“Ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra?” cantava Giorgio Gaber più di vent’anni fa. Una domanda, questa, tremendamente attuale, vista la confusione che regna nei parlamenti di tutto il mondo e che ha dato vita a mostri bicefali di così complicata collocazione politica; una domanda che, più che sottintendere un confluire delle opposte ideologie in una sintesi dialettica superiore, in uno status pacificato in cui positivo e negativo si alimentano e annullano vicendevolmente, chiama a una riflessione profonda sul tema.
Davvero destra e sinistra non esistono più? Davvero si può affermare che buona parte dei governi occidentali non abbia compiuto una preoccupante deriva destrorsa ma, anzi, sia impegnata nella soddisfazione delle più immediate esigenze dei “popoli” attraverso una politica incolore che fa del “buon senso” la sua bussola? Inutile prendersi in giro: la svolta a destra è lampante ed è lampante proprio perché, malgrado l’insistente tentativo di proclamare la “fine delle ideologie”, esistono dei caratteri solidi, che vivono sulla soglia dell’immutabilità e che permettono di orientarsi in quella giungla caotica che chiamiamo “politica”. Se si può affermare, con un bassissimo coefficiente di difficoltà, che l’attuale governo italiano vira decisamente a destra, è grazie al sussistere di elementi che permettono l‘inserimento delle manifestazioni politiche particolari all’interno di una griglia universale che quelle stesse manifestazioni hanno contribuito a comporre nel corso dei secoli.
E se è possibile l’esercizio di questa ars classificatoria per quanto riguarda il panorama di destra, perché mai non dovrebbe esserlo per quello di sinistra? È qui che l’analisi si fa desolante. Sempre circoscrivendo il ragionamento alla situazione italiana, se dovessimo considerare i recenti governi capeggiati dal Partito Democratico come rappresentazioni di un’idea universale di sinistra, ecco che andremmo dritti incontro a un cortocircuito teorico: riforme quali il Jobs Act, l’abrogazione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, il decreto Minniti-Orlando, provvedimenti emblema dei governi Renzi e Gentiloni, possono definirsi di sinistra? Certamente no.
Cos’è, allora, la sinistra? Possiamo partire analizzando la questione per via negativa ovvero dicendo cosa la sinistra, prima di tutto, non è. Sinistra non è decreti securitari volti a mascherare le contraddizioni strutturali di un sistema che, nel tempo, ha probabilmente fatto più vittime di qualunque guerra. Sinistra non è interventi legislativi atti a rendere più flessibile la disponibilità dei lavoratori e delle lavoratrici alle esigenze di ciò che, una volta, non si aveva timore di chiamare Capitale ma che invece, oggi, si identifica genericamente con “imprese”. Sinistra non è sottostare ai capricci dei mercati e dei mercanti per evitare che un sistema che vede, quotidianamente, aumentare la sproporzione tra ricchi e poveri, collassi su se stesso. Sinistra non è mantenere una disparità di genere mascherandola da libertà di aderire alle stesse logiche di sfruttamento che regolano l‘intera società. Sinistra non è la creazione di un capro espiatorio al fine di mantenere un determinato stato di cose.
Stando a ciò, si può dire che di sinistra, negli ultimi decenni, se n’è vista ben poca. Ma che non ve ne sia stata una manifestazione forte, concreta, politica, istituzionale, non significa che abbia cessato di esistere l’idea radicale che ne sta alla base. Ecco che, quindi, possiamo provare a darne una definizione positiva, seppur difficilmente rintracciabile nella realtà materiale: sinistra è un incessante processo di apertura e ricerca di soluzioni in grado di garantire la soddisfazione dei bisogni del massimo numero di individui coinvolti. Proprio su questo “numero” si gioca la distinzione tra destra e sinistra: se la prima, tanto nella sua accezione liberale e liberista, quanto in quella sociale, circoscrive nettamente il bacino dei destinatari della ricchezza prodotta e, quindi, di una vita vivibile, escludendo tutte e tutti gli altri, la seconda punta alla totalità, una totalità variabile storicamente e sempre, almeno a livello teorico, in procinto di allargarsi.
La progressiva inclusione di frange di popolazione precedentemente escluse dalla vita politica e, perciò, da una sfera morale dei diritti, come nel caso delle donne, dei neri e dei gay (per quanto riguarda Rom e transessuali si è ancora in alto mare), è la testimonianza dell’esistenza di questo processo inarrestabile, intrinsecamente inclusivo, finalizzato a scardinare le maglie dello sfruttamento di sempre nuovi soggetti che si presentano al tavolo della Storia.
