L’equilibrio tra l’uomo e la Terra sembra essersi rotto, ora il nostro pianeta è in grave crisi e si sta avvicinando a un punto di non ritorno.
Il docente ha diviso schematicamente questa situazione in tre crisi: climatica, ambientale ed energetica. Con la prima si fa riferimento ai cambiamenti climatici. La crisi ambientale è invece una diretta ed evidente conseguenza della perdita di equilibrio causato dallo sfruttamento senza limiti della natura. La crisi energetica consiste nella scarsità di risorse: la maggior parte dell’energia che oggi usiamo deriva da fonti non rinnovabili che, in quanto tali, sono destinate a terminare. Esistono altre fonti di energia, le energie rinnovabili, che però, ad oggi, non riescono a soddisfare il nostro fabbisogno energetico e inoltre per la produzione degli strumenti (come pale eoliche o pannelli fotovoltaici) si impiegano combustibili fossili. Questi tre aspetti non sono ovviamente da prendere separatamente bensì da osservare come un’unica crisi, la crisi della Terra. Manifestazioni pratiche di questa crisi sono, per esempio, l’innalzamento del livello dei mari, che potrebbe portare alla sommersione delle aree costiere; l’innalzamento delle temperature; l’estinzione di molte specie vegetali e animali; l’acidificazione delle acque dovuta all’anidride carbonica emessa che per un quarto della sua quantità finisce negli oceani; fenomeni meteorologici sempre più estremi come, per esempio, l’uragano che si è abbattuto sulla Sardegna nel settembre dello scorso anno e che i maggiori media si ostinano a definire “maltempo” senza nessuna contestualizzazione. Tutto ciò porta ingenti danni economici, costringe migliaia di persone a fuggire: si stima che il 15% dei rifugiati nel mondo siano rifugiati climatici.
È stato fondato nel 1988 l’Ipcc (gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) che pubblica periodicamente dei rapporti di valutazione basati sugli articoli e sulle ricerche pubblicate; su questi rapporti si basano documenti importanti come il protocollo di Kyoto. Ultimamente l’Ipcc ha pubblicato uno studio: Global warming of 1.5℃ che ha messo in luce le differenze che si avrebbero se si limitasse il riscaldamento globale a 1.5 gradi invece dei 2 gradi che sono il trend attuale. Nello studio sono proposte anche quattro possibili strategie da adottare per limitare il riscaldamento. Il primo si basa sulla fine, entro il 2050, dell’uso dei combustibili fossili: ovviamente questo risulta molto complicato se non accompagnato da un cambio del sistema produttivo. Il quarto scenario prevede che ci sia uno sviluppo e un utilizzo di una tecnologia per il prelievo e lo stoccaggio dei gas serra: questo scenario manterrebbe inalterato il sistema produttivo, è però il meno consigliato perchè è molto variabile basandosi su una tecnologia non ancora presente. Gli scenari 2 e 3 rappresentano una via di mezzo e stranamente sono i più accreditati. Questi prevedono una riduzione drastica dei combustibili fossili, lo sviluppo di energie rinnovabili, lo sviluppo umano e sostenibile che vede tra i suoi obiettivi l'abbattimento della povertà, della fame, una sanità per tutti e molti altri buoni propositi. Viene spontaneo domandarsi come tutti questi nobili obiettivi siano conciliabili con lo sviluppo del capitale che necessita delle disuguaglianze che dice di voler eliminare.
È interessante notare come in tutti i rapporti dell’Ipcc, o anche nei sommari indirizzati ai decisori politici, non si parli mai dell’industria militare: questo perché nel 1997 il vicepresidente degli Usa Al Gore insistette per far esentare dal protocollo di Kyoto le attività militari all’estero, comprese quelle multilaterali. Ancora oggi, per una serie di norme internazionali, le nazioni non forniscono a organi intergovernativi come l’Ipcc i dati sulle emissioni dell’apparato militare. Talvolta vengono forniti i dati dei consumi per le azioni interne o per la pubblica difesa ma mai i dati riguardo missioni all’estero o spostamenti internazionali. Questo ovviamente non è giustificabile, l’industria bellica incide notevolmente sull’ambiente: basti pensare al carburante dei veicoli militari, alla quantità di petrolio emessa per la produzione di armi, munizioni, la costruzioni di basi d’oltremare, ai danni causati dallo scoppio di una bomba.
Possiamo affermare che siamo in una nuova era geologica: l’antropocene o meglio capitolocene, in quanto questa nuova era è iniziata da quando si sono affermati i sistemi capitalisti, andando incontro alla perdita dell’equilibrio, e non da quando l’uomo è presente sulla Terra.
Come viene affrontata questa crisi? Ci sono i negazionisti: coloro che negano che ci sia una crisi climatica e che ci sia il riscaldamento globale. Le loro posizioni sono sempre più indifendibili a causa degli inesistenti appigli scientifici. Ci sono i paladini: ferventi sostenitori della green economy e dello sviluppo sostenibile, spesso per meri interessi economici. Questa posizione corrisponde al secondo e terzo scenario dello studio sopracitato dell’Ipcc e che quindi manifesta delle buone intenzioni che sono praticamente incompatibili con la ragion d’essere del sistema di cui fanno parte. L’unica via che sembra effettivamente risolvere questa crisi è agire sulla causa e non sulle conseguenze, superando quindi il sistema capitalista basato sullo sfruttamento, che distrugge inevitabilmente tutto ciò che pubblicamente afferma di voler difendere. Per fare ciò è necessaria una crescita della coscienza sociale, che avviene tramite la comprensione del sistema stesso, e che fornisce i mezzi per combatterlo.
Durante il dibattito è emersa una questione molto interessante: se la soluzione è il socialismo, è realmente possibile che si realizzi prima che si arrivi al punto di non ritorno? Questa domanda è ovviamente legittima soprattutto se analizziamo la situazione odierna: la coscienza che dovrebbe guidare qualsiasi tipo di azione è molto debole e la sua crescita è ostacolata dall’indifferenza e dalla disinformazione. In queste condizioni una rivoluzione in senso socialista sembra un’utopia ma è proprio a questo che dobbiamo aggrapparci. Ernst Bloch afferma che nel momento in cui si perde lo spirito dell’utopia il marxismo si riduce a un impotente constatazione delle distorsioni e delle ingiustizie della società capitalista.
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