Chi non conosce la storiella di quello che voleva far dispetto alla moglie? Quanti, invece, conoscono una analoga su quei demagoghi che, per escludere il maggior numero di immigrati dall’accesso al reddito di cittadinanza, disegnano un provvedimento che taglia fuori anche gli italiani?
E sì, perché nello scontro a bassa intensità tra i due partiti di governo - M5S e Lega - il tema reddito di cittadinanza è un terreno sul quale i vicepresidente del Consiglio, Di Maio e Salvini si giocano pezzi di consenso, soprattutto in vista delle prossime elezioni: il primo non può rinunciare all’approvazione in tempi brevi del provvedimento; il secondo non può far passare un decreto i cui beneficiari siano anche gli immigrati. E poi, come vedremo, se si allarga la platea degli aventi diritto, non saranno le risorse ad aumentare, ma l’importo del reddito di cittadinanza a ridursi.
Non è su questi temi, comunque, il terreno di scontro più palese tra M5S e Lega, riguardo il decreto sul reddito di cittadinanza, ma su quelli riguardanti l’aumento delle pensioni di invalidità. Pertanto, si può commentare la bozza di decreto circolata in questi giorni ipotizzando con una certa tranquillità che gli elementi di fondo rimarranno invariati. Ma andiamo con ordine.
I beneficiari del reddito di cittadinanza
Si diceva dei beneficiari. I requisiti non sono riferiti solo alla condizione economica; non basterà avere un valore Isee inferiore a 9.360 euro l’anno, non possedere patrimoni immobiliari, oltre la prima casa, di valore superiore a 30 mila euro e non superare un reddito annuo di 6 mila euro. Si decade dal beneficio anche se un qualunque membro del nucleo familiare ha acquistato un’auto nei sei mesi antecedenti la richiesta.
Ma c’è di più. Infatti, per limitare l'accesso al reddito di cittadinanza ai migranti, la bozza di decreto (quella che circola mentre scrivo) prevede che possano beneficiarne solo chi risulti “residente in Italia in via continuativa da almeno 10 anni al momento della presentazione della domanda”.
Forse gli esperti di comunicazione del “governo del cambiamento” troveranno formule retoriche per spiegare anche agli italiani (che secondo propaganda devono arrivare prima) che ogni anno rientrano dall’estero, magari senza troppa fortuna, perché debbano essere esclusi dal beneficio del reddito di cittadinanza. Quanti saranno è difficile dirlo, ma si consideri che al 1 gennaio 2018 risultavano iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) oltre 5 milioni di persone, soprattutto giovani (37,4% sul totale), ma con una crescita significativa degli ultracinquantenni (+20,7% nella classe di età 50-64 anni; +35,3% nella classe 65-74 anni; +49,8% nella classe 75-84 anni e +78,6% dagli 85 anni in su), ad indicare un bisogno di uscire da una vita in Italia confinata in un limbo tra la disoccupazione e la pensione, rispetto alla quale nessun governo degli ultimi trent’anni (men che meno quello attuale) ha posto mano se non per aumentare le già pesanti condizioni di precarietà.
Resta il fatto che nel solo 2016 quasi 38 mila residenti all’estero sono rientrati in Italia, con quale fortuna è difficile dirlo, ma certo non incoraggia all’ottimismo sapere dalla Fondazione Migrantes che la nazionalità italiana risulta al quarto posto tra quelle europee presenti a Londra tra i senza fissa dimora. Poveri a Londra o in altra località straniera, con questo provvedimento resteranno poveri e beffati al loro rientro in Italia, dove dovranno cominciare a maturare i dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza, al pari di un cittadino straniero. Ciò dimostra, ancora una volta, come per emanciparsi dai bisogni e per riconquistare diritti e farli avanzare è stupido dividersi sulla base del colore della pelle o della nazionalità, ma occorre stare insieme perché accomunati dalla condizione di sfruttamento.
