretto, l'ennesimo in una distesa di cemento rovente che divide, deturpa, isola.
Immaginate che la stanza si trasformi in una cella carceraria a cielo aperto all'interno di un sistema organizzato a mo' di Panopticon: immaginate di dover scavalcare muri, filo spinato, superare check-point sotto l'occhio vigile – e le minacce, i soprusi, le violenze- di militari armati fino ai denti, solo per potervi recare a scuola o a lavoro.
Immaginate che gli stessi militari, presenti in ogni angolo della vostra terra, vi intimino di fermarvi, vi prendano i documenti senza nemmeno controllarli, vi bendino gli occhi spingendovi con la forza dentro una camionetta e vi traducano in carcere senza un'accusa precisa, un capo d'imputazione formalizzato, togliendovi anche il diritto alla difesa, al giusto processo, in base all'utilizzo della detenzione amministrativa. Immaginate di non potervi né difendere, né attaccare, né resistere anche solo per sopravvivere: è allora che, rinchiusi in una cella isolata e continuativamente sottoposti a trattamenti disumani, torture e sevizie fisiche e psicologiche, in palese violazione del diritto umanitario internazionale, vi potreste trovare nella condizione di dover prendere una decisione forte, durissima ma pacifica. Immaginate di ritrovarvi obbligati a decidere di intraprendere uno sciopero della fame ad oltranza con la speranza di ricevere cure adeguate, nel rispetto dei vostri diritti, ed un'attenzione mediatica che restituisca importanza e giustizia alla lotta di resistenza intrapresa da voi e dai vostri connazionali. A quel punto, immaginate di scontrarvi con un altro nemico, uno ancora più subdolo di quello che vi imprigiona dentro e fuori il carcere, con le sue mura, le sue leggi inique, le sue clausole razziste, il suo monopolio della violenza (esercitata costantemente con intenti persecutori). Immaginate che questo inaspettato nemico sia il silenzio pressoché totale delle istituzioni internazionali e dei principali gruppi di pressione sulle vostre condizioni di vita e la vostra resistenza: scoprireste così che il silenzio calato sull'insopportabile oppressione del regime al quale siete sottoposti, mostrando la sua natura di giano bifronte, diventa assenso nei confronti dei vostri oppressori, carcerieri, torturatori.
Questa narrazione distopica è la drammatica realtà quotidiana dei palestinesi: concentrandoci su uno degli aspetti della resistenza, ovvero quella dei prigionieri politici rinchiusi nelle carceri israeliane (quindi in uno Stato straniero, in aperta violazione delle convenzioni internazionali), dal 17 aprile oltre 1800 di loro hanno intrapreso uno sciopero della fame durato più di quaranta giorni.
La data di inizio della coraggiosa iniziativa non è stata scelta casualmente: corrisponde infatti alla Giornata internazionale di solidarietà con i prigionieri palestinesi, celebrata da molti anni a questa parte dal movimento di Resistenza palestinese. Lo sciopero si è interrotto all'alba del 26 maggio, a poche ore dall'inizio del Ramadan, mese sacro dell'Islam. Secondo quanto riportato dalle agenzie stampa Nena News ed InfoPal e già ripreso da alcuni organi di stampa, dopo venti ore di trattative avvenute nel carcere di Ashqelon tra palestinesi, israeliani e mediatori della Croce Rossa, è stato raggiunto un accordo che, nella mattinata del 27 maggio, è stato ufficializzato con un comunicato da parte degli organizzatori della campagna “Free Marwan Barghouthi” (la quale, inizialmente, aveva mobilitato i prigionieri politici allo sciopero su appello dello stesso politico palestinese).
La campagna sopra citata, nel suo comunicato ufficiale ripreso da Nena News, ha definito l'accordo come “un importante passo verso il pieno rispetto dei diritti dei prigionieri secondo il diritto internazionale”, sottolineando però anche come questo sia “(…) un'indicazione della realtà dell'occupazione israeliana che non ha lasciato altra scelta ai detenuti che digiunare per ottenere i diritti basilari”.
