Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi.
Segue da: “Il momento Ragione della Fenomenologia dello spirito”
La legge del cuore e il cavaliere della virtù
La seconda figura della ragione attiva muove dall’uomo della legge del cuore, ovvero dalla coscienza individuale che – consapevole di avere in sé la ragione quale fonte di ogni verità – pretende che il corso del mondo si confaccia alla propria legge del cuore. Dal momento che la verità è qualcosa di interiore, il corso del mondo è considerato qualcosa di estraneo, di meramente esistente, di casuale e, quindi, di non vero. Perciò dovrebbe lasciare campo libero alla verità fondata sulla legge del proprio cuore.
D’altra parte, tale pretesa si presenta ben presto come utopica, se non addirittura distopica, in quanto vorrebbe imporre alla realtà nella sua concretezza storica, economica, politica e sociale degli ideali astratti che peraltro costituiscono le leggi di un singolo cuore. Dal momento che tale assurda pretesa non potrà mai realizzarsi, visto che la realtà è essenzialmente una, mentre i singoli cuori sono molteplici e ognuno segue la propria legge, anche nel caso se ne realizzasse una, tutto le altre sarebbero negate.
D’altra parte la coscienza, nel suo delirio soggettivistico di potenza non si avvede di ciò e tende a dare la colpa di questa mancata affermazione dell’unica vera legge ai complotti orditi da membri corrotti del clero, o dal dispotismo dell’assolutismo monarchico o più in generale all’intera società che sarebbe, in sé, corrotta.
Anche questa figura nella sua astrattezza finisce per essere più ideale che reale, tanto è vero che si ritrova in modo esemplare ancora in protagonisti di opere letterarie. Da questo punto di vista la figura di riferimento, in cui si presenta nel modo più puro l’uomo della legge del cuore è Karl Moor, protagonista del primo dramma del tanto giovane quanto grande scrittore tedesco, Friedrich Schiller: I masnadieri. Si tratta di una delle opere più importanti e caratteristiche della letteratura del movimento preromantico dello Sturm und Drang, il cui altro grande esponente era il giovane Goethe al cui Urfaust (versione giovanile del Faust) Hegel si era ispirato per delineare le caratteristiche dell’uomo del piacere. D’altra parte se il Faust rappresentava emblematicamente l’uomo del Rinascimento, con Karl Moor siamo nella seconda metà del diciottesimo secolo, in piena età illuministica. Quest’epoca segna un momento di grande sviluppo della libertà dei moderni, ovvero del riconoscimento del valore assoluto dell’individualità. Quest’ultima, d’altra parte, in quanto tale non riesce mai a realizzarsi, perché anche le altre individualità divenute consapevoli della loro autonomia e libertà mirano a far valere la legge del proprio cuore. Non comprendendo questo Karl Moor, vedendo impedita la realizzazione del suo ideale astratto, finisce con l’intraprendere un tragico conflitto con l’intera società del suo tempo che considera in sé corrotta, tanto da divenire un masnadiero, un bandito. Evidentemente solo un giovane ingenuo può pretendere di realizzare il bene che avverte nel proprio cuore divenendo un fuorilegge e scontrandosi con la società nel suo complesso. Tanto che, maturando, è lo stesso Moor a rendersi conto della contraddittorietà del proprio operare consegnandosi alla legge.
Mediante tale catarsi la coscienza è divenuta consapevole della contraddittorietà fra la pretesa che il proprio cuore individuale possa dettare una legge necessariamente di validità universale e così si toglie, superandosi nella successiva figura: l’uomo della virtù. Quest’ultimo mantiene questa forte spinta morale a realizzare il bene, mentre è divenuto consapevole che il particolarismo dell’individuo è in contrasto con l’universalismo del bene, della legge morale. Proprio per questo non mira più ingenuamente a imporre la “legge” del proprio cuore, ma si batte affinché si affermi la virtù stessa nella sua universalità. Così la volontà di realizzare il bene in quanto tale, si contrappone al precedente seguire le inclinazioni soggettive del proprio cuore.
D’altra parte, il puro bene non può che rimanere astratto, universale e, in quanto tale, non può realizzarsi nella concretezza della realtà. La sua finisce per essere una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento, ovvero contro un corso del mondo cui il singolo individuo non può pretendere di imporre la propria volontà, per quanto protesa al bene universale. Anche in questo caso Hegel vede incarnarsi in modo emblematico tale figura nel protagonista di in un altro e più maturo dramma di Schiller: il Don Carlos. In tale dramma abbiamo quale emblematica incarnazione dell’uomo della virtù il marchese di Posa, uno spirito illuminista che si batte contro l’emblema stesso dell’assolutismo, il dispotico Filippo II, e contro il prototipo del membro del clero nemico della morale illuminista, ovvero il grande inquisitore. Anche il questo caso l’idealismo astratto del marchese di Posa non può che fallire, nel suo donchisciottesco tentativo di reinvertire un corso del mondo che gli pare invertito, capovolto per il prevalere dell’assolutismo monarchico e del fondamentalismo religioso. Le armi ideali di cui dispone il Posa non possono che essere facilmente sconfitte dalle armi reali dell’uomo del corso del mondo. L’utopista non può avere ragione del realista uomo del potere effettivo. I suoi astratti ideali non possono che avere la peggio volendosi scontrare con la dura concretezza della realtà. Così la congiura per rovesciare un regime, per quanto dispotico, non può che fallire, come ogni individualistica pretesa di invertire l’invertito corso del mondo. Così anche la terza e ultima, per quanto eroica, figura individualistica della ragione attiva non può che essere condannata al fallimento, al rovesciarsi nel proprio contrario. La pretesa di affermare la virtù nella sua purezza si rovescia nella agevole affermazione dell’uomo del corso del mondo.
