La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia – Parte III: David Ricardo

L’altro grande classico, David Ricardo (1772-1823), rispetto ai due economisti precedenti, si trova di fronte a un capitalismo ancora più sviluppato. A differenza di Smith, non ha titoli accademici ma, quale uomo di affari, conosce a fondo le attività e i meccanismi economici della società.


La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia – Parte III: David Ricardo Credits: https://ichef.bbci.co.uk/images/ic/1200x675/p099q6h9.jpg

L’altro grande classico, David Ricardo (1772-1823), rispetto ai due economisti precedenti, si trova di fronte a un capitalismo ancora più sviluppato. A differenza di Smith, non ha titoli accademici ma, quale uomo di affari, conosce a fondo le attività e i meccanismi economici della società. Inoltre possiede spiccate capacità di logica e di astrazione. La sua opera maggiore, Principi di economia politica e tassazione, costituisce un ulteriore avanzamento dell’economia politica.

La teoria del valore

La teoria del valore, si rifà a Adam Smith. Il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessario a produrla. Tuttavia egli cerca di sviluppare ulteriormente questo concetto per dimostrarne la validità anche in presenza di rapporti capitalistici, di lavoro salariato e di proprietà privata della terra e del capitale.

La sua opinione, certamente più corretta, è che il valore di una merce, da lui chiamato “prezzo naturale” (ancora naturale! I borghesi non riescono a distaccarsi dalla naturalizzazione del modo di produzione capitalistico), non dipende, in termini relativi, cioè in confronto ai valori di tutte le altre merci, dal compenso che viene dato ai fattori produttivi (salario, profitto e rendita) ma dal lavoro contenuto nella merce stessa, mentre il profitto è un’entità residuale: ciò che rimane al capitalista dopo aver pagato i fattori produttivi. Quindi ai salari maggiori corrispondono minori profitti e viceversa. Date le condizioni tecniche della produzione, il saggio del profitto e quello di salario stanno fra di loro in una relazione inversa. Si profila pertanto l’idea di interessi antagonistici fra le classi sociali e viene criticato il concetto di “lavoro comandato” di Smith.

Spiegare infatti il valore delle merci con la quantità di lavoro che queste merci possono “comandare” fa dipendere il valore anche dall’entità dei salari. In questo modo però, secondo Ricardo, si misurerebbe il valore di una merce con il valore di un’altra, il salario, anch’esso variabile, per cui ci si troverebbe in assenza di una “misura invariabile del valore”. Egli si impegna pertanto a definire questa misura in modo che rimanga stabile al variare dei prezzi relativi e della distribuzione fra salari e profitti; un impegno che verrà ripreso in epoca relativamente recente dalla scuola neoricardiana il cui padre spirituale unanimemente riconosciuto è Piero Sraffa con la sua artificiosa “merce tipo”. Ricardo trova una soluzione al problema, semplicistica ma efficace come schematizzazione, prendendo come elemento invariabile il valore del grano nell’ipotesi del tutto teorica che esso non dipenda dagli altri prezzi in quanto prodotto esclusivamente da grano (sementi) e da lavoratori che si alimentano con il solo grano. Un’altra soluzione empirica, più concreta ma approssimativa, viene individuata nel valore dell’oro, reso stabile dall’ingente presenza di riserve auree: l’oscillante produzione nel periodo preso in considerazione non incide significativamente a modificarne il valore.

E se i capitalisti, a fronte di un aumento dei salari, decidessero di aumentare di pari importo i prezzi? Semplificando un po’ il discorso, tralasciando alcuni aspetti ben presenti in Ricardo, si può dire che i prezzi delle merci aumenterebbero tutti nella stessa proporzione e che quindi i prezzi relativi rimarrebbero immutati. Se i prezzi relativi non cambiano, il capitalista non può scaricare un aumento di salari sul prezzo del proprio prodotto. È inevitabile quindi che a fronte dell’aumento dei salari, diminuiscano i profitti. Vedremo che l’odierna scuola monetarista dirà l’esatto contrario.