Sono 7000 i prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti che, loro malgrado, coinvolgono anche le loro famiglie: come riportato nel comunicato dell'Associazione Amicizia Sardegna Palestina, "torture, mancanza di assistenza medica adeguata, veri e propri omicidi avvenuti subito dopo l'arresto, hanno portato a 210 il numero dei palestinesi morti nelle carceri israeliane. Seicento sono i reclusi in regime di detenzione amministrativa, cioè senza un capo d'imputazione, senza processo, senza diritto alla difesa e senza certezza del tempo da trascorrere in carcere. La detenzione amministrativa è rinnovabile ogni sei mesi e questo sta portando alcuni di loro a raggiungere il quarto anno di reclusione in queste condizioni. Le stime di Addameer, associazione non governativa palestinese che opera in difesa dei diritti dei prigionieri, parlano di circa 300 bambini reclusi.
I prigionieri politici stanno oggi rischiando la vita per chiedere la fine della politica del fermo amministrativo e di isolamento carcerario, migliorare le condizioni della prigionia e la questione delle visite familiari, l'assistenza sanitaria, i trasporti e l'istruzione.
Il 19 maggio, nelle strade del centro di Cagliari, si è tenuto un flash mob di solidarietà con i prigionieri politici organizzato proprio dall'Associazione Amicizia Sardegna Palestina: numerosi attivisti e curiosi hanno partecipato all'iniziativa con la volontà di rompere il muro di complice silenzio innalzato dalla politica - sia nazionale che locale - e dai mass media.
Nel corso di interminabili settimane, l'unico nutrimento per i prigionieri politici palestinesi è stato rappresentato da acqua e sale che gli attivisti hanno offerto ai partecipanti insieme a del materiale informativo, in segno di solidarietà.
Mentre Israele alimenta la propaganda come mezzo di distrazione di massa avvalendosi inoltre, recentemente, di campagne di pinkwashing e provocatorie sfilate mondane -come quella del ministro della cultura israeliano a Cannes che, col suo vestito, celebrava ostentatamente i cinquant'anni di occupazione di Gerusalemme, i prigionieri palestinesi, le loro famiglie e tutta la comunità solidale si organizzano superando le appartenenze a svariate organizzazioni politiche, consci delle passate esperienze legate agli altri drammatici scioperi della fame di massa - risalenti al 2000 ed al 2012 - ed elaborano numerosi documenti politici nei quali invitano alla resistenza ed incitano alla lotta non violenta fuori e dentro lo Stato di Palestina ormai depauperato della sua terra, delle sue risorse e della sua statualità.
Le testimonianze ed i documenti che ci giungono da questa martoriata terra ed i movimenti, le associazioni, i singoli attivisti che si mobilitano a livello internazionale stanno contribuendo allo svelamento della reale situazione politica e socio-culturale che le minoranze in terra semita patiscono a causa di un'imperante ideologia sionista di matrice religiosa.
Intraprendendo uno studio più approfondito in merito, appaiono subito chiari alcuni elementi di contatto tra il sionismo e le altre ideologie totalitarie, tra i quali la fusione dell'identità nazionale con un elemento etnico-religioso, un fattore di stress post-traumatico nella fondazione, l'identificazione etnica di un gruppo percepito come minaccia all'identità nazionale, l'identificazione della nazione con l'ideologia, uno stato sociale garantito esclusivamente agli appartenenti all'etnia identitaria, una discriminazione etnica legittimata anche nell'impianto giuridico, una militarizzazione della società ed un indottrinamento identitario presente nel sistema scolastico ed istituzionale complessivo dello Stato.
Una banalità del male arendtiana che mostra la sua vera essenza nonostante Israele si prodighi per alimentare una parvenza di democrazia (“l'unica democrazia sul modello occidentale del Medio Oriente”, secondo il mantra dei leaders europei ed americani), di multietnicità, attenzione per i temi sociali, monopolizzazione dei settori produttivi, tecnologici e dei mezzi di comunicazione: nonostante quanto propagandato dalla maggior parte dei governi e dei mass media, la solidarietà è già diventata mobilitazione che ha ampiamente travalicato i confini locali ed è diventata internazionale, passando anche per le principali città italiane.