Il ricatto occupazionale
Ad ogni modo, gli sbandierati 780 euro esisteranno probabilmente solo per pochi. La componente del beneficio economico che andrà ad integrare il reddito famigliare è prevista fino alla soglia di 6 mila euro annui. 500 euro al mese. Solo nel caso in cui il nucleo familiare risieda in una casa in affitto godrà di ulteriori 280 euro mensili definiti, anche qui, come soglia massima. E dalla richiesta di reddito di cittadinanza, si aprono le porte del purgatorio.
I beneficiari vengono mantenuti al limite della povertà assoluta, ma soggetti ad una serie di controlli ed obblighi estesi a tutto il nucleo familiare. Tutti, salvo casi particolari, sono ad esempio tenuti a rendere dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, costretti ad accettare offerte di lavoro entro cento chilometri dal luogo di residenza nei primi sei mesi di fruizione del reddito di cittadinanza e in tutto il territorio nazionale nel caso di rinnovo.
Ora, qui i temi delle famiglie iper-protettive o dell’ansia di allontanarsi da casa non c’entrano niente. Lo dimostrano una spesso drammatica storia di emigrazione dei lavoratori e le nuove ondate migratorie che i dati già riportati evidenziano in maniera inconfutabile. Eppure spesso rimbalzano notizie o interviste ad imprenditori che spiegano la loro difficoltà a trovare lavoratori, soprattutto giovani, spesso descritti come svogliati, o choosy per dirla alla Fornero.
Non molto tempo fa girava la lamentela di un imprenditore romano, sorpreso di sentire rifiutare il lavoro di cassiera a 1.110 euro al mese perché troppo lontano da casa. Risulta, forse, inconcepibile a questo titolare di una catena di centri benessere, ristoranti e di attività che operano nel turismo e nell’intrattenimento che con quella retribuzione difficilmente si possa campare se stai a Roma e la propria famiglia a Catanzaro. Certo, i giornali hanno a volte riportato anche notizie di difficoltà a trovare lavoratori per impieghi più qualificati e meglio retribuiti. Ma questo fa emergere un’altra questione, quella della struttura produttiva italiana che tende a dequalificare il lavoro e che il reddito di cittadinanza non risolve.
Semmai, siamo ancora di fronte ad una classe dirigente, che, seppure si vanti di essere nuova (e spesso incompetente), appare così simile a quella che Paolo Cinanni (politico e scrittore che ha esaminato con lucidità il fenomeno migratorio) accusava di “evitare le riforme” mentre “spingeva le nostre migliori forze produttive verso l’emigrazione”. Ecco, qui sta il punto fondamentale: senza un intervento serio di politica per l’occupazione e senza un efficace intervento sulla struttura produttiva non può esserci alcun rilancio dell’economia, nessuna redistribuzione della ricchezza, nessun calo significativo della disoccupazione. Al massimo, stante la logica che ha modellato il decreto di reddito di cittadinanza, ci saranno settori che potranno “attingere a piene mani nella nostra riserva di manodopera, senza nulla cambiare nelle condizioni di vita e di lavoro” di chi si trova costretto ad emigrare (ancora Cinanni), pena la perdita anche del reddito di cittadinanza. Tutto ciò, semmai, potrà favorire il fenomeno del precariato ed il motivo è presto detto.
Senza un piano industriale che stimoli l’occupazione in settori strategici per l’economia italiana e che permettano una qualificazione del lavoro, la domanda di lavoro continuerà ad essere concentrata nei settori a bassa produttività e bassa qualificazione, come quella dei servizi, quali sono il settore alberghiero, la ristorazione, l’assistenza sociale. Basti osservare come si è spostata l’occupazione lasciata libera di muoversi senza intervento pubblico.
