Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad un seminario “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017. Si desidera ringraziare il prof. Laise per i commenti alla prima stesura del presente articolo.
Negli ultimi decenni il dibattito sui temi economici è stato sistematicamente inquinato dall’utilizzo di vari miti e credenze pseudo-scientifiche spacciati per dati acquisibili attraverso la scienza economica. I principali argomenti sfruttati in maniera strumentale per sviare l’opinione pubblica sono la “Fine del Lavoro” umano, per cui viene indicato come responsabile l’incessante sviluppo tecnologico, e la “Decrescita Felice”, secondo cui sarebbe possibile realizzare un sistema capitalistico migliore, ovvero in grado di permettere una maggiore tutela dell’ambiente.
La critica di questi miti, portata avanti dal nostro giornale sulla base dell’analisi economica di Marx, permette di spiegare l’importanza dell’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, come principale rivendicazione di un “Programma Minimo Comunista” in una fase non rivoluzionaria. In questa fase tale misura è l’unica in grado di fornire una risposta praticabile alle contraddizioni intrinseche al sistema capitalista, dato che i padroni, di fronte all’aumento della composizione organica del capitale, che a sua volta determina la caduta tendenziale del saggio di profitto, fanno di tutto per allungare la giornata lavorativa, spremendo al massimo i lavoratori occupati. Processo, questo, accompagnato dall’aumento della disoccupazione, imputabile all’utilizzo capitalistico della tecnologia robotica.
Naturalmente, in una fase di profonda crisi della soggettività comunista, che in Italia è al suo apice, sui mezzi dell’informazione mainstream tale proposta risulta pressappoco assente. Le forze politiche sedicenti progressiste, di converso, di fronte all’approfondimento della crisi, dovuto all’implementazione senza freni di politiche economiche irrazionali, non riescono a proporre altro rimedio che il “Reddito Minimo Universale”, o “Reddito di inclusione”, nella sua versione più recente, passata al vaglio del governo Gentiloni.
L’idea sottesa al “Reddito Minimo” è il prodotto di un errato presupposto ideologico, quello secondo cui è possibile modificare la distribuzione del reddito lasciando allo stesso tempo inalterato il modo di produzione. Dall’altro lato esso risponde a una strategia di redistribuzione in riposta alla cosiddetta “disoccupazione tecnologica”. Gli economisti borghesi, che ritengono tale disoccupazione un fatto naturale dovuto al “progresso tecnico esogeno”, hanno spesso proposto di redistribuire il reddito (si veda, ad esempio, W.W.Leontief [1]) Le strategie redistributive sono essenzialmente di due tipi: una redistribuzione del reddito tra le diverse classi sociali, oppure una redistribuzione di reddito tra gli individui di una stessa classe.
La prima forma è stata sempre sostenuta dai socialdemocratici riformisti, i quali, di fronte alla constatazione che la classe dei lavoratori salariati non riceve mai il “giusto salario”, affermano che bisogna modificare la distribuzione tra salari e profitti, senza però alterare il modo di produzione. Posto in questi termini, l’obiettivo della strategia redistributiva dall’alto verso il basso paventata dai riformisti non è altro che un’utopia. Infatti, se si lascia invariato il sistema produttivo, il salario tende al costo di riproduzione della forza lavoro. Se invece il salario fosse significativamente oltre il costo della riproduzione della forza lavoro il capitalismo vedrebbe minate le sue condizioni d’esistenza. Il padrone già paga al lavoratore un “salario equo”, nella misura in cui tale “equità” è quella definita dai rapporti di produzione a lui favorevoli.
Lo stesso Marx, criticando il programma di Gotha, che rivendicava la “giusta ripartizione del frutto del lavoro”, affermava: “Che cosa è «giusta ripartizione»? Non affermano i borghesi che l'odierna ripartizione è «giusta»? E non è essa in realtà l'unica ripartizione «giusta» sulla base dell'odierno modo di produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno forse i membri delle sètte socialiste le più diverse concezioni della «giusta» ripartizione?” [2]. Piuttosto che parlare di ingiustizia retributiva è più corretto parlare di iniquità nell’utilizzo della forza-lavoro, sfruttata a esclusivo profitto di colui che detiene il capitale, mentre il salariato è costretto a vendere giornalmente la sua forza-lavoro. Il superamento di tale iniquità presuppone necessariamente il superamento del modo di produzione capitalistico.
Nell’Anti-Dühring, Engels sintetizzava tali posizioni, condivise dal filosofo tedesco Dühring e da ampi settori della SPD, nella formula: “il modo di produzione capitalistico va bene e può continuare a esistere, mentre il modo di distribuzione capitalistico è del maligno e deve sparire” [3]. Engels ribatté in questo modo: “aspettare dal modo di produzione capitalistico un'altra distribuzione dei prodotti, significa pretendere che gli elettrodi di una batteria, stando in collegamento con la batteria, non debbano scomporre l'acqua e sviluppare ossigeno al polo positivo e idrogeno al polo negativo” [4]. Non si può rimuovere una conseguenza necessaria (la ineguale distribuzione di ricchezza) senza rimuoverne le cause! D’altronde, giova ripeterlo, il salario sociale reale è dato, nel sistema capitalista, dall’insieme di merci necessarie in un dato momento storico alla riproduzione dei lavoratori salariati e delle loro famiglie.
Fino a questo momento abbiamo svelato la natura utopica delle proposte di redistribuzione dall’alto verso il basso, ossia dalla quota profitti alla quota salari, tenendo ferme le condizioni della produzione. Veniamo ora alle concrete proposte dell’attuale governo, che ovviamente si inquadrano in una strategia redistributiva sostanzialmente conservatrice, ossia orizzontale, tra le varie categorie salariali dei lavoratori. In ultima analisi, il significato che assume realmente la redistribuzione del reddito nella forma del “Reddito Minimo Garantito” all’interno del salario sociale può essere illustrato facendo riferimento alla proposta dell’imposta negativa sul reddito (NIT: Negative Income Tax), avanzata da Milton Friedman, proprio lui l’ispiratore della Reagan Economics. Tale meccanismo è semplice: un lavoratore che ha un reddito inferiore al “Minimo Garantito”, riceve un sussidio, il quale è finanziato con le tasse pagate dai lavoratori che hanno un reddito superiore al “Minimo Garantito”. Quindi, il sussidio è positivo solo quando vi è uno scarto negativo tra Reddito Percepito e la soglia di Reddito Minimo Garantito. Per gli altri lavoratori il cui Reddito Percepito è pari o superiore alla stessa soglia, il sussidio è nullo o negativo. In buona sostanza la NIT provoca una redistribuzione del reddito all’interno del salario sociale, il quale resta invariato. Ecco svelata la vera natura di trucco contabile del “Reddito Minimo Garantito”, che non può assolutamente far parte di un “Programma Minimo” che si prefigga di avanzare rivendicazioni nell’interesse dell’intera classe dei lavoratori salariati, ivi incluso l’esercito industriale di riserva costituito dalla massa dei disoccupati.
Note:
[1]W.W. Leontief, "La distribuzione del lavoro e del reddito", in Le Scienze, n. 171, novembre, 1982, pp. 148-160.
[2]K. Marx, Critica al programma di Gotha, Cap. I, par. 3.
[3]F. Engels, Anti-Dühring, Sezione terza, Cap. IV.
[4]F. Engels, op. cit., Sezione terza, Cap. II.