L’individualità che è a se stessa reale in sé e per sé
D’altra parte, anche questa tragedia non può che concludersi con la catarsi, ovvero con la comprensione, mediante questa tragica esperienza, che il fondamento idealistico del singolo rappresentate della ragione attiva è in quanto tale impossibilitato a divenire reale. Appare, dunque, necessario per la coscienza un confronto maggiormente concreto con la realtà, al quale non è possibile sfuggire, se non attraverso infantili fantasie, che divengono tragiche quando si prendono sul serio. Solo in tal modo, in effetti, l’individualità non subisce più uno scacco, nel tentativo di realizzarsi, ma diviene finalmente reale. Per conseguire, infine, tale tanto atteso risultato la coscienza individuale ha dovuto rinunciare al proprio idealismo, ai propri astratti ideali, per darsi un programma decisamente minimo che è però in grado di realizzare. Abbandonati gli utopistici ideali giovanili, la coscienza è maturata, il giovane è divenuto un uomo che si riappacifica con la sua realtà e, anzi, mira a realizzarsi nel modo migliore nel compito che quest’ultima gli assegna. Si passa così alla ben più prosaica, ma al contempo più concreta e matura onesta dedizione ai propri compiti particolari, quale membro della famiglia, della società civile e dello Stato, quelli che sono i tre ambiti della vita etica. Entriamo così, finalmente, in una sorta di anticamera del regno dello spirito che segna la transizione dalla ragione al superiore momento collettivo dello spirito.
In questo momento transitorio siamo ancora nel regno animale dello spirito, in quanto la coscienza interpreta il suo assurgere alla vita dello spirito come l’esatto opposto della ragione che mirava all’astratto universale. Per cui in questo primo e primitivo stadio, la vita dello spirito è tutta risolta nella cura del particulare. Il giovane è divenuto un coscienzioso padre di famiglia che rispetta i suoi doveri etici verso la moglie e i figli, anche impegnandosi con successo nella società civile, in cui il suo onesto lavoro gli consente la realizzazione di quel patrimonio indispensabile alla sopravvivenza stessa della famiglia. Inoltre, oltre a un buon padre di famiglia e a un onesto e produttivo lavoratore, il giovane che aveva addirittura pensato di divenire fuorilegge, di ordire congiure, diviene un cittadino ligio ai suoi doveri verso lo Stato.
D’altra parte, questa tanto ambita e finalmente conseguita capacità di realizzare la propria universalità contribuendo al comune impegno per la cosa stessa è più apparente che reale. Resta, in effetti, ancora una pretesa soggettiva caratteristica dell’individualità che ha ritrovato al proprio interno l’universalità della ragione. È in effetti ancora l’individuo stesso che pretende di poter realizzare come buon padre di famiglia, laborioso professionista e cittadino modello, la cosa stessa. Anche questo dovere morale, attraverso cui il singolo potrebbe realizzarsi nell’assoluto, è in realtà un inganno, dal momento che la ragione individuale realizza unicamente il proprio interesse. Anche quando agisce in nome del bene in quanto tale, non può che farlo in quanto detto operare corrisponde in realtà al proprio bene personale. È l’attitudine ipocrita propria del filisteo, del borghese, del conformista e del benpensante che si sente in pace con la coscienza credendo di aver realizzato, semplicemente conformandosi al proprio ruolo nella famiglia, nel mondo del lavoro e nella società nel suo insieme.
La ragione legislatrice
Divenuta consapevole dell’inganno e dell’autoinganno della coscienza felice filistea e borghese, l’autocoscienza cerca ora al proprio interno – in quanto muove dalla certezza propria della ragione di essere fonte di ogni verità – delle leggi che abbiano validità universale, sul modello dell’imperativo categorico kantiano. Quest’ultimo, pur essendo presente nell’interiorità di ogni uomo, è universale, in quanto con la stessa categoricità ordina a ogni differente individuo le stesse massime universali. Questa nuova figura che s’impone nel percorso della coscienza individuale, che ripercorrendo la storia universale del genere umano ne deve far proprio i tratti salienti, è l’uomo della ragione legislatrice che non cerca più se stessa fuori di sé come la ragione osservativa e non pretende di imporre una qualche massima soggettiva al corso del mondo, come la ragione attiva.
Tuttavia, anche a questo livello di sviluppo superiore, la ragione non è ancora in grado di superare il proprio limite strutturale soggettivo, in quanto l’universale della ragione si incarna sempre in un individuo particolare. Anche in questo caso, dunque, per quanto pretendano di essere universaliste tali massime provengono da un’autocoscienza individuale che, per quanto possa elevarsi come quella kantiana, sempre prigioniera della sua singolarità permane. Da qui la solita contraddizione per cui le leggi universali, sancite da una ragione legislatrice singolare, sono necessariamente auto-contraddittorie pretendendo di essere allo stesso tempo e nel medesimo senso individuali e universali. Hegel, sempre rifacendosi alla filosofia critica kantiana, in cui queste problematiche sono state affrontate nel modo più emblematico, sostiene che la massima universale posta dalla ragione individuale secondo la quale bisogna sempre dire la verità, non tiene nel dovuto conto che il singolo, in quanto tale, non potrà mai realizzare tale massima universale. La singola individualità non solo non potrà affermare la verità, in quanto tale, universale, ma neanche potrà ricomprenderla in sé, in quanto non potrà che conoscere e, dunque, esprimere la cognizione che di volta in volta ha dell’universale verità. La massima universale, dunque, fondata soggettivamente, non può che risolversi nel suo opposto, ovvero in una verità necessariamente accidentale.
Continua sul numero 257