Da questo punto di vista, un nuovo gruppo di soggetti sta bussando con decisione alla porta principale: gli animali. Le connessioni tra lo sfruttamento perpetrato ai loro danni e l’attuale situazione politica, così come quella ecologica, sono innumerevoli; e di questo, i pensatori più attenti se ne cominciano ad accorgere. Peter Sloterdijk, ad esempio, tra i maggiori filosofi tedeschi contemporanei, ci dice, nel suo Cos’è successo nel XXI secolo?, che “solo in tempi recenti è emerso il rapporto tra il ‘potere pastorale’ umano e l’espansionismo politico. Dal punto di vista della macrostoria relativamente recente – che si estende per circa tremila anni – è evidente un nesso causale tra allevamento bovino e politica imperialistica: non pochi imperi storici – come quello dei Romani, dei Britanni, degli Asburgo e degli Americani – erano fondati in un’ultima analisi sull’allevamento di bestiame di grande taglia che assicurava agli allevatori un utile in termini di forza-lavoro, mobilità, proteine e cuoio, per non parlare della correlazione tra la sicurezza quotidiana di disporre delle calorie necessarie e l’espansionismo politico. Da tempi più recenti si sa che anche le mandrie di bovini esercitano un influsso rilevante sull’ambiente a causa delle loro funzioni metaboliche.”
L’animale, ancor prima di presentarsi come potenziale soggetto portatore di diritti basilari, è stato il fondamento su cui si sono erette le più grandi potenze della Storia, e ciò mette in risalto, tra le altre cose, le grandi similitudini con l’importazione di schiavi dall’Africa alla base del nascente capitalismo americano. Non è certo un caso che gli schiavi fossero trattati e considerati, al tempo, alla stregua di animali: l’animalizzazione di intere categorie di esseri umani, quindi il rigetto di uno status morale ottenibile soltanto con l‘appartenenza a una specie umana mai del tutto inclusiva ma circoscrivibile al maschio, bianco, eterosessuale e proprietario, è, ed è stato, il più grande dispositivo giustificazionista finalizzato alla prosecuzione indisturbata dello sfruttamento.
Anche l’esempio della condizione femminile è emblematico in tal senso: lo storico confinamento della donna all’ambito domestico, un ambito in cui la cura della prole non è mai stata considerata del tutto come lavoro produttivo e riproduttivo ma, piuttosto, come “naturale predisposizione emotiva e pulsionale”, suggerisce il presentarsi della classica polarizzazione tra razionale e irrazionale su cui è stato eretto l’Uomo, zòon lògon èchon, in antitesi all’Animale, l’irrazionale per eccellenza. La donna, preda di pulsioni ed emozioni e, perciò, scarsamente predisposta a una razionalità che fa dell’oggettività il suo punto cardine, sarebbe, da questa prospettiva, un po’ meno umana e, di conseguenza, più vicina all’Animale.
Angela Davis, storica femminista e militante del movimento afroamericano statunitense, è tra coloro che si sono accorti dell’inestricabile legame tra lo sfruttamento animale e quello umano, uno sfruttamento che arriva a produrre, annualmente, centinaia di milioni di tonnellate di carne in tutto il mondo, per una stima di circa 50 miliardi di animali uccisi al solo scopo alimentare (stime votate al ribasso in quanto circoscritte ai soli animali di terra). È la stessa Davis ad affermare, in una conversazione con Grace Lee Boggs, in relazione al suo essere vegan: “Penso che sia giunto il momento di parlarne in quanto parte della prospettiva rivoluzionaria: come possiamo riscoprire e sviluppare modalità più compassionevoli di relazione non solo con gli umani ma anche con le altre creature con cui condividiamo questo pianeta? Fare questo corrisponderebbe a sfidare l’intera impresa capitalistica di produzione alimentare”.
Ovviamente lo sfruttamento animale non si limita soltanto alla industria alimentare, per quanto questa ne costituisca la parte più rilevante; esso abbraccia anche i settori dell’abbigliamento e della ricerca medico-scientifica, per non parlare dell’industria dell’intrattenimento che vede gli animali impiegati in zoo, circhi e competizioni sportive. L’intera società capitalistica si fonda sullo sfruttamento animale e non a caso Max Horkheimer, filosofo della scuola di Francoforte, descriveva questa come un “edificio la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale”.
Ma perché mai la sinistra dovrebbe prendere in considerazione la questione animale e inserirla nella galassia storica delle lotte? Cosa c’entrano gli animali con la politica? Torniamo alla definizione di “sinistra” data precedentemente ovvero di “incessante processo di apertura e ricerca di soluzioni in grado di garantire la soddisfazione dei bisogni del massimo numero di individui coinvolti”. La soddisfazione dei bisogni materiali necessita di un determinato quantitativo di risorse da redistribuire; il grande avanzamento delle conoscenze scientifiche e delle possibilità tecnologiche, di cui la nostra epoca è portatrice, sottolinea l’assoluto superamento della necessità dello sfruttamento animale negli ambiti menzionati sopra.
Per quanto riguarda il settore alimentare, ad esempio, la American Dietetic Association, istituzione di punta dell’alimentazione a livello globale, ha già da tempo confermato la perfetta complementarietà tra l’organismo umano, considerato in ogni fase del suo ciclo di vita, e una dieta vegetale ben pianificata. Ciò che, quindi, fino a ieri rientrava nel panorama delle necessarie risorse alimentari (i prodotti animali), oggi ne esce cambiando forma: esso diviene surplus.