 

Ricardo attribuisce la variazione del valore relativo delle merci unicamente al variare delle difficoltà di produzione, siano esse dovute a fenomeni naturali o tecnologici, e conseguentemente alla variazione della quantità di lavoro necessaria alla loro produzione.

Altro problema affrontato è la differenza di produttività fra i diversi tipi di lavoro, per esempio più o meno specializzato, che inevitabilmente si traducono in apporti diversi di valore. Ricardo lo risolve mettendo in relazione produttività e salari: se un lavoratore specializzato percepisce un salario doppio rispetto a quello di un lavoratore comune, allora si suppone che anche il suo contributo alla creazione di valore sia doppio.

Dato il crescente peso dei mezzi di produzione, si preoccupa anche di precisare che il valore è dato non solo dal lavoro diretto impiegato nella produzione del bene finale, ma anche da quello indiretto, contenuto, incorporato, nei mezzi di produzione, che egli denomina “capitale fisso”, confondendo la distinzione fra beni capitali durevoli (per esempio gli utensili, gli immobili, le macchine ecc.) che non si consumano in un solo ciclo produttivo e beni che si consumano interamente in un ciclo produttivo (per esempio le materie prime, l’energia, le materie ausiliarie ecc.) che si consumano interamente e devono essere per intero reintegrate alla fine del processo) con l’altra distinzione fra lavoro diretto e lavoro cristallizzato nei mezzi di produzione, siano essi durevoli o meno.

Questa sua visione di un conflitto fra interessi dei lavoratori e dei capitalisti e l’individuazione nel solo lavoro della fonte del valore, è ovviamente un argomento utilizzabile a favore della classe lavoratrice. Un esempio è la corrente dei cosiddetti socialisti ricardiani della prima metà dell’800 la quale rivendicava che tutto il prodotto dovesse andare ai lavoratori, visto che tutto il valore scaturisce dal lavoro.

Ricardo si occupa infine del caso in cui le differenti merci vengano prodotte con combinazioni diverse (in proporzioni variabili) di lavoro diretto e lavoro indiretto (“beni capitale”), e in cui tali beni abbiano durata diversa fra di loro. Per esempio, la materia prima viene consumata per intero nel ciclo produttivo in cui la si trasforma, mentre le macchine e gli edifici vengono consumati gradualmente in più cicli produttivi. In tal caso, per spiegare i prezzi relativi non è sufficiente considerare la quantità di lavoro necessario in quanto, ipotizzando un saggio del profitto che la concorrenza rende uniforme, i prezzi delle merci prodotte con più lavoro indiretto di maggiore durata, dovranno retribuire capitali per più periodi, determinando prezzi relativi che si discostano dal valore. In questo caso, ammette Ricardo, la variazione dei salari reali incide sui prezzi relativi. Per esempio, se aumentano i salari aumenteranno anche i prezzi relativi delle merci prodotte con meno intensità di capitale fisso e viceversa diminuiranno i prezzi delle altre. Marx darà una diversa soluzione a questo problema, con la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Una soluzione ancora diversa la darà Sraffa con la sua merce tipo, un paniere di merce il cui prezzo non varia al variare della distribuzione.

Nonostante gli importanti passi avanti compiuti rispetto a Smith, la teoria di Ricardo presenta ancora diversi punti deboli.

Abbiamo già visto la naturalizzazione del capitalismo che lo porta a identificare, come Smith, il capitale con i mezzi di produzione e di sussistenza dei lavoratori. Viene presa in considerazione cioè solo la composizione materiale del capitale e non il suo carattere sociale. Per Ricardo esso è costituito dal fondo salari – i mezzi di sussistenza dei lavoratori – e dai mezzi di produzione. Ma gli strumenti di produzione, le materie prime e le sussistenze dei lavoratori sono indispensabili in tutti i modi di produzione e in tutti i tipi di società. Considerare solo l’aspetto “naturale” del capitale, identificando processo lavorativo col processo di valorizzazione del capitale, si perdono tutte le specificità storicamente e socialmente determinate del modo di produzione capitalistico. Per la stessa ragione si identificano i due aspetti del lavoro: il lavoro concreto, necessario in ogni società per produrre beni utili, con il lavoro astratto che produce valore.