Il rapporto annuale dell’Istat 2018 mostra come negli ultimi dieci anni in Italia siano andati persi 895 mila posti di lavoro nell’industria, mentre il settore servizi ne ha guadagnati 810 mila, particolarmente per quanto riguarda i servizi alla famiglia (+346 mila), sanità e assistenza sociale (+230 mila), alberghi e ristorazione (+291 mila). Settori, quelli citati, dove si concentrano contratti di lavoro precari, molto brevi, dequalificati, a bassa retribuzione, che non possono offrire opportunità di lavoro tali da giustificare un trasferimento nemmeno entro i cento chilometri dalla residenza prevista nei primi sei mesi di reddito di cittadinanza. È evidente, allora, che solo con una visione politica che strizza l’occhio al libero mercato si può costringere un disoccupato povero a trasferirsi - ad esempio - da Potenza per andare a fare il cameriere a Milano. Inoltre, senza una seria politica per il Mezzogiorno, l’obbligo a trasferirsi accentua il divario con il Settentrione italiano, drenando forza lavoro a basso costo dal Sud e permettendo alle imprese del Nord di migliorare su queste basi il proprio saggio di profitto.
Inoltre, ci vuole un assai scarso senso della realtà per non capire che un beneficio ben al di sotto della soglia di povertà, che costringe ad accettare praticamente ogni offerta di lavoro, mantenendo così su un livello molto basso qualificazione e retribuzione delle persone, non può esserci alcun rilancio dei consumi e quindi della produzione e dell’occupazione. Risulta, allora, davvero difficile (per usare un eufemismo) che il reddito di cittadinanza possa affrancare dal ricatto occupazionale. Ciò vale a maggior ragione in considerazione del fatto che la soglia massima di 500 euro di reddito di cittadinanza (altre 280 euro sono eventualmente erogate in caso di abitazione in affitto) potrà addirittura diminuire.
La compatibilità con gli spazi finanziari
Il decreto impone il rispetto di limiti di spesa stabiliti in 6 miliardi nel 2019, crescenti fino a 7,6 miliardi di euro dal 2022. L’Inps è chiamato ad accantonare un ammontare di risorse pari alle mensilità spettanti nell’anno, per ciascuna annualità in cui il beneficio è erogato. E che succede in caso di esaurimento delle risorse e necessità di erogare nuovi contributi? In quel caso la “compatibilità finanziaria” verrà ristabilita “mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio”. Tradotto dai tecnicismi, significa che la compatibilità finanziaria (tanto cara alle élites economiche e politiche che il governo del cambiamento dice di combattere), è mantenuta abbassando l’importo del reddito di cittadinanza. Una “rimodulazione” che opererà “nei confronti delle erogazioni del beneficio successive all’esaurimento delle risorse non accantonate”.
D’altronde lo diceva già il ministro Tria che il reddito di cittadinanza dovesse farsi “compatibilmente con gli spazi finanziari”. Su questo c’erano, peraltro, pochi dubbi, dal momento gli “spazi finanziari” sono il vincolo imposto da chi sostiene le misure di austerità, la necessità di sacrifici di lavoratori e pensionati, la messa in discussione dei diritti sociali: insomma, dai centri di potere che gestiscono questa UE. E con quelli il governo si è accordato per scrivere la manovra economica. Insomma, la compatibilità con i vincoli finanziari significa mantenere gli impegni con i ceti privilegiati e non con chi in questi anni ha dovuto affrontare ed ancora sente il peso di disoccupazione, povertà, lavori dequalificati e sottopagati, attacchi al diritto alla pensione. Niente di nuovo, insomma, nonostante lo sbandierato cambiamento.
Uno spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto
Nel frattempo, si produce un ulteriore spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto. Il reddito di cittadinanza, infatti, sarà finanziato dalla fiscalità generale, gravando, quindi, in modo particolare sul reddito da lavoro. Si produce, quindi, in prima battuta, una redistribuzione dentro la stessa classe lavoratrice. Questa, però, sarà costretta anche a finanziare i profitti delle imprese.
Il decreto, infatti, prevede che “nel caso in cui un datore di lavoro assuma a tempo pieno e indeterminato il beneficiario di RdC, e il beneficiariononvienelicenziato, nei primi 24 mesi, senza giusta causa o giustificato motivo è riconosciuto, sotto forma di sgravio contributivo, un importo pari alla differenza tra 18 mensilità di RdC e quello già goduto dal beneficiario stesso. Tale importo è incrementato di una mensilità,incasodiassunzionedidonneedisoggettisvantaggiati”.
