Del ricchissimo corpus platonico, di cui ci sono state tramandate con ogni probabilità tutte le opere destinate alla pubblicazione e che si compone di 36 libri (storicamente raccolti in 9 tetralogie), sono conservati 34 dialoghi, per i quali non in tutti i casi l’attribuzione a Platone è certa, l’Apologia di Socrate, quasi sempre ritenuta la prima opera scritta da Platone, ed una raccolta di 13 lettere. Su quest’ultimo elemento da tempo si è aperta una decisa discussione, in quanto per molte lettere l’attribuzione a Platone sembrerebbe poco verosimile. Diverso è il caso della settima lettera, per la quale la coerenza storica e stilistica del racconto e la forza filosofica dell’excursus, estremamente sovrapponibile al pensiero platonico maturo, farebbero supporre, fino a prova contraria, una probabile autenticità. In questo articolo cercheremo di portare avanti, con la consapevolezza che sia impossibile mettere la parola fine alla discussione su questo splendido documento, una proposta interpretativa per uno dei passaggi della lettera ritenuti da alcuni ambigui, tentando di difendere l’idea che essa sia stata effettivamente opera di Platone. Prima di addentrarci nel testo, tuttavia, è necessario soffermarsi sul contesto in cui avvengono i fatti in essa narrati.
Il contesto storico della lettera
Tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. Siracusa era una delle città più potenti del mondo. L’aumento del suo prestigio era dovuto in particolare alla vittoria che la città aveva riportato su Atene, la quale aveva a lungo tentato di concretizzare le sue mire protocolonialiste sulla Sicilia. Il prezzo pagato dalla semidemocratica Siracusa per vincere era stato tuttavia significativo sul piano interno: come sempre accade quando si è sotto attacco da parte di grandi potenze internazionali, nella città si erano dovute limitare (formalmente o sostanzialmente) le istituzioni democratiche esistenti, affidando il potere a tre comandanti. L’accentramento di potere si era mantenuto anche dopo la sconfitta ateniese, e, con l’accrescersi della minaccia cartaginese, uno stratega, Dionisio I, con manovre spregiudicare e con un certo sostegno popolare era riuscito a far cacciare, ridurre al silenzio o uccidere tutti i suoi possibili oppositori, diventando tiranno della città. Dionisio I da una parte aveva mostrato grande interesse per la cultura e le arti, invitando filosofi e letterati alla sua corte, dall’altra aveva rafforzato ulteriormente Siracusa come potenza, sconfiggendo i cartaginesi. Alla sua morte gli era succeduto Dionisio II, il figlio, che aveva manifestato ancora più del padre una forte vocazione per la filosofia.
Il ruolo di Platone
La studentessa o lo studente superiore che ci sta leggendo, nell’affrontare la filosofia e nel rapportarsi con Platone, avrà scoperto con interesse della divisione che nel filosofo esiste tra la realtà sensibile ed il mondo delle idee, mediata dall’anima (e, nel Simposio, dal ruolo dell’Eros-Filosofo); forse ricorderà che una delle opere oggi più note di Platone è la Repubblica, che il filosofo si dice sia morto mentre scriveva le Leggi, e che nell’Apologia racconta la condanna del suo amico/compagno e indubbio ispiratore filosofico Socrate. Potrebbe invece stupire molto la scoperta di un Platone che, pur indicando come modello filosofico un Talete che per guardare in cielo cade nel pozzo [1], non dimentica che la conoscenza teoretica è funzionale, in primo luogo ed oltre che a sé stessa, ad avere grazie ad essa ricadute pratiche (generando quindi un rapporto diretto tra conoscenza teoretica e giusta azione pratica, in una forma di ontoassiologia) e per il quale, quindi, il fare filosofia significava stare nel mondo, e spendersi per cambiarlo. In quest’ottica la settima lettera è decisamente indicativa, e mostra un Platone coinvolto proprio negli eventi storici e politici narrati al paragrafo precedente.