Altra aporia è l’identificazione del lavoro con la forza-lavoro. In questo modo, quando Ricardo tratta del valore della forza-lavoro parla di “valore del lavoro”, espressione evidentemente tautologica: se il valore dipende dal solo lavoro, parlare di valore del lavoro è come dire valore del valore!

Egli sostiene inoltre che il valore del lavoro dipende dal prezzo dei mezzi di sussistenza e che più è alto questo prezzo più è alto il valore del lavoro e quindi il valore delle merci prodotte dal lavoro. Quindi i “prezzi naturali” delle merci dipendono dai prezzi naturali delle merci. Siamo di nuovo, come in Smith in un ragionamento circolare. Per questo entrambi i grandi classici si fermano all’apparenza dei prezzi di produzione, spiegati nella sfera della circolazione. In Marx invece si spiegherà il profitto come una forma trasformata, mistificata e feticizzata del plusvalore.

Abbiamo visto anche che la sua definizione di capitale fisso è impropria. Distinguendo solamente fra capitale fisso e circolante, e prendendo in considerazione solo il tempo per il quale si deve capitalizzare il profitto, e non il ruolo di ogni componente del capitale nel processo produttivo (i mezzi di produzione il cui valore viene semplicemente trasferito nel valore del prodotto e la forza-lavoro che invece, oltre a riprodurre il proprio valore produce un plusvalore), si rimane alle forme che il capitale assume nella sola circolazione.

Infine un grosso limite della teoria di Ricardo è quello di pervenire comunque, nonostante i tentativi di correggere Smith, a prezzi difformi dalle quantità di lavoro contenute senza indicare come si possano calcolare tali prezzi a partire da tali quantità di lavoro. Ciò darà il pretesto agli economisti successivi di smontare il suo costrutto e produrre altre teorie, disinnescando così il suo pericolo sociale, dato dall’idea di un sistema distributivo antagonistico fra le classi.

La distribuzione del valore fra salari, profitti e rendita

I salari, come ogni altra merce che abbia una domanda e un’offerta, hanno un “prezzo naturale” e un prezzo di mercato che possono temporaneamente essere diversi fra loro ma che comunque tendenzialmente si avvicinano. Secondo la “legge ferrea dei salari” Il prezzo naturale del lavoro è quello “che mette in grado la classe dei lavoratori, nel complesso, di sussistere e di riprodursi senza aumenti né diminuzioni”, cioè il salario deve tendere a quel livello che consente al lavoratore di mantenere la propria famiglia. Pertanto, gli aumenti e le riduzioni del salario dipendono dalle variazioni dei prezzi relativi delle merci facenti parte dei mezzi di sussistenza dei lavoratori (viveri, beni di prima necessità ecc.).

I salari di mercato non possono discostarsi a lungo dal loro livello naturale. Nel caso fossero superiori il lavoratore potrebbe permettersi dei consumi al di sopra del livello di sussistenza e verrebbe indotto a procreare più figli. Con i figli che crescono aumenterebbe la consistenza della classe dei lavoratori e con ciò l’offerta di braccia da lavoro, con conseguente riduzione del prezzo di mercato (salario). Al contrario, se i salari di mercato fossero al di sotto del livello naturale, non consentirebbero al lavoratore di riprodursi normalmente e diminuirebbe così l’offerta di lavoro e con ciò si avrebbe un aumento del salario.

