Il concorso docenti imposto dal governo Renzi non rappresenta la soluzione al problema del precariato scolastico. Al contrario, esclude dall’insegnamento docenti qualificati ed opera una selezione basata su una visione aziendalistica della scuola pubblica.
di Lorenzo Silvaggi
Il concorso docenti, al quale lo scrivente ha appena partecipato, si sta avviando verso le battute finali. Sbandierato dal governo Renzi come la soluzione all’annoso problema del precariato scolastico, si tratta in realtà di un imbuto che taglierà fuori quasi due insegnanti precari su tre. Per comprendere appieno le conseguenze sociali di una simile selezione bisogna tener presente che il concorso è riservato ai soli docenti abilitati. Non si tratta dunque di neolaureati ma di personale qualificato, spesso con diversi anni di esperienza alle spalle ed un notevole investimento esistenziale nell’insegnamento. Peraltro, come era ampiamente prevedibile, migliaia di laureati privi del titolo di abilitazione hanno presentato ricorso contro l’esclusione dal concorso: la loro eventuale ammissione renderebbe la proporzione tra posti e candidati ancora più sfavorevole.
Data la gravità della situazione credo sia necessario avviare una riflessione particolarmente attenta sulla struttura e gli scopi del processo di selezione avviato dal governo. Partiamo dal fine dichiarato del concorso: serve, ha affermato più volte il sottosegretario Faraone, per selezionare “i migliori”. Per inciso, questa affermazione ne guadagnerebbe in autorevolezza se fosse stata concessa anche a noi, come cittadini, la possibilità di selezionare la classe dirigente del paese scegliendo coloro che ritenevamo “migliori”. Purtroppo negli ultimi anni questo diritto ci è stato sistematicamente negato, come risultato stiamo subendo una riforma dell’istruzione di cui è difficile riconoscere la legittimità.
Ripercorriamo in ogni caso il processo di selezione al quale i “concorrenti” sono già stati sottoposti. Una parte dei candidati, incluso il sottoscritto, ha ottenuto l’abilitazione all’insegnamento tramite TFA (Tirocinio Formativo Attivo): si tratta di un percorso di formazione di durata annuale che prevede, oltre a diversi corsi universitari dedicati alle didattiche disciplinari e pedagogiche, un tirocinio diretto da svolgersi a scuola, sotto la supervisione di un docente esperto. Per accedere al TFA gli aspiranti docenti hanno dovuto superare un test preselettivo nazionale, poi una prova scritta ed una orale. Il corso prevedeva valutazioni intermedie sia sulle didattiche disciplinari che su quelle pedagogiche, mentre le reali capacità di insegnamento sono state valutate “sul campo”, durante il tirocinio svolto a scuola. Infine, per ottenere l’abilitazione è stato necessario preparare e discutere una tesi, nonché presentare una lezione, di fronte ad una commissione composta non solo dai docenti del corso e da due professori esperti ma anche – mi preme sottolinearlo – da un rappresentante dell’USR (Ufficio Scolastico Regionale), articolazione periferica del MIUR. Altri docenti hanno avuto l’opportunità di abilitarsi tramite PAS (Percorsi Abilitanti Speciali): si tratta di corsi senza selezione in entrata, ma dedicati a insegnanti precari con una notevole esperienza di insegnamento (almeno tre anni).
Ebbene, evidentemente tutto questo non è stato ritenuto sufficiente per selezionare “i migliori”: la Costituzione, affermano Renzi e il ministro Giannini, impone il concorso. Spero che chiunque abbia seguito la politica renziana di questi ultimi anni – dalle modifiche alla Carta costituzionale, elaborate con pregiudicati, al recente invito all’astensione per il referendum sulle trivelle – si renda conto del carattere meramente pretestuoso e strumentale di questa argomentazione.
Entriamo comunque nel merito dell’ulteriore selezione proposta, per comprendere come è strutturata, cosa valuta e soprattutto perché valuta in un certo modo – qual è l’idea di insegnamento che ne è alla base. Ai candidati è stato chiesto di rispondere a 6 domande sulle discipline, e a 10 quesiti a risposta multipla basati su due brani in una lingua straniera a scelta. Il tutto, e questo è il punto cruciale, in 150 minuti. Dunque, ammesso che si possano considerare i testi di Inglese come “domande”, avevamo a disposizione circa 17 minuti lordi a domanda. Per comprendere l’assurdità di questo formato si pensi che, ad esempio, in questo lasso di tempo avremmo dovuto rispondere per la prova di Storia a quesiti di questo genere (cito a memoria): “il candidato illustri come svolgerebbe un ciclo di lezioni sul fenomeno della migrazione dal XII secolo all’età contemporanea, e come organizzerebbe attività relative a tale tema per Cittadinanza e Costituzione”; “Il candidato organizzi una serie di lezioni sul processo di “nation-building” in Europa tra '800 e '900. Le lezioni devono comprendere riferimenti ad un caso specifico ed essere accompagnate dalla programmazione di un viaggio d’istruzione”.