Testimoni antichi (e la lettera stessa) ci raccontano che Platone avrebbe fatto 3 viaggi a Siracusa nella sua vita: uno nel 388 a.C., quando Siracusa era sotto Dionisio I, dopo che, possiamo ipotizzare, si era recato nel territorio italiano per visitare Taranto ed il gruppo pitagorico lì presente (di cui era esponente Archita, con ogni probabilità amico di Platone), che aveva preso il potere nella città; il secondo, quando ormai nel 366 a.C. regnava Dionisio II, su invito di Dione (di cui avremo modo di parlare in questo articolo e che Platone aveva conosciuto durante la prima visita); infine il terzo, poco dopo, nel 361 a.C., ancora spinto da Dione e sempre sotto il regno di Dionisio II. I due viaggi che Platone compie su invito di Dione hanno come obiettivo fondamentale quello di trasformare il regime siracusano nel governo migliore possibile, almeno inizialmente con l’idea di rendere il re un filosofo e mettendo quindi in pratica la prospettiva politica che Platone ripete a più riprese [2], successivamente, dopo che questi si era reso conto dell’impossibilità di convertire Dionisio II in un filosofo (cosa che Platone vede sottoponendo il tiranno ad una peira, o prova), rinunciando alla prospettiva migliore (che Platone ritiene si possa realizzare solo con il kairos, ovvero con il momento opportuno, considerando egli impossibili forzature soggettiviste in un momento in cui le condizioni non sono mature) e ripiegando sull’obiettivo di garantire a Siracusa la libertà ed il governo sulla base delle leggi migliori. Emerge qui un Platone estremamente pragmatico, che sembra accontentarsi di un second best di fronte all’impossibilità di realizzare, almeno nell’immediato, la kallipolis o il governo del re-filosofo.
La lettera
Fatte queste doverose premesse, vediamo a grandi linee il contenuto della lettera (che sembra essere stata scritta tra il 354 ed il 353 a.C. in un momento in cui a Siracusa gli eredi di Dione erano sul punto o, più probabilmente, avevano appena preso il potere), specialmente in riferimento all’analisi che ne fa Filippo Forcignanò nella traduzione da lui curata per Carocci.
Il testo viene subito connotato come politico in quanto Platone si schiera fermamente con i seguaci di Dione e, per raccontare come quest’ultimo si fosse convinto del fatto che i Siracusani dovessero ambire ad essere liberi e governati dalle leggi migliori, procede ad una svolta autobiografica che racconterebbe l’attività politica di Platone stesso tra l’Atene del regime dei Trenta tiranni (come oggi viene chiamato) e la democrazia restaurata. Tra i due Platone prende decisa posizione contro il regime dei Trenta tiranni, ma ha dure parole anche contro la democrazia (è buona cosa ricordare che Platone non fosse un pensatore democratico). In questo passaggio si colloca l’uso della figura di Socrate come metro della giustizia di un regime politico, che ha valore esemplificativo nel testo della lettera e che è il passaggio su cui torneremo nel prossimo paragrafo.
Conclusa questa trattazione autobiografica che vuole riassumere lo sviluppo politico di Platone, questi racconta come anni dopo sia stato invitato da questo giovane brillante e che si era innamorato della filosofia, ovvero Dione, alla corte di Dionisio II, per provare a trasformare il tiranno siracusano nel re-filosofo. Platone tuttavia nota subito che sia i costumi di Siracusa sia la figura di Dionisio II non aprono ampie prospettive per la filosofia: infatti i primi sono propri di chi passa le giornate festeggiando in banchetti, mentre il secondo frustra ogni speranza di Platone di poterlo trasformare in filosofo [3]. Di fronte a questa circostanza Platone, messo alle strette da Dionisio, il quale ha peraltro esiliato lo stesso Dione, accusato (non a torto, probabilmente) di tramare contro il governo, compie quella svolta verso il second best, ovvero libertà e migliori leggi, che nella lettera (che ricordiamo è una testimonianza tarda e che riguarda eventi di un passato in certi casi abbastanza remoto, di un Platone che ormai, lontano dalla Repubblica, si trova tra la scrittura del Politico e la morte, avvenuta come dicevamo mentre ultimava le Leggi) emerge come obiettivo per Siracusa.
La lettera prosegue poi a narrare rapidamente l’epilogo tragico della vicenda di Dione, che contro Platone (il quale continuava a spendersi in senso diplomatico e riteneva meglio non fare nulla piuttosto che usare la forza, paragonandosi implicitamente in questo a Socrate) marcia su Siracusa con l’obiettivo di instaurare un diverso regime politico con una rivoluzione armata, venendo ucciso dal tradimento di suoi compagni d’armi nell’impresa. Come probabilmente si è capito, su questa figura si accentra tutto il racconto della lettera, e lunghe sono le righe che Platone spende per celebrare Dione, da lui ritenuto il suo migliore allievo e che ha il grande pregio di essere, anche e soprattutto davanti ai costumi dominanti in Sicilia, un uomo temperante e retto che al potere avrebbe realizzato proprio gli obiettivi platonici; riguardo questi obiettivi, poi, si può vedere un Platone estremamente vicino a quello delle Leggi, che infatti consiglia di organizzare, dopo aver vinto la guerra civile allora in corso agendo nel modo più giusto come gruppo organizzato, un consiglio di 50 anziani (sulla falsariga del “consiglio notturno” dell’ultimo testo platonico) che diano le leggi alla città, sotto le quali vincitori e vinti devono sottomettersi.