Farebbe eccezione alla legge ferrea il caso in cui l’economia crescesse più consistentemente rispetto all’aumento demografico: complessivamente la società spende per il mantenimento dei lavoratori il cosiddetto “fondo salari”. Dividendo tale fondo per il numero dei lavoratori si ottiene il salario del singolo lavoratore. Tale fondo tende a crescere alla stessa velocità dell’economia e, quindi, dell’accumulazione di capitale. Se quindi l’economia e il fondo salari crescono più velocemente della popolazione, potrebbe verificarsi il mantenimento della popolazione sopra i livelli di sussistenza per un lungo periodo.

Si noti che questa teoria fa dipendere il salario da fattori “naturali”, come quelli demografici piuttosto che legati ai rapporti di forza fra le classi.

Abbiamo già visto la spiegazione dei profitto come sottrazione dal valore del prodotto del lavoro. Ricardo cerca di spiegare anche come si forma la rendita. Essa costituisce la parte del prodotto che spetta al proprietario della terra per aver messo a disposizione il suo potenziale produttivo. Le terre, però, non sono tutte ugualmente fertili. Quindi, se la rendita fosse uniforme i capitalisti che mettessero a cultura la terra più fertile godrebbero di maggiori profitti, ma in questo caso aumenterebbe la domanda di terra più fertile, facendo crescere la rispettiva rendita. Il meccanismo del mercato e di livellamento dei profitti farà sì che si determini un saggio del profitto uniforme e rendite differenziate in relazione alle differenze di fertilità, con una rendita pari a zero nel terreno “marginale”, cioè l’ultimo e meno fertile terreno messo a coltura.

Al proprietario fondiario spetterebbe invece, oltre alla rendita differenziale in relazione diretta con la fertilità del suolo, la rendita assoluta qualora la scarsità di terra induca a mettere a coltura anche quelle meno fertili.

A mano a mano che la popolazione aumenta, e con essa l’esigenza di prodotti agricoli, viene coltivata terra meno fertile che acquisisce il diritto a una rendita. Di conseguenza, aumenta la rendita delle terre più fertili e il saggio del profitto, per differenza, diminuisce. Quindi non è il prezzo dei prodotti agricoli a essere influenzato dalla rendita, ma i profitti. Siamo di fronte a un altro aspetto della distribuzione che vede antagonismo fra le classi sociali, questa volta fra profitti e rendita.

Ascanio Figura 1

La figura 1 illustra il movimento inverso di rendita (tratto verde delle colonne) e profitti (tratto giallo) qualora si mettano a coltura terre nuove meno fertili. Il valore dei salari (tratto rosso) uguale a due milioni di quintali di grano, supponendo che ogni tipo di terreno necessiti della stessa manodopera. Si ipotizzano sei tipologie di terreni. Nella prima si possono produrre sette milioni di quintali di grano, nella seconda sei, e così via a diminuire fino alla sesta in cui se ne possono produrre due. Qualora il fabbisogno di grano fosse pari a ventidue milioni di quintali (grafico A) è sufficiente mettere a coltura le quattro tipologie di terreni maggiormente fertili (7+6+5+4=22). La quarta, cosiddetta marginale, in cui la produzione è pari al valore dei salari e dei profitti, non riceve rendita. Il profitto, che deve essere uniforme, è pari a due milioni di quintali di grano per ogni tipologia di terreno. Mettendo a coltura i terreni meno fertili, si avrebbero profitti inferiori alla media. Pertanto quei terreni restano incolti.

