Dal PCI al PDS. Capire le ragioni e i passaggi per ricostruire un Partito Comunista in Italia che sia adeguato ai tempi attuali e ai suoi compiti

Nel centenario della sua nascita, il modo migliore per celebrare il Pci e tutti i comunisti che hanno dedicato la loro vita alla sua causa, per una società libera dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è di ripercorrere la storia di quel partito per individuare gli elementi critici che hanno portato alla sua involuzione, e da ciò ripartire per la costruzione di un forte e radicato partito comunista all’altezza dei tempi.


Dal PCI al PDS. Capire le ragioni e i passaggi per ricostruire un Partito Comunista in Italia che sia adeguato ai tempi attuali e ai suoi compiti

Una breve premessa

Nel centenario dalla fondazione viene spontaneo celebrare la grande storia del Pci, che senz’altro lo merita, ma io vorrei fare alcune riflessioni, ovviamente sommarie, sul percorso che ha portato il più grande partito Comunista dell’occidente a diventare Partito Democratico della Sinistra (poi Ds e, infine Pd, lo stesso nome del partito Usa).

Tralascerò le vicende precedenti la Liberazione e la fine della guerra, delle quali il nodo fondamentale fu il passaggio della segreteria da Bordiga a Gramsci e, poi, a Togliatti, come momento cruciale che mise in condizione il Pci di diventare, da piccolo partito con inclinazioni settarie e una impostazione schematica, al partito largamente egemone e radicato nella classe operaia italiana, ma anche tra gli intellettuali, e con ciò all’unico soggetto capace di praticare l’opposizione al fascismo, in Italia, per tutto il ventennio e poi guidare la Resistenza e la Liberazione. Di tutto questo altri, sicuramente, parleranno. Io vorrei partire da dopo il 1945.

Il partito nuovo e la via italiana al socialismo

Il ritorno di Togliatti, come sappiamo, segna una svolta nella linea del Pci; le radici di questa svolta stanno nel quadro internazionale: il nazifascismo non è ancora stato sconfitto, ci vorrà ancora più di un anno di guerra feroce, su tutti i fronti, la priorità sopra ogni altra cosa è la liquidazione dei regimi responsabili delle peggiori atrocità che si siano mai viste nella storia dell’umanità, sappiamo anche dei tentativi di settori dei regimi fascista e nazista di trovare un accordo con gli anglo-americani. Non si è ancora tenuta la conferenza di Yalta, ma Togliatti, per il ruolo che ha nel movimento comunista internazionale, non può non sapere quali sono gli assetti che si stanno preparando.

Finita la guerra, una guerra mondiale atroce e tragica, durata 5 anni, nel quadro che si va delineando è evidente l’impossibilità per l’Urss, che ha pagato un prezzo altissimo per la vittoria, con oltre 25 milioni di morti e la devastazione del paese, di appoggiare insurrezioni in Occidente, pena il rischio del riaprirsi di una guerra con gli ex alleati.

La vicenda greca, di lì a poco, sarà una tragica conferma di questa situazione.

Ma anche la situazione specifica del nostro paese è, ovviamente, un fattore che indirizza le scelte politiche di Togliatti e del Pci; l’Italia è occupata dagli anglo-americani, nel Centro-Sud non si è avuto un movimento di massa insurrezionale come la Resistenza al Centro-Nord, il paese è spaccato in due, come si evidenzierà con il referendum per la Repubblica.

Il partito nuovo e la via italiana al socialismo sono, in quel momento e in quelle condizioni, la risposta più adeguata e l’unica prospettiva praticabile per il Pci per costruire un percorso che possa portare alla trasformazione del paese in senso socialista.

L’elaborazione di Togliatti fu sicuramente di grande spessore e inspirò la maggior parte dei partiti comunisti in Occidente; senz’altro in questa sua elaborazione ebbe un peso importante il pensiero di Gramsci che Togliatti ben conosceva.

Contrariamente a quanto alcuni affermarono poi, ben pochi, nel Pci, pensavano veramente che fosse possibile un’altra strada e, senza dubbio, nessuno nel suo gruppo dirigente.

Le contraddizioni di una linea giusta

Sul modo in cui fu praticata tale linea politica si possono, però, sviluppare alcuni elementi di riflessione e di critica, ma prima vorrei fare una premessa.