Il raggiungimento di un accordo che permettesse la cessazione dello sciopero della fame dei prigionieri politici è stato forse anche merito della mobilitazione internazionale: infatti, nonostante l'opposizione del governo israeliano ed, in particolare, del ministro della sicurezza Erdan, i servizi di sicurezza hanno invece spinto per l'accordo, soprattutto a seguito del ricovero in ospedale di diciotto prigionieri e dell'aumento delle tensioni nei territori occupati e nel mondo sensibile alla questione palestinese.
“Non si può cedere all'indifferenza, bisogna continuare ad essere solidali ed a resistere al fianco degli oppressi”, ribadiscono a gran voce gli attivisti delle associazioni pro-Palestina presenti al flash mob cagliaritano. È Bruno Serra, coordinatore dell'Associazione Amicizia Sardegna Palestina, a spiegare le condizioni di vita e prigionia delle popolazioni in questione: “la detenzione viene prevista anche solo per sospetti non ufficialmente dichiarati, sovente attivisti o ribelli, a causa di soffiate non conclamate effettuate da spie al soldo della polizia o dell'esercito israeliano”.
I detenuti sono obbligati a sopravvivere, come Marwan Al-Barghouthi, in celle sotterranee piccolissime, illuminate tutto il giorno, costretti a tapparsi le orecchie pur di non sentire i rumori assordanti e la musica ad alto volume, nell'impossibilità di cambiarsi anche per 17 giorni consecutivi, costretti a recarsi in infermeria ammanettati mentre l'Unità di repressione del servizio carcerario perquisisce la cella ed effettua ripetute ispezioni quotidiane.
Le torture, i soprusi e le minacce anche nei confronti dei familiari continuano incessantemente, così come l'obbligo di controfirmare moduli contenenti accuse spesso infondate e scritte sempre e solo in lingua ebraica che non tutti capiscono, soprattutto i bambini.
A tal proposito, la maggiore età in Israele si raggiunge al compimento del diciottesimo anno di età; in Palestina, invece, al compimento del sedicesimo. “Per questa ragione”', prosegue Serra, “si contano numerosi minorenni detenuti nelle carceri di un Paese per loro straniero. Tra i reati previsti, il lancio di pietre da parte di un bambino è punito con 10 anni di reclusione ed è altresì vietato scendere in strada con una semplice bandiera palestinese, pena l'arresto. Altro fatto non secondario è legato al giudizio penale che, per quanto concerne i civili palestinesi, è effettuato dai tribunali militari poiché le accuse sono principalmente legate alla sicurezza dello Stato ed al terrorismo. A dimostrazione dell'elemento razziale e discriminatorio che impregna la società sionista, il soldato israeliano che uccise a sangue freddo un giovane palestinese è stato invece giudicato da un tribunale civile e condannato a 15 mesi di reclusione, probabilmente nemmeno scontati. La stessa detenzione amministrativa è giustificata da ragioni di sicurezza, nel quadro di misure straordinarie che neanche la Corte Internazionale di Giustizia è riuscita a fermare in quanto Israele non ne riconosce il ruolo ed il peso politico”.
L'accordo raggiunto all'alba del 27 maggio, secondo quanto comunicato ufficialmente anche da due dirigenti dell'Autorità Nazionale Palestinese, Karake e Fares (responsabili per il sostegno ai prigionieri), prevede “'benefici di carattere umanitario per i detenuti politici in Israele” tra i quali “un aumento delle visite familiari, l'installazione di telefoni pubblici nelle prigioni, la possibilità di poter accedere ad un maggior numero di canali sugli apparecchi televisivi installati, allo scopo di accedere alle informazioni su quanto accade fuori dai penitenziari”.
Nonostante gli organizzatori ed i sostenitori della campagna “Free Marwan Barghouthi” abbiano sottolineato come gli accordi rappresentino “una vittoria per i prigionieri palestinesi”, la comunità palestinese ed i suoi sodali non intendono arrendersi allo status quo. Per fermare l'escalation di violenza ed il regime di apartheid portato avanti dallo Stato ebraico, oltre a cercare di arginare l'immobilismo di alcuni accordi di compromesso, l'appoggio internazionale degli Stati storici alleati e della finanza globale, secondo Serra "basterebbe non abbassare mai la guardia sulla violazione dei diritti umani perpetrata da quasi settant'anni a questa parte in Palestina, sulla sua infinita Nakba, continuando ad aderire a campagne internazionali quali quella BDS (Boicottaggio- Disinvestimento- Sanzioni) ed alle mobilitazioni locali e nazionali che nascono, pacifiche e sempre più numerose, in segno di sostegno e solidarietà con i palestinesi prigionieri nella loro stessa terra, nonostante le prospettive non rosee legate al sempre più forte appoggio che i governi e molte altre forze politiche, di schieramenti trasversali, concedono ad Israele”.