Se invece il fabbisogno di grano salisse a venticinque milioni di quintali, sarebbe necessario mettere a coltura anche la quinta tipologia, con cui produrre i tre quintali aggiuntivi (grafico B), che diventerebbe quella marginale che non dà diritto a una rendita. La quarta conseguentemente percepirebbe la rendita differenziale di uno, la terza di due e così via. Rispetto al caso precedente, è aumentata di una unità la rendita in tutti i terreni non marginali e quindi, a parità di salari, diminuiscono i profitti. Nel terzo caso (grafico C), dovendo produrre venticinque quintali, è necessario, per ottenere i due quintali aggiuntivi, mettere a coltura anche l’ultima tipologia di terreno che, in quanto marginale, non percepirebbe rendita. La quinta darebbe diritto alla rendita di uno, e così via. In questo modo, però, i margini di profitto si azzerano. Questa è la ragione per cui Ricardo, supponendo che il fabbisogno di prodotti agricoli cresca all’aumentare della popolazione e/o del benessere, prevede una tendenza al declino del saggio del profitto in agricoltura. Dato che i capitali si spostano verso i settori che offrono maggiori profitti, nel mercato si verifica una tendenza a eguagliare i saggi del profitto fra i vari rami produttivi. Per questo Ricardo conclude che il saggio del profitto determinato in agricoltura coinciderà con quello generale, che diminuirà insieme a quello del comparto agricolo. Si avrà così una tendenza storica alla diminuzione del saggio del profitto.

Anche tale diminuzione è un tema che Marx affronterà, individuando cause ben diverse da quella qui descritta.

Nonostante il riconoscimento dell’esistenza di interessi contrapposti fra le classi, permane il carattere liberale di fondo di questa teoria. Per quanto riguarda i salari, per esempio, Ricardo ritiene che debbano essere rimessi alla “libera concorrenza del mercato” senza “controlli e interferenze” da parte dello Stato.

Poiché la terra marginale, l’ultima, meno fertile, messa a coltura, non riscuote rendita, il prezzo “naturale” si determina in questo contesto e quindi include solo profitti e salari, due spicchi di una medesima torta. Occorre tenere presente che Ricardo nella voce “profitti” include anche gli interessi per il capitale a prestito.

La teoria dei vantaggi comparati

Un altro contributo di Ricardo alla teoria economica è la cosiddetta “teoria dei vantaggi comparati” in materia di commercio internazionale, secondo la quale tali scambi, consentendo la specializzazione delle produzioni di ciascuna nazione e quindi la produzione di ciascuna merce laddove vi sono le condizioni più favorevoli, determina vantaggi per tutti.

Se Smith aveva elaborato una legge simile, che per lui funzionava però solo nel caso che una nazione avesse un vantaggio assoluto a specializzarsi nella produzione di una certa merce, cioè fosse in grado di produrla a un costo inferiore a quello dei concorrenti internazionali, Ricardo amplia la casistica, dimostrando che ciascuna nazione ha un vantaggio a specializzarsi nella produzione per lei meno costosa relativamente alle altre merci, anche se più costosa rispetto al costo di produzione di altre nazioni. Quello che spenderebbe in più aumentando la produzione di tale merce anziché importarla sarebbe più che compensato dai risparmi derivanti dall’importare, anziché produrre, le merci relativamente più costose.

Appare evidente che anche questo strumento teorico serva a Ricardo – anche di più di quanto sia servito a Smith – per sostenere l’abbattimento delle barriere del commercio internazionale, per esempio i dazi sul grano, e in generale per supportare le politiche liberali.

La moneta

Riguardo al sistema monetario, Ricado aderisce alla cosiddetta teoria quantitativa secondo la quale il livello dei prezzi è direttamente proporzionale alla quantità di moneta emessa e alla sua velocità di circolazione.

Indicati con M la quantità di moneta in circolazione, Q la quantità del prodotto, V la velocità di circolazione e P il livello dei prezzi, sussiste l’identità

PQ=MV (1)

Pertanto, la causa dell’inflazione starebbe esclusivamente nella politica monetaria e proprio per questo Ricardo è un sostenitore del cosiddetto “gold standard”, secondo cui le banconote di Stato dovrebbero rappresentare una precisa quantità di oro ed essere convertibili in qualsiasi momento in oro. In più, egli ritiene che i fenomeni monetari siano del tutto autonomi rispetto a quelli dell’economia reale e che possano incidere solo sul livello generale dei prezzi, non sulle grandezze relative alla produzione. In particolare, ritiene che l’emissione di moneta non possa servire da stimolo alla produzione stessa, perché genera esclusivamente inflazione, né possa la riduzione delle monete in circolazione deprimere l’economia reale.