Una misura annunciata. Siri, sottosegretario alle Infrastrutture e consigliere economico di Matteo Salvini, aveva già lanciato la proposta: “Erogare il reddito di cittadinanza direttamente all’azienda che si occuperà di formare e riqualificare il disoccupato”. A questa proposta, naturalmente, Confindustria aveva subito risposto con entusiasmo: “Va nella direzione che auspica Confindustria”. Ovvio, perché permette alle aziende di buttarsi su un nuovo business: la formazione per un'occupabilità del lavoratore immediatamente spendibile. Insomma, più che qualificazione professionale (come solitamente si dice dalle parti del governo), miglioramento delle competenze, crescita delle conoscenze, si tratterebbe di formazione del personale aziendale i cui costi saranno scaricati sulla fiscalità generale, cioè in primo luogo sugli stessi lavoratori. Così che la riduzione del costo del lavoro per le imprese sarebbe anch'essa a carico dei lavoratori.
Oltre al trasferimento di denaro pubblico nelle casse delle imprese, con una logica di stimolo all’assunzione non meno distorta di quella che fu del governo Renzi, si evidenzia un concetto quantomeno stravagante di lavoro a tempo indeterminato (24 mesi). Come per il Jobs act, ci si può aspettare che le imprese assumano, incassino dallo Stato quanto previsto nel decreto e poi si disfino del lavoratore per ricominciare il giro. Uno stimolo alla precarietà nascosto dietro il velo retorico dell’incentivo per le imprese a creare occupazione stabile. Si dirà: ma un’impresa non avrà interesse a mandar via un lavoratore inserito nel ciclo produttivo e già formato. Ma questa l’abbiamo già sentita troppe volte (anche da Renzi, tra l’altro) senza vedere conferme reali per poterci credere. Al contrario, abbiamo continuato ad assistere all’aumento dei contratti precari, con una dinamica particolarmente sostenuta per i rapporti di lavoro di durata inferiore a 30 giorni.
I poveri non devono vivere, ma solo sopravvivere
Un governo del cambiamento avrebbe potuto sbloccare il turnover della pubblica amministrazione, ma non l’ha fatto ed anzi ha preferito tenerlo bloccato. Avrebbe potuto riflettere su un serio piano industriale, ma non esprime nemmeno l’intenzione. E per il Mezzogiorno, dove si concentrano disoccupazione e sacche di drammatica povertà, si è assistito solo alle promesse mancate su Ilva e Tap.
Il governo giallo-verde preferisce, invece, illudere chi campa di salario con un provvedimento che nemmeno nelle ipotesi più fantasiose può condizionare positivamente il mercato del lavoro e la struttura occupazionale. E che non fa nemmeno uscire dalla povertà, che appare scientemente mantenuta. D’altronde, proprio il ministro Di Maio ha spiegato che questa proposta di reddito di cittadinanza servirà ad “assicurare la sopravvivenza minima dell’individuo”, svelando la natura classista di questo provvedimento.
Quello che ammette Di Maio è che i poveri non devono uscire dalla povertà, devono solo desiderare ansiosamente di potersi liberare dalla condizione di bisogno. Nel frattempo che agognano una vita migliore, milioni di persone tenute al limite della soglia di povertà assoluta rappresentano una riserva di mano d’opera e cervelli sempre ed obbligatoriamente disponibile alle condizioni di lavoro imposte e da cui attingere a piene mani.
Il reddito di cittadinanza, soprattutto con le numerose condizioni poste nella versione pentaleghista, è la carota che serve per continuare a picchiare con il bastone dello sfruttamento. Perché in realtà questo governo non ha nessuna intenzione di intaccare le enormi disuguaglianze. Perciò per il governo grillo-leghista i poveri non devono vivere, devono, al massimo, sopravvivere per riprodurre gli stessi rapporti sociali di sfruttamento.