Un esempio denunciato di collaborazione tra il nostro sistema istituzionale ed accademico e quello israeliano è legato al progetto avviato da alcune università italiane, compresa quella cagliaritana, ed il Technion: una giovane attivista sottolinea però che "all'interno dell'Ateneo di Cagliari, così come in altri aderenti al progetto, si sono costituiti gruppi di resistenza denominati 'Studenti contro il Technion' in opposizione alla collaborazione, ufficialmente in campo farmacologico, tra l'industria israeliana coinvolta nella progettazione di droni e mezzi per carri armati, perciò anch'essa responsabile dell'occupazione, ed i nostri Atenei. È assolutamente doveroso non collaborare in alcun modo con le istituzioni israeliane implicate nella perpetuazione del regime di segragazione razziale in violazione di qualsiasi legge internazionale a protezione dei diritti umani”.
A conferma dell'elemento discriminante che permea le istituzioni israeliane, sono state sottolineate sottolineate dai presenti alcune clausole di legge, tra le quali "la concessione di crediti formativi universitari, tali da permettere di anticipare la sessione di laurea, agli universitari che intendano prestare servizio militare in operazioni di guerra e la possibilità, per gli ebrei italiani, di certificare la loro appartenenza religiosa e prestare un regolare servizio militare in Israele, senza per questo perdere la cittadinanza italiana ed acquisire quella dello Stato ospitante, come si verifica solitamente negli altri casi".
Mentre il flash mob prendeva corpo e numerosi curiosi si avvicinavano, le discussioni continuavano ed i partecipanti si esprimevano mostrando una indubbia conoscenza dell'argomento -nonostante l'accesso alquanto limitato a delle fonti libere ed attendibili-, qualcuno si è offerto di bere acqua e sale in segno di profonda empatia e solidarietà tanto con i prigionieri politici quanto con l'intero popolo palestinese, antica civiltà che lotta e resiste contro le discriminazioni, le persecuzioni quotidiane e gli assurdi divieti (tra i quali quello ai matrimoni misti tra ebrei ed appartenenti ad altri gruppi etnici e quelli all'acquisto di terreni ed alla costruzione di case, tutto ciò mentre le colonie si espandono a macchia d'olio con l'avallo dell'estrema destra israeliana, tanto da inglobare la Cisgiordania per più del 60% della sua superficie con muri che la attraversano e superano di più di 10 metri la codificata linea verde). Perciò la battaglia dei prigionieri ha assunto una grande importanza nella lotta per la libertà, soprattutto di fronte alla constatazione della ghettizzazione dei palestinesi entro ciò che resta della loro terra (infatti, dell'avanzato Stato che esisteva più di mezzo secolo fa, resta solo il 12% della superficie), delle disperate condizioni igienico- sanitarie nelle quali sono costretti a sopravvivere (soprattutto a causa del controllo pressoché totale delle risorse idriche e produttive da parte di Israele) e del rischio corso, con la prosecuzione dello sciopero della fame da parte dei prigionieri, che un malaugurato decesso potesse inasprire le tensioni esistenti fino a far scoppiare violenze e caos.
Ci si domanda allora quale sia il ruolo della comunità internazionale in un conflitto che si mostra sempre più unilaterale, un attacco continuo, quotidiano, ingiustificato ed ingiustificabile di una parte, quella israeliana dotata di uno dei più forti eserciti del mondo, stretta alleata degli Stati Uniti e delle maggiori potenze europee, nei confronti di un popolo inerme, indifeso, che cerca disperatamente di resistere e lottare per non continuare, come sostenuto da molti presenti alla manifestazione, "a nascere, sopravvivere, morire da schiavi del 'popolo eletto' ".