Nel movimento comunista si è presentata più volte una tendenza a idolatrare in modo quasi religioso i grandi pensatori e leader comunisti, ma questo non ha nulla a che fare con il pensiero marxista e leninista. Vorrei, in proposito, citare uno scritto di Lenin.

Subito dopo la rivoluzione, parlando della costruzione del socialismo in Unione Sovietica, scrisse “noi sbaglieremo”, non scrisse “è possibile che si sbagli” o “è probabile che si sbagli”, ma nonostante la grandezza del suo pensiero e quella del gruppo dirigente sovietico, che si era dimostrata nei fatti, con la vittoria della rivoluzione, affermò con certezza che si sarebbero fatti errori; poi, ovviamente entrò nel merito di come capire e correggere gli errori, ma non è questo che mi interessa in questo momento.

L’affermazione prima citata, anziché sminuire la sua figura mette in assoluto risalto la grandezza del pensiero di Lenin e la sua profonda comprensione del materialismo dialettico e del marxismo.

Per questo motivo ragionare sul pensiero e sull’azione dei grandi dirigenti comunisti non significa far loro un torto ma, al contrario, cercare di applicare nella realtà di oggi e sulla base dell’esperienza fatta esattamente quegli strumenti e quelle categorie di pensiero che essi hanno elaborato o contribuito a sviluppare.

Togliatti che, senza dubbio, fu un grande dirigente comunista, italiano e internazionale, secondo me fece alcuni sbagli nella gestione di una linea politica che, pure, era quella giusta. Questi errori furono la sostituzione di molti dei dirigenti che avevano guidato il partito nella lotta clandestina durante il ventennio e la Resistenza e che assunsero ruoli dirigenti, ai vari livelli, subito dopo la Liberazione, e, anche in conseguenza di ciò, una inclinazione sempre più marcata del Pci, nel corso degli anni, verso il predominio dell’elettoralismo rispetto alla organizzazione e mobilitazione sociale.

Emblematica in questo senso fu la vicenda di Pietro Secchia. Dopo la sua emarginazione, circolarono caricature della sua posizione politica e delle sue idee; la lettura dei suoi scritti e anche del suo archivio, pubblicato da Feltrinelli, smontano completamente tali insinuazioni. Non era, certamente, un sostenitore dell’insurrezione per passare dalla Liberazione alla rivoluzione socialista, neppure era incline a mantenere aperta negli anni successivi una ipotesi insurrezionale. Semmai la sua critica fu che troppo poco, nella fase iniziale di governo, fino alla cacciata del Pci e del Psi, e anche dopo, si sia fatto ricorso alla mobilitazione delle masse per dare forza all’azione delle sinistre nel governo e ostacolarne la cacciata; un’altra sua critica fu sul fatto che il Pci, vista l’esperienza dell’avvento del fascismo, non doveva essere impreparato di fronte al pericolo di una sovversione reazionaria.

Il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia e, successivamente, il colpo di Stato in Cile, per non parlare dei vari tentativi di colpi di Stato che si sono succeduti in Italia che, in alcuni casi, sono arrivati vicinissimi alla realizzazione, dimostrano che i timori di Secchia non erano assolutamente infondati.

Ma l’errore di Togliatti non fu solo l’emarginazione di tale componente del partito, fu, nel contempo, la valorizzazione eccessiva di una tendenza che, poi, nel suo sviluppo condurrà a una trasformazione profonda del partito.

La consegna della gestione del partito ad Amendola, portò alla progressiva valorizzazione di una componente politica che in seguito verrà definita “migliorista” e avrà il suo esponente di punta in Napolitano.

Dopo la morte di Togliatti un altro passaggio importante fu quello dei movimenti giovanili e studenteschi del ’68. In quel momento la scuola e l’università di massa, assieme a importanti fattori nel quadro internazionale, spostarono dei settori sociali che fino ad allora non si erano mai schierati con il Pci e con la classe operaia verso di essi.