A mio avviso, constatare l’assurdità di queste richieste non basta, è necessario comprendere la logica di selezione che ne è alla base. L’abitudine al pensiero critico e all’approfondimento, come anche la propensione al vaglio dei contenuti e dell’esposizione, non rappresentano punti di forza: divengono, di fatto, elementi penalizzanti. Si tratta di attività che richiedono uno spazio di riflessione, dunque tempo. Il formato della prova privilegia invece velocità e prontezza: a stimolo deve seguire reazione, chi pensa è perduto. Questa modalità di selezione non è casuale, ma rimanda a un’idea di insegnamento già delineata dalla “Buona Scuola” e profondamente inquietante: l’insegnante del futuro non deve essere un intellettuale (termine “vecchio”, che ormai suona quasi come un’offesa), ma un veloce produttore di power point, un multitasker rapido e dinamico che incarni l’esaltante modello antropologico del nostro Premier. Poco importa se sarà altrettanto vacuo: la superficialità è diventata un valore e, comunque, in questo contesto di dinamismo ebete e fine a se stesso nessuno avrà tempo per accorgersene.
D’altra parte, con la scuola-azienda delineata dalla legge 107 il taylorismo intellettuale giungerà a compimento: quanti bulloni riesci a stringere in un’ora? E quanti progettini riesci a preparare? Domande meno distanti di quel che sembri, data la possibilità di ricondurre entrambe, in un futuro prossimo, ad un medesimo quesito (quello che veramente conta): quanto puoi far guadagnare all’azienda, scuola o fabbrica che sia? Qualcuno potrebbe trovarsi spaesato in questo nuovo panorama che si va delineando. Saremo tuttavia aiutati ad evitare la vetusta e improduttiva attività della riflessione critica da un armamentario di schemi concettuali e protocolli operativi prefabbricati, perfettamente imbalsamati tramite l’incontrollata quanto inutile proliferazione di inglesismi che caratterizza il discorso burocratico-pedagogico contemporaneo. Nel deprecabile caso qualche cocciuto voglia ancora ritagliarsi spazi di speculazione intellettuale si potrà sempre intervenire aumentando il carico di lavoro di progettazione e rendicontazione, così ci si mette una pietra sopra.
In sintesi, per tornare al concorso, la modalità di selezione non è semplicemente folle, è anche coerente con un modello che vede il mercato e la competizione (prudentemente ribattezzata come “merito”) come modello assoluto di funzionalità e valore, la scuola come un’azienda (nella quale il preside manager gestirà esigenze di cassa sempre più ingombranti), la cultura come marketing, dunque la velocità come imperativo categorico. Il sospetto più agghiacciante è che l’imposizione coerente di questo modello abbia come scopo anche quello di evitare accuratamente la trasmissione della capacità di giudizio critico alle nuove generazioni, generazioni che, come sottolineato da una certa retorica pragmatista, devono principalmente imparare a “fare”. Insomma, mica vogliamo rischiare che dalla scuola escano i “gufi” dell’ “Italia del no”: meglio formare produttori e consumatori solerti con una capacità di discernimento sociale e politica a misura di Tweet.
Alla luce di quanto detto, vorrei concludere sottolineando come la “Buona Scuola” ed il relativo concorsone facciano parte di una serie di riforme di stampo nettamente neoliberista che stanno modificando profondamente (dal mio punto di vista stravolgendo) le nostre istituzioni. Riforme, ricordiamolo, imposte da un governo che non è passato per le urne, che si regge su una maggioranza frutto di accordi e contropartite dai dubbi risvolti morali e politici, e comunque “nominata” sulla base di voti ottenuti tramite una legge elettorale incostituzionale. In questa prospettiva, lo svolgimento del concorso docenti non fa altro che confermare una drammatica situazione di emergenza democratica.