Platone si dilunga quindi sul raccontare il secondo viaggio (sotto Dionisio II), che si svolge con Dione in esilio ed al quale Platone è spinto perché gli è giunta notizia che Dionisio II abbia ancora maggiormente ampliato il suo interesse per la filosofia. Anche in questo caso le speranze platoniche vengono disattese quando Dionisio, lungi dall’essere curioso di scoprire di più della filosofia, dopo aver frequentato per poco Platone (che è quando si verifica la peira di cui parlavamo sopra) si convince di poter scrivere di filosofia, con un atteggiamento opposto a quello che dovrebbe essere proprio del filosofo, che è sempre alla ricerca della conoscenza, e non ha, specie dopo pochi giorni, l’arroganza di pensare di possederla (a spiegare le basi filosofiche di questa considerazione ci pensa l’excursus del testo, che in questo articolo non abbiamo modo di affrontare). I rapporti tra Dionisio e Platone continuano a peggiorare mentre il filosofo è trattenuto in vario modo a Siracusa, e solo l’incedere dei pitagorici tarantini permette a Platone di fuggire per la terza volta dalla città. In chiusura del testo viene brevemente enunciato come Platone si sia opposto a Dione sul suo obiettivo di conquistare con le armi la città, e come il filosofo abbia scelto di non schierarsi (cosa che, secondo alcune interpretazioni, Platone recrimina a sé stesso nella lettera stessa), assistendo passivamente alla tragica conclusione della vicenda.
Un elemento interessante per considerare il rapporto tra il Platone politico e le vicende siracusane sono gli sviluppi paralleli della teoria politica platonica (la Repubblica, il Politico, le Leggi) rispetto al susseguirsi dei viaggi in Sicilia. In questo senso al primo viaggio sotto Dionisio II sembra corrispondere non già l’idea che la città debba essere governata da un consiglio sottomesso alla legge, ma appare ancora forte l’idea di un soggetto sopra la legge (nella Repubblica addirittura si diceva che la kallipolis non necessitasse proprio di leggi, nel Politico il re illuminato è sopra la legge) che possa governare rettamente la città. Alla sconfitta pratica delle prospettive platoniche si collega quindi una svolta teorica che l’ultimo Platone, ormai in buona parte disilluso, viene convinto a tentare.
La funzione esemplare di Socrate ed il giusto governo della legge
Come dicevamo riassumendo la lettera, Platone, sostanzialmente all’inizio del testo, tratta delle forme di governo che si sono susseguite ad Atene all’indomani della sconfitta nella guerra del Peloponneso contro Sparta, e per mostrarne l’inadeguatezza utilizza Socrate. È importante ricordare che in questo passaggio Platone vuole portare acqua al suo mulino secondo il quale sarebbe la legge ed il suo rispetto l’elemento fondamentale per garantire l’esistenza, se non di una kallipolis o del governo di un regnante illuminato, per lo meno di una città ben organizzata; per questo è sembrato strano e possibile indizio di falsità del testo che, nella critica alla democrazia, si mostrasse una circostanza in cui, come vedremo, la procedura legale è stata completamente seguita. Vediamo ora la critica platonica e poi facciamo considerazioni a riguardo.
Per prima cosa, Platone mostra come il regime dei Trenta si sia tenuto sull’arbitrio e su attacchi verso i democratici sconfitti, ed in tal senso racconta come Socrate (figura amata da Platone, ma che questi rende oggettivamente esemplare proprio raccontando questa esperienza) fosse stato mandato a prelevare, contro la legge, un cittadino per metterlo a morte [4]; Platone racconta come Socrate, pur di non commettere un atto empio, abbia rischiato la vita a causa di rappresaglie e si sia rifiutato di compiere quanto gli era stato detto di fare. Successivamente Platone parla della democrazia restaurata, che il filosofo afferma essere molto meglio della tirannide, se non che un gruppo di democratici, e qui sta il punto importante, accusò di empietà Socrate (che pur di non commettere atto empio si era persino esposto a rischi personali, e proprio opponendosi all’arresto di un democratico!), e, dopo regolare processo, lo condannò a morte. Si nota qui l’enorme capacità dell’autore del testo di giustificare oggettivamente una vicenda che, se davvero è Platone l’autore della lettera, ha anche significativi elementi personalistici: infatti, Socrate viene mostrato come il più giusto nel confronto con la tirannide, e proprio sulla base di quanto visto con la tirannide si giustifica anche l’irregolarità del regime democratico, secondo una procedura letterariamente estremamente astuta.