La responsabilità della rottura che si verificò non sta, certo, da una parte sola, ma essendo il Pci un partito con una lunga e solida esperienza e strumentazione politica e non un movimento di massa, avrebbe dovuto rapportarsi in modo da sviluppare una propria egemonia politica che rafforzasse i contenuti di classe di quel movimento e non arrivare a una contrapposizione frontale con esso.

Longo, allora segretario del partito, provò ad avere un approccio con settori del movimento giovanile e studentesco, ma la maggior parte del gruppo dirigente e degli apparati del partito non volle seguire quella strada. Il risultato, come poi si è visto, fu deleterio per entrambi.

I cambiamenti nelle tesi dei congressi

L’evoluzione, o meglio l’involuzione, del Pci ha avuto la forma, nella prima fase, di piccole e poco appariscenti modifiche nella linea politica e ideologica con una progressiva e sempre più marcata profondità nel corso degli anni.

Un bel libro curato dal grande dirigente comunista Alessandro Vaia confronta le posizioni espresse nel corso dei vari congressi del Pci dal 1945 al 1979, focalizzandosi su una serie di argomenti fondamentali. 

Ne cito solo due che sono particolarmente significativi.

Il primo riguarda la Nato. Berlinguer nelle sue conclusioni, al congresso del 1969, diceva: “Le proposte che il compagno Longo ha avanzato nel suo rapporto: la non appartenenza a nessun blocco militare, quindi l’uscita della Nato dall’Italia e dell’Italia dalla Nato … la linea che esse postulano, corrispondono agli interessi nazionali, che sono interessi di sicurezza e di pace, e sono ispirate a una nuova visione della funzione dell’Italia in Europa e nel mondo”.

Ma già nel congresso del 1979, con Berlinguer ancora segretario, nella tesi sulla Nato si scrive: “I comunisti si sono pronunciati … per il superamento della divisione dell’Europa in blocchi militari contrapposti … Questo processo, in un mondo e in una Europa in cui la pace riposa, ancora oggi, sull’equilibrio di potenza, può avvenire a condizione che si evitino rotture unilaterali degli attuali equilibri … Da ciò deriva la necessaria permanenza dell’Italia nella alleanza atlantica, che deve operare a fini esclusivamente difensivi … L’Italia, all’interno della Nato, … non deve rinunciare alla lotta contro posizioni oltranziste e aggressive (corsivi miei).

Sappiamo bene che in quel periodo Berlinguer arrivò addirittura a teorizzare “l’ombrello protettivo della Nato”. E siamo solo al ’79, non ho a disposizione, in questo momento, le tesi dei congressi successivi fino alla Bolognina, ma sappiamo che il passo successivo è stata l’adesione convinta alla Nato e, poi, la partecipazione con il governo D’Alema alla guerra contro la Jugoslavia.

Il secondo aspetto che vorrei evidenziare riguarda il tema dello Stato e della democrazia.

Nelle tesi del congresso del 1962 si scriveva sul tema della neutralità dello Stato: “… si pone la questione del giudizio che la maggioranza del Psi appare propensa a dare sulla natura dello Stato che si tende sempre più a considerare, dato il suo carattere formalmente democratico, se non come espressione autentica della volontà popolare, almeno come uno Stato “neutrale” … Ciò significa in pratica rinunciare ad affermare, all’interno dello Stato, l’autonomia del movimento operaio … significa, dunque, oggettivamente accettare di collocarsi in una posizione subalterna nei confronti della classi dominanti (corsivi miei). 

Nel 1975 nella sua relazione Berlinguer afferma: “… sono alla base del principio stesso, che noi affermiamo della laicità dello Stato, anche dello Stato socialista …, e cioè di uno Stato che non può e non deve identificarsi con un partito o una particolare concezione politica e ideologica, né privilegiare una fede religiosa …, ma deve assicurare le condizioni fondamentali per un libero sviluppo, materiale, intellettuale e morale di ogni personalità e delle diverse formazioni sociali in cui si esprime”  (corsivi miei; N.B. Si parla di formazioni sociali e non di classi sociali).

Nel congresso del 1979 nella tesi 12 in cui si parla del ruolo dei partiti si afferma: “I partiti sono legati a determinati interessi di classe, ma non ne sono una pura meccanica espressione …”  (e più avanti) “Deriva da ciò la possibilità dell’esistenza e della funzione di più partiti – e della loro alternanza nella funzione di governo – anche … nell’opera di edificazione di una società nuova” (e infine) “Una tale visione pluralistica non è un espediente tattico né un’improvvisa scoperta di oggi, ma il risultato di una lunga maturazione politica”.