Per evitare la perpetuazione di questa realtà l'unica prospettiva possibile, sebbene appaia utopistica, sarebbe la costituzione di uno Stato unificato e democratico, inclusivo e non più basato su elementi di discriminazione razziale: infatti la soluzione maggiormente propagandata fino ad ora, ovvero i cosiddetti 'due popoli, due Stati', risulta essere superata dai fatti e dalla completa inutilità di una concessione quanto mai monca, che vedrebbe impuniti e anzi giustificati i crimini contro i civili compiuti da Israele.
Il problema sollevato dalla maggior parte dei presenti è legato all'atteggiamento indifferente, quindi connivente, della maggior parte dei partiti politici, delle principali organizzazioni sindacali e dei mass media: numerosi partecipanti sostengono "l'iniquità del trattamento riservato ad Israele, un piccolo Stato creato a tavolino in mezzo al deserto, privo di confini e di possibilità di scambi economici e culturali diretti con Paesi amici, con un servizio segreto (il Mossad) che si presenta come una sorta di piovra dell'intelligence mondiale, in grado di controllare numerose e potenti lobbies che, finanziando le campagne elettorali americane (sia dei repubblicani, sia dei democratici), riesce a vincere sempre ed a mantenere tutte le decisioni fondamentali subordinate al suo controllo". Tra queste ultime si può annoverare la recente approvazione, in Francia, della legge che mette al bando il movimento non- violento BDS perché ritenuto pericoloso, inneggiante al terrorismo ed all'antisemitismo: come sottolineato anche da Bruno Serra, "questi provvedimenti sono assunti in palese violazione della libertà di espressione e di scelta ma, nonostante ciò, sarebbe quasi auspicabile che si estendessero anche ad altri Stati, in maniera tale da sollevare un polverone mediatico globale sui possibili arresti dei militanti filo- palestinesi, sulle nobili finalità del movimento di Boicottaggio- Disinvestimento- Sanzioni e sui suoi più celebri sostenitori.
Perché anche la cultura mondiale e molti celebri intellettuali, tra i quali anche l'israeliano Ilan Pappé (teorico della Nuova Storiografia Israeliana ed autore de 'La pulizia etnica della Palestina'), si stanno mobilitando sempre più a favore della lotta contro l'apartheid e la negligenza delle Nazioni Unite, che garantiscono l'impunità allo Stato occupante".
A ribadire la necessità di queste iniziative è anche Nabil Khair, coordinatore delle comunità palestinesi in Italia: "le manifestazioni, i sit-in, le fiaccolate con una forte partecipazione popolare devono aumentare, tanto in Italia quanto nel resto del mondo, per esprimere la massima solidarietà nei confronti dei palestinesi che lottano dentro e fuori dalle strutture carcerarie. Si dovrebbe però moltiplicare di pari passo anche la copertura mediatica, il più possibile obiettiva, di ciò che succede realmente sotto l'occupazione israeliana: ad esempio, il 18 maggio un altro giovane palestinese è stato ucciso a sangue freddo da un colono che transitava in macchina e nessun giornale né telegiornale ha riportato questa od altre notizie in proposito. Attraverso queste iniziative pubbliche nelle piazze, nelle strade e nelle scuole, università e biblioteche non solo si rilancia la cultura palestinese, storicamente pacifica, ma si richiama l'attenzione dell'opinione pubblica consentendole l'accesso ad un'informazione imparziale che tenga conto di entrambe le parti in causa, smettendo di concentrarsi unicamente sui carnefici e spostando finalmente il focus dell'attenzione sulle vittime, che subiscono una continua carneficina da settant'anni a questa parte".
L'appello di Khair, ribadito anche dagli altri partecipanti, è chiaro: "informatevi, parlate apertamente, denunciate, fate arrivare un forte messaggio a tutti coloro i quali sono chiamati a partecipare, a non arrendersi ad un'evidenza che può ancora essere cambiata, ovvero ai semplici cittadini ma anche alle istituzioni locali e nazionali, alle associazioni, alle Ong, ai sindacati".