Esposta la struttura della trattazione platonica, resta il dubbio sul perché si sia operata questa scelta di raccontare un episodio legalmente ineccepibile per mostrare il male della democrazia. Tanto più che, come per l’avvenimento di Leonte di Salamina, c’era un evento analogamente utile contro la democrazia sempre recuperabile nell’Apologia del Platone giovane [5]: possibile che Platone abbia dimenticato quell’aneddoto ed in mancanza di meglio abbia ripiegato sulla morte di Socrate? Appare improbabile e forzato. Per dare credibilità alla lettera e non ripiegare sull’idea di un falsario che non sapeva dell’illegalità commessa dai democratici serve quindi capire la funzione che questa seconda critica, che non si scaglia contro la legge in quanto tale, ha nel testo della settima lettera.
Dobbiamo per prima cosa ricordare che ci troviamo di fronte un Platone che, con la vecchiaia, è andato sempre più perdendo fiducia nella capacità pratica della filosofia e del filosofo di imporsi per organizzare la kallipolis, mentre parallelamente nella sua concezione filosofica acquistano importanza l’attenzione al kairos (al momento opportuno), la funzione della legge e la rivalutazione della libertà (che si associa all’accettazione che sia difficile organizzare necessariamente tutto ed è funzionale alla concordia tra le classi, se ben equilibrata con l’autorità) e di un governo collettivo (che stempera l’idea forte della Repubblica che a governare debbano essere i soggetti costitutivamente migliori fin dalla nascita, istituendo al suo posto un principio di anzianità, la quale investe tutti). In questo senso, e ricordando la continua attenzione che Platone pone rispetto all’educazione, alla temperanza, alle giuste leggi ed ai costumi migliori, ma soprattutto al fatto che debba comunque governare chi, per conoscenza del bene o per esperienza, sia una persona virtuosa ed abbia la capacità di gestire nel modo migliore o per lo meno più decoroso la cosa pubblica, l’affermazione di contrasto alla democrazia assume il valore esemplificativo di mostrare come la legge non sia sufficiente a sé stessa, ma serva la giusta legge, e le migliori persone ad amministrarla: si tratta quindi di una condanna della democrazia ateniese restaurata che (Platone non dimentica di dirlo nella lettera) è caratterizzata da un costume sempre più decadente e governata da uomini ingiusti; la quale condanna, quindi, lungi dall’essere inutile e plausibilmente falsa, ha nel testo una funzione duplice e fondamentale:
1. Da un punto di vista teorico, serve a Platone per mostrare la sua contrarietà assoluta ad un regime dispotico disinteressato della virtù, e la contrarietà relativa ad uno democratico male organizzato [6].
2. Da un punto di vista contingente, serve per indicare ai seguaci di Dione che sono in lotta per il potere una scala di preferenze da seguire per il governo: se non si può realizzare la kallipolis, meglio allora una democrazia malata di una tirannide (come quella dei Trenta, ma che è una foglia di fico che copre una critica a quella di Dionisio II).
Inserita in questa prospettiva, del tutto coerente con gli scopi della lettera per come sono concepiti da Forcignanò ed altri, ed argomentata in una risposta politica pratica ai problemi di Siracusa, la funzione esemplare di Socrate è perfettamente integrata nel quadro complessivo del testo e trasmette ancora una volta l’idea di un Platone sempre pronto a tornare sui suoi passi e a confrontarsi con il suo presente con l’obiettivo di realizzare il governo a suo avviso più giusto per la popolazione.
Note:
[1] Cfr. Diels-Kranz, 11 A 9 (dalla digressione del Teeteto di Platone).
[2] Cfr. Platone, La Repubblica, V, 473d-e.
[3] In questo Platone accusa anche il padre, Dionisio I, di aver dato al figlio un’educazione sbagliata, riprendendo un tema che era proprio delle Leggi (cfr. Leg. 695c-696a).
[4] Si tratterebbe probabilmente di Leonte di Salamina, come detto anche nell’Apologia, 32c-d.
[5] Si tratta del famoso evento della battaglia delle Arginuse, di cui si legge in Apol. 32a-c (peraltro poche righe sopra gli avvenimenti che riguardano Leonte).
[6] Cfr. Platone, settima lettera, 334c-d; la questione ritorna ad esempio anche nel Politico, 303a-b.