Come si vede, la critica che il Pci faceva nel congresso del ’62 ai socialisti si potrebbe riproporre pari pari a queste tesi dei congressi del ’75 e del ’79. E ancora una volta qui siamo solo al ’79, nei 10 anni successivi il Pci andrà ancora oltre, nella sua involuzione, su questi e altri temi fondamentali per i comunisti.

Ancora una cosa vorrei dire riguardo a Berlinguer: pur avendo formulato diverse critiche alla sua gestione della segreteria del partito e a diverse posizioni politiche da lui espresse, bisogna anche dargli atto che fu l’unico segretario che fu capace di una autocritica e dell’ammissione di un errore nella sua linea politica, mi riferisco al compromesso storico, di cui ammise il fallimento e che sostituì con la riproposizione dell’Alternativa.

Forse anche a causa della sua morte, avvenuta poco dopo, non riuscì ad andare a fondo dell’analisi dei motivi per cui il compromesso storico fallì, andare a fondo avrebbe voluto dire fare i conti con la natura di classe della Democrazia Cristiana, con la non neutralità dello Stato, visto il ruolo che ebbero i servizi segreti e altri apparati dello Stato nelle stragi e nel terrorismo, e anche con il ruolo della Nato e degli Usa visto il ruolo che anche essi ebbero sia nello stragismo che nei tentativi di golpe. Cioè rimettere in discussione, tra gli altri, anche quei passaggi politici che abbiamo evidenziato in precedenza dei congressi del ’75 e del ’79.

Non solo cambiamenti politici e ideologici ma anche nel corpo del partito

Non furono solo le scelte dei dirigenti e i cambiamenti nella linea politica, e nella stessa ideologia, a pesare e a determinare l’involuzione del Pci; anche dei cambiamenti materiali spinsero in quella direzione. Dal dopoguerra fino agli anni ’80, il Pci registrò una crescita sempre più forte nel governo degli enti locali, regioni, province, comuni; questa schiera di amministratori locali, di dirigenti di aziende municipalizzate ecc. diventò sempre di più una “componente” del partito. Già negli anni ’70 si cominciò a parlare, nei media, ma non solo, del cosiddetto “partito degli amministratori” all’interno del Pci.

Anche nel vasto e sempre più potente, economicamente e politicamente, mondo delle cooperative, avanzava un processo analogo: questi settori spingevano per un riavvicinamento ai socialisti e per uno spostamento del partito verso le socialdemocrazie europee.

Nei congressi, nei gruppi dirigenti e negli apparati del partito queste componenti acquisirono sempre più spazio e peso; si ridusse, invece, lo spazio e il peso degli operai e dei lavoratori che erano stati, dalla sua nascita, la caratteristica saliente del Pci.

Certo, il radicamento sociale e l’egemonia politica che il Pci era riuscito a costruire sul complesso della società italiana, comprensibilmente, e giustamente, non potevano che modificarne la composizione, non solo del partito, ma anche dei gruppi dirigenti ai vari livelli, ma cosa diversa fu l’occupazione sempre più ampia di questi spazi da parte delle “componenti” cui facevo riferimento prima.

Anche il sindacato, e mi riferisco qui alla Cgil, ebbe parte in questo processo; tutti ci ricordiamo l’immagine di solitudine di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat, e anche nel passaggio del referendum sulla scala mobile, nel quale il segretario generale della Cgil Lama e buona parte degli apparati sindacali, di componente Pci, non nascosero la loro contrarietà alla posizione del partito, e non fornirono alcun sostegno.

Fu quella sconfitta l’inizio di quell’attacco alle condizioni di lavoro e di demolizione di tutti i diritti conquistati a costo di dure lotte e di sangue versato dai lavoratori, che si è protratto fino ai giorni nostri, senza soluzione di continuità. In quella battaglia referendaria cruciale un ruolo, un sostegno e un protagonismo diversi da parte della Cgil avrebbero potuto essere determinanti.