Infatti, continua Khair, "se si riuscisse a raggiungere l'obiettivo di una maggiore partecipazione e copertura mediatica, si consentirebbe alle associazioni ed alle organizzazioni filo-palestinesi che operano dentro e fuori i territori occupati di discutere e unirsi per trovare una convergenza di intenti ed iniziative volte alla loro attuazione: solo così si creerebbe un reale progetto politico, supportato in primis dai giovani, che possa andare oltre le seppur utilissime pagine social che informano e mobilitano quella parte di opinione pubblica che presta ancora attenzione ai temi internazionali".
Questi ultimi, ai tempi delle relazioni internazionali basate sulla globalizzazione, l'interdipendenza dei traffici ed il -probabilmente sopravvalutato- 'butterfly effect', sembrano ruotare esclusivamente attorno ai temi maggiormente affrontati dalla stampa mainstream: secondo Khair, però, "senza nulla togliere alle cronache degli Stati più citati bisognerebbe capire che, dietro fenomeni quali le migrazioni, si nascondono problemi che, volutamente ignorati, si trasformano in crisi umanitarie vere e proprie. Quale potrebbe essere la soluzione alla migrazione dei profughi palestinesi, così come a quella di altri richiedenti asilo provenienti dalla restanti zone martoriate del Medio Oriente? Ridare loro uno Stato che possa considerarsi tale, indipendente, libero e pacifico, e che consenta anche il ritorno di più di un milione di palestinesi rifugiatisi in Europa.
Purtroppo, però, si continua ad ignorare tutto ciò perché si tende a considerare solo la globalizzazione delle merci e non quella legata alla geopolitica, in base alla quale ognuno di noi ha bisogno dell'altro così come, in questo caso, la Palestina ha necessità del nostro aiuto e del nostro impegno tanto quanto noi, in Italia così come nel resto d'Europa, abbiamo bisogno di lei".
Interpellato su questo specifico punto, Nabil Khair spiega: "i legami tra popoli e Stati che contraddistinguono la geopolitica, specialmente quella odierna, impongono di rompere la cortina di fumoso silenzio che copre i crimini contro l'umanità, i quali si perpetrano da troppi anni in Palestina. Volendo tenere conto dell'esempio storico che ci giunge dalla stessa Italia, la popolazione civile ha resistito,combattuto e pagato un caro prezzo per sconfiggere il totalitarismo nazifascista e per poter finalmente conquistare una repubblica democratica, aperta ed equa: se volessimo traslare questo esempio sulla Palestina, quale sarebbe il modo per ottenere uno Stato libero ed una convivenza pacifica tra popoli ed etnie se le si impedisce di lottare anche solo politicamente e di avanzare qualsivoglia richiesta? A mio avviso", continua Khair, "il BDS è il metodo migliore in assoluto per intaccare gli interessi economici dell'occupante, dei suoi alleati e dei suoi finanziatori, tanto da rendere ipotetico il ritiro di Israele dalle colonie abusive".
'La storia insegna, ma ha pessimi scolari', sosteneva Gramsci: questo è il concetto ribadito tanto da Bruno Serra e Nabil Khair, quanto dagli altri presenti al sit- in cagliaritano.
Secondo Khair, "il mondo deve finalmente avere il coraggio di dire basta, dando ascolto al grido che giunge dal basso, dalla popolazione attenta alle condizioni di altri civili come loro, che resistono pacificamente allo scopo di isolare i veri violenti, razzisti, discriminatori, ovvero gli occupanti israeliani. La questione rilevante al centro delle proteste, dello sciopero della fame e delle trattative di pace, mai seriamente avviate, non è l'antisemitismo ma il sionismo: la politica israeliana si fonda su questa ideologia che erige muri, soffoca le libertà, alimenta l'odio etnico, legittima gli omicidi e le stragi di matrice razziale ed accresce il mito della superiorità su base religiosa.
Come sostenuto anche da Alan Hart nel suo illuminante libro 'Sionismo. Il vero nemico degli ebrei', è proprio questo l'elemento che viene celato dietro la giustificazione, l'alibi dell'antisemitismo".
