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Marcuse
La polemica contro la società classista e repressiva e la difesa delle istanze libidiche di felicità dell’individuo costituiscono i principali temi della riflessione di un altro dei principali esponenti della Scuola di Francoforte: Herbert Marcuse (1898-1979), la cui riflessione filosofica rappresenta un tentativo di sintesi originale fra marxismo e psicoanalisi freudiana.
Eros e civiltà
Alla base di una delle sue opere di maggior successo, Eros e civiltà (1955) si trova la convinzione, mutuata da Sigmund Freud, che la civiltà in generale ha potuto svilupparsi grazie alla repressione degli istinti e in particolare della ricerca libidica del piacere. D’altra parte, a differenza di Freud, al quale la repressione appare un costo inevitabile della civiltà – in quanto lo psicoanalista tende a naturalizzare la società borghese e, più in generale classista – per Marcuse non è la civiltà in quanto tale a essere repressiva, ma quel tipo particolare di civiltà che è la società classista. Per Marcuse, Freud non è stato in grado di cogliere la necessaria distinzione fra rimozione di base – ovvero quel certo controllo degli istinti richiesto dalla vita sociale in generale – e un surplus oppressivo e repressivo di rimozione richiesto dalla particolare forma storica di civiltà classista che si è affermata con il capitalismo nel mondo occidentale. Questa peculiare società è caratterizzata dall’essere completamente asservita al principio di prestazione, ossia alla direttiva sociale di impiegare tutte le energie psicofisiche dell’individuo per scopi lavorativi e produttivi, in funzione del profitto individuale. Ciò ha portato questa società a reprimere tutte le richieste naturali dell’individuo di felicità e piacere, portando alla “diserotizzazione” del corpo umano e alla “tirannide genitale”, ovvero alla riduzione dell’atto sessuale al mero aspetto genitale e procreativo.
Tuttavia, fortunatamente, la memoria degli impulsi primordiali si sarebbe conservata nell’inconscio collettivo e il “ritorno del represso” si ripresenta, in modo esemplare, nell’arte, che da sempre, secondo Marcuse, esprimerebbe il desiderio umano di libertà. Tale desiderio sarebbe così primordiale da svolgere una funzione importante già nella mitologia dell’antica Grecia, in figure come Orfeo e Narciso che sarebbero, a parere di Marcuse, da interpretare quali simboli della ribellione simbolica contro la logica del lavoro e della fatica. Diversamente dall’arte, la filosofia avrebbe, secondo Marcuse – da questo punto di vista influenzato dal romanticismo –, conservato la connessione fra ragione e repressione, per cui tutto ciò che appartiene ai sensi andrebbe frenato. Perché il corpo umano torni a essere organo di piacere e non di fatica, occorrerebbe una risessualizzazione della persona umana e ciò, per Marcuse, è possibile proprio in quanto lo stesso principio di prestazione ha creato le precondizioni storiche per la sua stessa abolizione, questo grazie allo sviluppo tecnologico che ha posto le premesse per una diminuzione della quantità di energia da dedicare al lavoro, a tutto a vantaggio dell’eros e della felicità dell’individuo. Per altro Marcuse, portando questa tendenza dello sviluppo tecnologico e della meccanizzazione alle estreme conseguenze, finisce per cadere nell’ideologia apologetica del capitalismo, per cui le macchine, proprietà del capitale, sarebbero le sole forze produttive, esautorando del tutto il concorso dei lavoratori. Il che comporta, necessariamente, considerare il marxismo ormai del tutto obsoleto, non avendo più senso la legge del valore, il pluslavoro che produce plusvalore e, quindi, la denuncia dello sfruttamento. Inoltre, in tal modo, il proletariato perderebbe completamente la sua potenzialità di classe in sé rivoluzionaria. Evidentemente queste concezioni, inconsapevolmente apologetiche delle società a capitalismo avanzato, sono responsabili di alcune posizioni oggettivamente irrazionali presenti nell’ideologia, nel complesso decisamente progressista, del Sessantotto.