Non solo una dinamica interna ma anche un’azione esterna per cambiare il Pci

Tornando e concludendo sul Pci, come già dicevamo, la sua involuzione, prima, e la sua trasformazione, poi, in partito non più comunista sono state il risultato di un processo molto lungo, complesso e articolato, in cui hanno giocato più fattori, un processo che è iniziato con piccoli cambiamenti, piccoli passi, quasi inavvertibili in quel momento, dentro un complesso politico, ideologico e organizzativo che manteneva i connotati e le caratteristiche della identità comunista, ma che, come una crepa in una diga, tendevano ad allargarsi sempre di più.

Ci furono anche importanti azioni esterne. Sul piano politico, settori di partiti borghesi, come la Dc, mentre altre parti più reazionarie dello stesso partito ammiccavano verso i tentativi di golpe e verso svolte autoritarie, puntarono a omologare il Pci, come già era stato per il Psi con il centrosinistra, cercando di inglobarlo nella gestione del sistema capitalistico.

Non c’era in quei settori, come alcuni in buona fede nel Pci si illusero, l’idea di aprire, assieme al Pci, un processo di cambiamento della società italiana, ma esattamente quanto dicevamo prima, cioè neutralizzare la carica rivoluzionaria e di trasformazione sociale del Partito Comunista e ricondurlo nell’alveo della socialdemocrazia europea

Non era però, allora, né gradita né accettata dagli Usa e dalla Nato tale evoluzione del quadro politico italiano, che implicava il necessario ingresso del Pci nel governo, e abbiamo ben visto come fu totalmente stroncata.

Anche settori della grande borghesia svolsero un’azione culturale e ideologica in tale direzione, in particolare mi riferisco al progetto del giornale “La Repubblica” che doveva agire sul piano mediatico e culturale per favorire e sostenere l’involuzione del Pci.

Il crollo dell’Urss fu la ciliegina sulla torta, l’occasione più propizia, per un gruppo dirigente e un partito ormai largamente non più comunista, per esplicitare un processo che era già arrivato a compimento; se anche l’Unione Sovietica non fosse crollata, si sarebbe, comunque, arrivati a quel punto. Significativa di tutto ciò fu, in seguito, l’affermazione di un noto dirigente, Veltroni, quando disse: “non sono mai stato comunista”.

Per concludere

Per chi, come noi, ritiene che sarebbe tuttora necessario avere in Italia un forte e radicato Partito Comunista si apre, a questo punto, la riflessione su come imparare da questa tragica esperienza, su come si debba costruire e su come dovrebbe essere questo nuovo Partito Comunista per evitare che sia, nel corso del tempo e della sua crescita, pian piano risucchiato nella logica della società capitalistica in cui viviamo e omologato in essa.

Anche qui le riflessioni da fare sono molte e su piani diversi, per cui le lasciamo a un altro momento, ma il primo passo, assolutamente indispensabile, è capire come e perché quel processo è avvenuto, con quali passaggi, in quali tempi e in quali modi, evitando delle formulette astratte ed eccessivamente semplificative, come pure l’idealizzazione di un qualcosa di assolutamente perfetto che improvvisamente si è trasformato nel suo contrario, magari solo per opera di un qualche traditore (che pure c’è stato).

Capisco che questo articolo possa apparire, in occasione del centenario della fondazione del Pci, magari un po’ inopportuno, e si possa ritenere che, in questo momento, sia più utile valorizzare i grandi meriti e le grandi conquiste che in 70 anni quel partito riuscì a conseguire, anche a fronte del revisionismo storico reazionario che si è sempre più affermato in questi ultimi decenni nel nostro paese, ma penso, da un lato che questo sicuramente sarà fatto, e dall’altro che il modo migliore per celebrare il Pci e tutti i comunisti che hanno dato o che hanno dedicato la loro vita alla causa del comunismo e di una società senza guerre e senza sfruttamento sia quello di capire come e perché siamo arrivati a questo punto, in Italia, e da lì ripartire per ricostruire un forte e radicato Partito Comunista nel nostro paese, che sia in grado di migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e di tutti i lavoratori e di riaprire in Italia la concreta possibilità di un cambiamento sociale nella direzione del socialismo.

15/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Vladimiro Merlin

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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