Attori non professionisti ogni anno, in occasione della Settimana Santa, sono impegnati nelle sacre rappresentazioni nelle strade dei paesi della Spagna e della Sicilia. Una tradizione che si perpetua da secoli oppure che è stata riproposta e recuperata attraverso indagini storiche e filologiche in tempi recenti. Questo breve saggio vuole dimostrare che i riti della Settimana Santa sono legati a doppio filo, intimamente connessi, al teatro “in senso stretto” e permeati da una fortissima componente performativa. L’intero testo in formato PDF può essere scaricato qui.
di Michelangelo Maria Zanghì
Se volessimo approcciare la storia del teatro in maniera evoluzionistica sarebbe impossibile negare che la Sacra Rappresentazione provenga da riti pagani che furono presi “in prestito” dalla Chiesa, che li riconvertì in rituali cristiani. Questo ci porta ad affrontare quello che Roberto Tessari definisce come «problema delle origini»[1]. Secondo lo studioso, infatti, anche il teatro – al pari delle altre discipline artistiche – non nasce con la finalità di dare una soddisfazione estetica al fruitore; il creatore, cioè, non ha come fine il raggiungimento della perfezione formale, che solitamente è il segno distintivo di ciò che comunemente chiamiamo “opera d’arte”:
ciò comporta – spiega Tessari – che rispetto a pittura, scultura, architettura, poesia ecc., il fenomeno-teatro tenda a manifestarsi pressoché sempre all’ombra d’una sua specifica aura di equivocità: in ogni caso sospeso tra la pretesa di essere giudicato somma arte della finzione spettacolare e la pur “prestigiosa” condanna a essere vissuto in quanto evento-rito necessario alla coesione culturale (e, quando ciò non capita, sacralmente religiosa) d’una comunità [2]
È chiaro che l’antropologia goda di un rapporto privilegiato col teatro, o meglio con la ricerca teatrale, non solo per la trattazione di argomenti ad essa affini – come il mito, il rito o il sacro – ma anche, come spiega Marco De Marinis [3], per un’effettiva corrispondenza metodologica. A tal proposito, risultano emblematiche le parole di Patrice Pavis:
L’antropologia trova nel teatro un terreno di sperimentazione eccezionale, poiché essa ha sotto gli occhi degli uomini che giocano a rappresentare altri uomini. Tale simulazione mira ad analizzare e a mostrare in che modo questi si comportino in società [...]. Il teatro e l’antropologia teatrale si danno i mezzi per ricostruire delle microsocietà e per valutare il legame dell’individuo con il gruppo […].[4]
La dimostrazione che si tratti di un rapporto privilegiato è data dal fatto che maestri della scena teatrale mondiale si siano grandemente interessati alla ricerca antropologica, come Eugenio Barba, Jerzy Grotowski, Richard Schechner, ma anche Gordon Craig e Tadeusz Kantor. La disputa “genealogica” è stata, nel corso del Novecento, molto accesa. Tra gli altri, proprio Craig e Kantor hanno – per esempio – proposto delle visioni contrastanti circa le genesi del teatro. Per Craig il teatro deve essere il catalizzatore di un’attorialità che non sia mero esibizionismo finalizzato al compiacimento dello spettatore, ma che si concretizzi in un «puro atto di culto gnostico verso l’ineffabile principio creatore» [5]. Ecco l’idea dell’inventore della Supermarionetta, nell’interpretazione che ne dà lo stesso Kantor:
Secondo Gordon Craig, da qualche parte sulle rive del Gange due donne fecero irruzione nel tempio della Divina Marionetta, che custodiva, vigilando il segreto del vero TEATRO. Le due donne erano gelose di quest’ESSERE perfetto, ne invidiavano il RUOLO, che era quello di illuminare lo spirito degli uomini con il sentimento sacro dell’esistenza di Dio; ne invidiavano la GLORIA. Si appropriarono dei suoi sentimenti e dei suoi gesti, delle sue vesti meravigliose e, attraverso una mediocre parodia, si misero a soddisfare i gusti volgari della plebe. Quando infine fecero costruire un tempio a immagine dell’altro, il teatro moderno – quello che conosciamo fin troppo bene e che dura ancora – era nato: la rumorosa Istituzione di utilità pubblica. Nello stesso tempo è apparso l’ATTORE. [6]