Nel corso degli anni, senza una profonda riflessione sulle radici e le conseguenze profonde dei mali che hanno portato ai drammi delle guerre mondiali, persino il ricordo dell'Olocausto rischia di divenire quasi sterile, contemplativo in quanto fine a sé stesso e morboso nella narrazione dei dettagli. Come sottolinea ancora Nabil Khair, "ho portato i miei figli ad Auschwitz, così come ha scelto di fare la maggior parte delle persone palestinesi e filo- palestinesi presenti qui anche oggi ed ho tanti carissimi amici ebrei, perciò non posso accettare l'ennesima cattiveria che viene compiuta contro noi palestinesi e contro chiunque altro solidarizzi con noi, ovvero il rinfacciarci di essere antisemiti, razzisti e violenti mossi da un odio cieco nei confronti degli ebrei.
Noi stessi siamo semiti e quindi, a maggior ragione, vorremmo che si creassero le condizioni per isolare i sionisti, boicottarli economicamente, politicamente e culturalmente, considerando il fatto che un giorno si parlerà della pulizia etnica avvenuta in Palestina così come oggi si ricorda, con un vacuo senno del poi, il genocidio degli armeni, quello rwandese ed altri meno noti.
L'ignoranza storica, la rassegnazione che serpeggia anche fra alcuni sostenitori della causa palestinese e l'indifferenza delle giovani generazioni porta alla mancata considerazione dell'interdipendenza delle questioni economiche e socio- politiche internazionali ed al mantenimento di una situazione di conflitto perpetuo. Quest'ultima, alimentata dalla strategia americana del 'divide et impera' che imperversa nel Golfo, consente loro di poter contare su uno Stato satellite come Israele e sui recenti alleati strategici, ovvero Emirati Arabi e Qatar, per portare avanti i loro torbidi traffici economici legati alla compravendita di armi, di tecnologie belliche e di sfruttamento intensivo di preziose risorse naturali".
Mentre il numeroso corteo si preparava a sfilare lungo le centralissime vie della città, l'interessante disquisizione con Nabil Khair si avviava al termine.
Con la sua consueta profondità, ha ribadito gli ultimi concetti: “spero che lo sciopero della fame dei nostri fratelli finisca presto (1), mentre il mondo sta a guardare anche adesso senza muovere un dito per consentire loro di vincere questa strenua battaglia per la civiltà. Le speranze per il futuro? La nostra lungimirante resistenza è la spina nel fianco dell'oppressore. Per spiegare meglio ciò che intendo, voglio ricordare un tragico fatto accaduto nel 1981. Quando Israele bombardò Beirut, una giovane donna perse la vita: si riuscì però, miracolosamente, a salvare la bambina che aveva in grembo. La piccola venne battezzata col nome arabo di Speranza: questo tragico fatto dimostra come anche dalla tragedia possa nascere la meraviglia, come il miracolo della vita e la profonda speranza in essa possano redimere e salvare l'umanità".
Affinché il sacrificio, le sofferenze, la resistenza di un intero popolo, così come degli altri popoli oppressi e dimenticati della Terra, non si tramutino in odi difficilmente estirpabili ed in crisi irrisolvibili, bisognerebbe travalicare il muro dell'indifferenza ed attivarsi concretamente per far sì che queste denunce non cadano nel vuoto, contribuendo alla tragica ciclicità della storia.
Come sosteneva Ken Saro-Wiwa, poeta ed attivista politico nigeriano martire della lotta di liberazione della sua terra, "tutti noi siamo di fronte alla storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e ad una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali ad una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso stare zitto. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale”.
Note
(1): Nabil Khair, coordinatore delle comunità palestinesi in Italia, parla al presente dello sciopero della fame dei prigionieri, sopra citato, in quanto il sit-in di solidarietà tenutosi a Cagliari si è svolto nella serata del 19 maggio, quindi nella piena attuazione dello sciopero dei prigionieri politici palestinesi. Egli stesso, data l'imminente visita del presidente statunitense Trump in Terra Santa, aveva preconizzato che la questione della protesta sarebbe stata al centro dei colloqui tra il presidente dell'ANP Abu Mazen e gli sherpa di Trump sulla questione israelo-palestinese.
In effetti, visti i fatti accorsi a partire dall'accordo del 27 maggio e secondo quanto riportato anche dal quotidiano israeliano Haaretz, appare plausibile un intervento Usa nell'accoglimento delle richieste dei detenuti palestinesi, oltre ad altre pressioni interne agli stessi apparati istituzionali e di sicurezza israeliani.