L’uomo a una dimensione
Nello scritto L’uomo a una dimensione pubblicato nel 1964, Marcuse riprende i motivi di critica della società tecnologica avanzata, tematica che tende a riavvicinare la Scuola di Francoforte alle posizioni reazionarie heideggeriane, di cui per altro il giovane Marcuse era stato un grande estimatore. L’uomo a una dimensione è l’individuo alienato della società contemporanea, colui per il quale la ragione si sarebbe identificata con la realtà, sicché per lui non ci sarebbero altri possibili modi di esistere. Anche qui, detto per inciso, ritorna la critica di matrice sostanzialmente liberale e poco pregnante già presente in Adorno rispetto a un aspetto centrale della filosofia hegeliana. Nella critica che rischia di divenire reazionaria di Marcuse al sistema tecnologico in quanto tale e non al suo uso capitalistico, si arriva a sostenere che esso avrebbe la capacità di fare apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l’individuo con un frenetico universo consumistico. Ancora una cattiva generalizzazione che tende a naturalizzare la condizione esistenziale del così detto ceto medio statunitense. Le forme pluralistiche e democratiche sarebbero perciò illusorie, poiché le decisioni importanti sono sempre prese nelle mani di pochi, di una oligarchia, al punto che Marcuse conia il concetto di “tolleranza repressiva”. Il permissivismo delle società a capitalismo avanzato funzionerebbe solo per tutto ciò che non mette in discussione il sistema stesso. Anche la liberazione sessuale, nelle società occidentali, sarebbe un inganno, al punto che Marcuse la smaschera definendola desublimazione repressiva. Con tale termine Marcuse vuole denunciare che nelle società del tardo capitalismo in apparenza non ci sarebbero più tabù, mentre in realtà si avrebbe essenzialmente una semplice liberalizzazione “amministrata” e commercialmente redditizia della sessualità. Per altro tale liberalizzazione esclude di fatto ai gruppi sociali più esclusi, dai lavoratori immigrati a componenti del sottoproletariato, l’appagamento degli stessi bisogni primari e stordirebbe il resto della popolazione – tendenzialmente omologata nel mitico ceto medio – con l’esaudimento di bisogni fittizi.
Tale concezione porta Marcuse di nuovo alla conclusione – oggettivamente controrivoluzionaria – che l’analisi di Marx sarebbe anche da questo decisivo punto di vista ormai obsoleta. In quanto i soggetti rivoluzionari non sarebbero più quelli individuati dai classici del marxismo, ormai “integrati” secondo Marcuse nel sistema, ma essenzialmente gli esclusi, gli emarginati dalle società opulente. In tal modo si abbandona al revisionismo la classe operaia in sé rivoluzionaria, per puntare sul sottoproletariato, che come dimostrano l’analisi dei classici del marxismo e la storia stessa, sono invece i più facilmente strumentalizzati dalla reazione. Al contrario per Marcuse sarebbe proprio questa schiera degli esclusi a incarnare il Grande Rifiuto, ossia l’opposizione totale al sistema, base per la traduzione dell’utopia in realtà. I possibili soggetti rivoluzionari sarebbero, dunque, i gruppi del dissenso dei paesi avanzati – essenzialmente sottoproletari e studenti – i dannati del terzo mondo e il proletariato occidentale ancora politicamente attivo, ossia quello italiano e francese. Marcuse rimane al contempo, a ragione, scettico riguardo azioni isolate e spontaneiste.
Benjamin
Critico letterario, saggista e filosofo, Walter Benjamin (1892-1940) lavora a stretto contatto con la Scuola di Francoforte. Di origini ebraiche, subisce il fascino del misticismo ebraico tramite l’amicizia con Gerschom Scholem. In seguito si avvicina sempre più al comunismo e al marxismo per mezzo dell’influenza dell’amico Bertolt Brecht, di Ernst Bloch e, in seguito, alla studio di Lukács. Costretto a lasciare la Germania trova rifugio in Francia e, dopo l’occupazione nazista del paese, cerca di raggiungere il nuovo continente, ma arrestato dalla polizia di frontiera spagnola che minaccia di consegnarlo ai nazisti, si toglie la vita.