La teoria genealogica di Craig va inquadrata, dunque, in un’ottica di sacro servizio nei confronti della divinità. Kantor, invece, vede – a tal proposito – un uomo singolo che, separandosi dal rito religioso comunitario, diventa «attore» e tradisce narcisisticamente il resto della collettività e – con essa – abbandona anche i suoi riti e cerimonie:
Ecco che dal cerchio compatto dei costumi e dei riti religiosi, delle cerimonie e delle attività ludiche, è uscito QUALCUNO che aveva appena preso la decisione temeraria di staccarsi dalla comunità culturale […], abbiamo di fronte a noi l’ATTORE.[…] Sicuramente quest’atto sarà considerato un tradimento nei confronti delle antiche tradizioni e delle pratiche di culto. […] DI FRONTE a quelli che erano rimasti da una parte, si è alzato un UOMO PERFETTAMENTE simile a ciascuno di loro e tuttavia […] infinitamente LONTANO. [7]
Da questi due esempi, è possibile rendersi conto di come la ricerca antropologica legata al teatro abbia, o abbia avuto, come principale terreno di discussione l’origine del teatro stesso e – soprattutto – il suo rapporto col rito. Tale approccio filogenetico e genealogico, totalmente infruttuoso sul piano scientifico, sta pian piano lasciando il posto a un altro di tipo ontogenetico e strutturale in cui il punto focale è ancora dato dalla relazione vigente fra teatro e rituale, ma in cui quest’ultimo termine è considerato in un’accezione desacralizzata e – soprattutto – nel quale non ci si interroga più sull’eventuale paternità del rito rispetto al teatro, ma in cui si indagano in maniera scientifica le analogie strutturali tra fenomeni teatrali e rituali, tra rituali quotidiani e rappresentativi, tra comportamenti rituali e scenici. Non è questa la sede per approfondire il dibattito fra l’approccio filogenetico e quello ontogenetico, ma è certo che teatro e riti passionisti siano dipendenti l’uno dagli altri. È, infatti, impossibile riferirsi ai riti della Settimana Santa, spagnola o italiana che sia, senza prendere in considerazione gli aspetti teatrali – o meglio, performativi – che la caratterizzano. A tal proposito, José Alonso Ponga – ordinario di Tradizioni Popolari presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Valladolid e tra i maggiori esperti mondiali sui rituali della Semana Santa – ha le idee chiare:
Qualsiasi processione della Settimana Santa è un fenomeno teatrale; quando ci riferiamo, per esempio, alla processione della Domenica delle Palme, stiamo parlando di teatro e più precisamente di teatro di strada. A Valladolid, come a Zamora, si montano vere e proprie scenografie: si scelgono piazze cittadine molto belle e affascinanti, che abbiano un'ottima acustica, per realizzare – per esempio – “L'Incontro” fra la Madonna Addolorata e Cristo. Per creare il pathos, l'ambiente è fondamentale: si cercano location molto particolari: grandi piazze, oppure spazi con chiese romaniche o gotiche situate in quartieri storici; i palazzi, a volte, vengono coperti da grandi teloni neri: io credo che tutto questo sia già teatro.[8]
La teatralità legata alla Passione di Cristo è presente in tutta la Spagna. Non si tratta di un teatro professionistico né raffinato, ma di un teatro che potremmo definire “amatoriale”, del popolo: per esempio, come capita in alcune città, può trattarsi semplicemente di un uomo che cammina per le strade interpretando Gesù nell’atto di portare la Croce; in alcune zone dell'Andalusia abbiamo performance con maschere.
NOTE:
1 Roberto Tessari, Teatro e antropologia, Carocci, Roma, 2004, p. 15.
2 Ivi, p. 16.
3 Marco De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatralogia, Bulzoni, Roma, 2008, p. 159.
4 Patrice Pavis, “Anthropologiethéâtrale”, in Dictionnaireduthéâtre, Editionssociales, Paris, 1980. In Ibidem.
5 Roberto Tessari, Teatro e antropologia, Carocci, Roma, 2004, p. 17.
6 Tadeusz Kantor, Il teatro della morte, Ubulibri, Milano, 2000, p. 211.
7 Ivi, p. 217-218.
8 Conversazione avvenuta a Valladolid nell’aprile 2013.