La conquista del potere da parte del fascismo

La resistibile ascesa al potere del fascismo in Italia con la complicità della grande borghesia


La conquista del potere da parte del fascismo Credits: https://www.ilbarbuto.blog/2018/06/14/fascismo-storico-e-fascismo-consumistico/

Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi

Segue da: La conquista del governo da parte del fascismo

Il listone di Alleanza nazionale

Per le elezioni del 1924 Mussolini, con l’appoggio dei partiti borghesi, realizza una legge elettorale antidemocratica, la legge Acerbo, in quanto con il sistema proporzionale le forze della sinistra, ancora al quanto popolari, potevano gravemente ostacolare l’azione decisamente antipopolare e ultra-liberista del governo. La legge maggioritaria assegna la maggioranza assoluta dei seggi a chi ottiene una maggioranza solamente relativa dei voti. Si tratta di un sistema in cui la maggioranza relativa, ovvero una minoranza ha un potere quasi assoluto, in quanto controlla sia il potere esecutivo che il legislativo. Anzi quest’ultimo perde il proprio ruolo preminente, proprio perché le opposizioni sono impossibilitate a ostacolare significativamente l’azione di governo. Non a caso tale sistema sarà eliminato dopo la disfatta del nazi-fascismo a opere principalmente dell’Urss e dei partigiani, generalmente egemonizzati dai comunisti. Solo dopo il crollo dell’Urss e l’autoscioglimento del Partito comunista italiano tale legge elettorale sarà restaurata, con il decisivo appoggio dei rinnegati ex comunisti.

Per avere con certezza la maggioranza dei voti – anche perché la legge non era così antidemocratica come quella che ha segnato il passaggio dalla prima Repubblica democratica alla seconda Repubblica liberale – il fascismo, essendo ancora minoritario nel paese, si presenta alle urne con un listone, Alleanza nazionale, composto dai fascisti e dai liberali conservatori di Salandra che, grazie alle sistematiche violenze e alle intimidazioni contro i possibili elettori di opposizione – ormai completamente coperte dagli apparati repressivi dello Stato – si aggiudica la maggioranza assoluta dei seggi, mettendo all’angolo, anche a livello parlamentare, le forze della sinistra, già duramente colpite dallo squadrismo. All’indomani delle elezioni, il deputato socialdemocratico Matteotti, presenta una documentatissima denuncia della gravi illegalità, dei brogli e delle pesantissime violenze che avevano consentito a Mussolini e ai suoi alleati liberal-conservatori di avere la maggioranza assoluta, con l’appoggio dello Stato imperialista.

Il delitto Matteotti

All’indomani della denuncia, Matteotti viene fatto rapire su ordine di Mussolini da una squadraccia di sicari fascisti che, dopo averlo torturato, lo assassina. Lo sdegno per questo clamoroso e barbaro delitto scuote l’opinione pubblica e fa vacillare il governo Mussolini. Diviene evidente a tutti che accettare anche questa ennesima violazione, sempre più sfacciata, della legalità liberaldemocratica significa aprire la strada a un bonapartismo regressivo e a quello che sarà, in seguito, definito regime totalitario. L’intera opposizione è costretta a reagire, se non vuole essere messa completamente da parte. D’altra parte, buona parte di essa è capeggiata da intellettuali di estrazione borghese che, nel momento dello scontro, tendono a schierarsi con il partito dell’ordine per non perdere i propri privilegi. In tal modo, rinunciano a l’unico modo possibile per far cadere il governo Mussolini, bloccando l’ascesa al potere (totalitario) del fascismo, ovvero mobilitare i lavoratori in uno sciopero generale che avrebbe bloccato il paese e costretto la grande borghesia ad abbandonare l’alleanza con il fascismo. L’opposizione borghese e confessionale è contraria, in quanto fa gli interessi della classe dominante che subirebbe i danni dello sciopero e sarebbe costretta a rompere con il fascismo, dando al movimento dei lavoratori la possibilità di riorganizzarsi. Anche il partito socialdemocratico e socialista si schierano con i partiti borghesi, i primi perché da sempre contrari allo scontro con i fascisti, i secondi per mantenere unito il fronte delle opposizioni. Perciò si limitano a un’opposizione solamente formale, ovvero abbandonano il parlamento non riconoscendolo, considerate le modalità truffaldine e criminali con cui si è costituito. Portando avanti la cosiddetta secessione dell’Aventino, ossia si riuniscono autonomamente su questo colle di Roma, come era solita fare la plebe nel momento in cui non si vedeva rappresentata dal Senato. Con questa tattica attendista e temporeggiatrice l’opposizione, a  esclusione dei comunisti, lascia decidere le sorti di questo scontro, decisivo per le sorti della libera-democrazia, al solo capo dello Stato, ovvero al re Vittorio Emanuele III, che poteva licenziare il capo del governo. Quella delle opposizioni non rivoluzionarie resta una pressione più morale che reale, in quanto credendo così di conquistarsi gli ambienti conservatori della corte, impediscono qualsiasi mobilitazione dei lavoratori, su cui puntavano i comunisti.