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, Benjamin elabora il concetto di auraticità dell’opera d’arte, ossia del contesto specifico in cui l’opera d’arte sorgeva e poteva essere fruita nella sua natura di evento irripetibile. Nell’età contemporanea, la riproducibilità tecnica delle opere d’arte ha reso collettiva la possibilità della fruizione artistica – mediante i musei, i dischi e i film – facendo venire meno il carattere elitario dell’arte. L’arte diventa insomma uno dei tanti prodotti del mondo capitalistico. Ciò distrugge l’auraticità dell’opera d’arte, perché rende il fruitore sempre più passivo di fronte all’opera: subendola finisce per considerarla solo come oggetto di divertimento e non di conoscenza. L’arte, nel tardo capitalismo, più che strumento di riflessione e emancipazione, è diventata uno strumento per esercitare il dominio sulle masse. D’altra parte, all’estetizzazione della politica delle società fasciste, Benjamin contrappone l’esemplare politicizzazione dell’arte in Unione Sovietica.
Le Tesi di filosofia della storia
Notevole influenza su certo marxismo occidentale contemporaneo ha avuto in particolare un breve saggio di Benjamin: Tesi di filosofia della storia (1940). In esse Benjamin critica duramente la concezione della storia positivista dominante nella Seconda internazionale, il cui ottimismo fatalistico impedisce di intervenire in modo rivoluzionario sulle contraddizioni della società borghese. Più radicalmente, intersecando il marxismo con la sua cultura giovanile di stampo nietzschiano, Benjamin mette in questione la stessa razionalità del corso del mondo, che implicherebbe a suo avviso un processo lineare di sviluppo, mentre la storia avanza in modo discontinuo mediante balzi e rotture. Lo sviluppo storico lineare è la concezione mistificatrice propria dei vincitori, che intendono naturalizzare e dare carattere progressivo al proprio successo. La storia, al contrario, è per Benjamin essenzialmente esercizio di dominio, come dimostra la stessa società contemporanea che, sotto il manto del progresso tecnico scientifico, cela la riduzione dell’uomo in merce e il suo abbandono in balia alle potenze del mercato.
L’Angelus Novus
A tale proposito Benjamin si serve di una immagine presa in prestito da un disegno di Paul Klee, l’Angelus Novus con la testa rivolta indietro, intento a scrutare i cumuli di macerie prodotti dal corso del tempo. Il passato è, dunque, un’enorme tragedia da cui l’angelo è strappato da un vento di tempesta che lo spinge innanzi, verso il futuro. Non vi è, dunque, pacifica evoluzione, ma frattura dell’ordine temporale, anzi l’angelo abita propria tale frattura, che è il presente dell’uomo, mentre il vento di tempesta rappresenta, per dirla con Bloch cui Benjamin è vicino, il principio speranza che ci sospinge innanzi. Occorre, dunque, operare una censura con il passato, ma senza rifuggirlo, perché proprio fra le sue rovine è possibile recuperare lo spirito escatologico che la logica del dominio propria dei vincitori vuole cancellare. Solo attraverso un’attenta ermeneutica del passato è possibile ritrovare il senso smarrito nella frattura del presente, ovvero ritrovare le potenzialità sepolte dalle macerie, di cui occorre farsi carico per poter accettare la sfida del tempestoso futuro.
Marxismo e teologia messianica
Anche la filosofia della storia di Benjamin può essere interpretata come un’analisi peculiare del mondo tardo-capitalistico. Benjamin coniuga marxismo e teologia messianica, notando che il marxismo ha ragione nel privilegiare le dinamiche collettive, ma è bene tener vivo il carattere individuale del soggetto. Questa tensione rimarebbe irrisolta: solo nella coincidenza dei due momenti potrebbe nascere una qualche fiducia nel futuro, ma per tale coincidenza Benjamin non indica un momento determinato, perché sarebbe collocata in un futuro messianico. Il filosofo si pone pertanto nell’orizzonte dell’attesa messianica. La speranza storica della redenzione è per Benjamin metastorica: viene differita a un futuro senza punto di arrivo e parte da un passato giudicato sempre tragico e disastroso, mentre il presente non avrebbe senso, né ruolo, se non per il fatto che avvia alla redenzione finale: esso pur nella sua tragicità è gravido di futuro. Benjamin coniuga, quindi, il marxismo – di cui cassa gli aspetti deterministici – e la teologia. La storia per Benjamin non ha garanzia di progresso, il quale non consiste nell’accumulazione graduale delle conquiste dell’umanità, ma nell’avvento improvviso dell’epoca messianica, simboleggiata dall’angelus novus che porta il rinnovamento come rottura netta con il passato, ovvero come catastrofe.