L’identità (1) è un fatto oggettivo. I prezzi delle merci moltiplicati per per le quantità oggetto di scambi, cioè il valore globale scambiato in un determinato periodo, deve essere uguale al corrispettivo in moneta, cioè la moneta in circolazione moltiplicata per le volte che quella data quantità torna in circolo dopo ogni singola transazione nel medesimo arco temporale. Tuttavia è erroneo attribuire a questa identità un valore esplicativo del livello dei prezzi in quanto la moneta emessa può non entrare nella circolazione delle merci ma essere tesaurizzata oppure impiegata nella finanza. Inoltre l’istituto di emissione, per esempio la Bce, non è l’unico soggetto che crea moneta in quanto anche gli istituti di credito emettono moneta bancaria, come potremo vedere trattando la scuola del circuito monetario.

Questa teoria sarà confutata prima da Marx e poi da Keynes, ma ritornerà in auge con la moderna scuola dei monetaristi, che hanno ispirato anche le attuali regole monetarie, economiche e fiscali dell’Unione Europea.

Il progresso tecnologico

Per quanto riguarda il progresso tecnologico, Ricardo è convinto che l’introduzione delle macchine comporti un beneficio per tutte le classi. Producendo più a buon prezzo i beni di consumo dei lavoratori, si possono abbassare i salari senza ridurre il loro tenore di vita, o addirittura aumentandolo. La riduzione dei salari permette l’incremento dei profitti e quindi degli investimenti, sviluppando così il potenziale produttivo. Pur ammettendo che temporaneamente le macchine possano creare disoccupazione, Ricardo ritiene che alla lunga si sarebbe trovato un nuovo equilibrio di piena occupazione sia impiegando i lavoratori per la produzione delle nuove macchine, sia grazie agli investimenti aggiuntivi per produrre ulteriori merci, resi possibili dal risparmio di manodopera, di capitali fissi e dallo stesso risparmio in consumi dei capitalisti per effetto del ribasso dei prezzi dovuto all’impiego di macchine. La possibilità, però, che i capitalisti siano indotti a investire di più in capitale “fisso” e di meno in lavoratori, diminuirebbe temporaneamente l’occupazione e con essa i consumi dei lavoratori; con ciò sono giustificati i loro timori riguardo all’introduzione delle macchine.

La legge di Say

In generale Ricardo nega che a lungo andare vi sia la possibilità di una crisi di sovrapproduzione e della conseguente disoccupazione, e ritiene che tutto il reddito debba essere speso. Si tratta dell’adesione alla cosiddetta legge di Say, dal nome dell’economista Jean Baptiste Say ma che in realtà venne formulata per primo da James Mill, secondo cui ogni produzione genera la sua domanda. Riportiamo le stesse parole di Ricardo: “Nessuno produce, se non allo scopo di consumare o vendere, né vende se non con l’intento di comprare altre merci, che gli possano essere immediatamente utili, o contribuire alla produzione futura. Producendo, quindi, egli diventa necessariamente o il consumatore delle proprie merci o il compratore e consumatore di merci altrui. Non si può ipotizzare che egli sia male informato delle merci che può più vantaggiosamente produrre per raggiungere il suo scopo, cioè il possesso di altri beni; perciò, non è probabile che egli continui a produrre un bene di cui non c’è domanda. Quindi non si può accumulare in un paese un qualsiasi ammontare di capitale che non possa essere impiegato produttivamente.” [1]

Anche questa legge verrà confutata da Marx prima e, con argomenti del tutto sovrapponibili a quelli marxiani, da Keynes poi.

Note:

[1] D. Ricardo, On the principles of Political Economy and Taxation, in The Work and correspondence of D. Ricardo, Vol. I, p. 290, traduzione mia.

25/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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