E questo surplus è assai caro sotto diversi punti di vista, in primis morale. Le informazioni raggiunte grazie al progresso in discipline quali la fisiologia e l’etologia cognitiva, portano alla luce strutture mentali e nervose che fanno dell’animale un essere di una complessità imprevista, una complessità che costringe a ridefinirne lo status morale; la possibilità di esperire sensazioni quali il dolore, la paura e la gioia, sensazioni associate al possesso di un sistema nervoso centrale comune a pressoché tutte le forme animali, dall’insetto all’essere umano, pone la questione della liceità dello sfruttamento animale, a maggior ragione in tempi in cui la sua necessità è uguale a zero.
Se, insomma, si considera universalmente sbagliata la violenza gratuita nei confronti di un altro essere umano che si sa capace di soffrire, perché non considerare ugualmente sbagliata quella ai danni di un essere non umano che è comunque in possesso delle stesse capacità di percepire sofferenza?
Un altro motivo per cui questo “surplus alimentare” ha un costo esorbitante è connesso al consumo e all’utilizzo di risorse per produrlo, dal suolo, all’acqua, fino ai cereali impiegati per i mangimi, per non parlare delle emissioni di gas serra, grande sfida nella lotta al cambiamento climatico. La scienza è oramai chiarissima in tal senso: quello della produzione di alimenti animali è un sistema insostenibile, in procinto addirittura di allargarsi a causa della crescente domanda dei mercati cosiddetti in via di sviluppo e dell’imminente crescita della popolazione mondiale che, attorno al 2050, si prevede possa toccare i 10 miliardi di individui.
L’impiego di terreni per far spazio alle coltivazioni dei mangimi, in particolare della soia, di cui solo il 6% è destinata al consumo umano mentre i tre quarti del totale sono destinati all’alimentazione animale (dati del WWF), è alla base della perdita di più di un quinto dell’intera foresta amazzonica negli ultimi 50 anni. Il consumo di acqua nella produzione di carne è anch’esso esorbitante, coinvolgendo l’acqua utilizzata per dissetare gli animali ma anche quella impiegata per coltivare i mangimi e nella lavorazione del “prodotto finito”; per quanto riguarda la carne bovina, ad esempio, si calcola che un kg di questa ne impieghi circa 15.000 litri. L’emissione di gas serra è un altro punto dolente: circa un quinto delle emissioni totali è prodotto dal settore zootecnico, cifre paragonabili a quelle dell’intera industria dei trasporti.
Un così massiccio utilizzo di risorse, però, non chiama in causa soltanto l’aspetto ecologico. L’impiego di terreni per il pascolo e i mangimi è spesso causa di espropriazione di terre in cui vivono intere popolazioni; lo sfruttamento di ingenti risorse per la produzione di un bene che, perlomeno nei paesi ricchi, non è più di prima necessità, affianca, al problema ecologico, quello politico, un problema politico che una sinistra matura non può più ignorare.
Le contingenze climatiche, il progresso tecnologico e la situazione sempre più critica dal punto di vista della distribuzione della ricchezza, chiamano a raccolta per formulare un diverso paradigma di convivenza, un paradigma non più limitato alla specie umana: gli animali, potenzialmente liberati dalla morsa di uno sfruttamento capillare che li ha visti soggiogati per secoli, entrano di diritto dal portone di una Storia di cui sono stati, loro malgrado, una delle precondizioni necessarie. La configurazione materiale della società capitalistica, sempre e comunque in evoluzione, ha però prodotto delle forme culturali volte a giustificarla, impegnate nella sua salvaguardia e riproduzione. È a queste resistenze, oltre che a interessi economici nell’ordine di decine di miliardi di dollari annui, che una nuova sinistra dovrà far fronte. Anche su questo terreno si gioca la distinzione con la destra; questa, costantemente impegnata nella conservazione anacronistica di uno status quo che è sempre privilegio di qualcuno su qualcun altro, rigetta con violenza qualsiasi spiraglio di evoluzione. La sinistra, invece, finalmente cosciente di una dinamicità intrinseca ai processi materiali e culturali, dovrà porsi di traverso, senza cadere nel tranello del colonialismo culturale, a ciò che si vuole continuare a far cadere sotto l’ombrello della tradizione e dell’identità a ogni costo. Sinistra e destra, in questo senso, delineano differenti moti dello spirito più che specifiche programmazioni politiche; queste ultime, d’altro canto, non possono esistere senza i primi.
Sinistra è quindi l’apertura incondizionata al movimento, un movimento caotico ma che reca in sé il suo specifico ordine, un movimento che aumenta con l’aumentare dei soggetti coinvolti, un movimento che è pluralità nella comunanza di una vita profondamente interrelata. Una sinistra ottusamente recalcitrante ad accogliere questo movimento assumerebbe le sembianze di quella “paleosinistra” di cui parla il filosofo Steven Best, una sinistra sinistramente reazionaria.