Nel frattempo il re esitava, in quanto da una parte come capo dello Stato si era reso corresponsabile delle azioni squadriste fasciste, dall’altra parte confermando un capo del governo che si era posto sfacciatamente al di sopra della legge, rischiava di consegnarli, nei fatti, il proprio ruolo di capo dello Stato. Nel frattempo le forze legate a Mussolini sfruttano il controllo del potere legislativo, con il campo libero lasciatogli dall’opposizione, per rafforzare il proprio potere e la capacità di egemonia sulla società civile. Dinanzi a questa tattica suicida del resto dell’opposizione, i comunisti si vedono costretti a rompere l’unità d’azione con il resto della inconcludente opposizione, tornando in parlamento, per utilizzarlo leninisticamente come strumento d’egemonia sul blocco sociale alternativo e per denunciarne dall’interno i meccanismi che ne fanno uno strumento necessario all’egemonia delle classi dominanti.

Il re Vittorio Emanuele III, dinanzi a questa gravissima crisi istituzionale, che rischia di divenire – come vorrebbero i comunisti – un dualismo di potere, si risolve a utilizzare il suo potere di capo dello Stato, confermando la propria completa fiducia nel governo Mussolini e condannando la secessione dell’Aventino. Tale sciagurata decisione è presa per paura che la caduta del fascismo avrebbe indebolito lo Stato di cui il monarca era il capo, dal momento che sino a quel momento si era vergognosamente schierato con il fascismo, anche quando violava la legge nel modo più spudorato e utilizzava la violenza come principale mezzo politico, mettendo in questione lo Stato di diritto e il monopolio da parte dello Stato della violenza legalizzata. D’altra parte Mussolini, forte di questo sostegno, decide di non sacrificare nemmeno le mele più marce, i sicari che avevano perpetrato questo sfacciato rapimento e brutale omicidio, in quanto se avessero parlato sarebbero emerse le sue gravissime corresponsabilità.

Mussolini rivendica il delitto Matteotti

Mussolini comprende inoltre di essere giunto a un bivio decisivo, o si assume le sue responsabilità – portando fino in fondo la sua politica eversiva verso lo Stato liberal-democratico – oppure rischia di essere processato per le innumerevoli azioni violente di cui poteva essere considerato, a ragione, il mandante. Così, subito dopo aver avuto la garanzia della copertura del re e, quindi, dello Stato, col celebre discorso alla camera del gennaio 1925, rivendica la piena responsabilità nel delitto Matteotti e nei fatti in tutta la strategia politica squadrista, accelerando la transizione verso una dittatura aperta. Sfruttando il, come al solito, controproducente attentato terroristico individuale, da cui esce illeso, con una serie di decreti legge opera quello che è nei fatti un colpo di Stato istituzionalizzato, in cui è lo stesso capo dell’esecutivo a portare a compimento la transizione a un regime totalitario. Con le leggi fascistissime fra il 1925-1926 viene soppressa la libertà di stampa e di attività politica, l’opposizione parlamentare è liquidata, gli antifascisti sono epurati dall’amministrazione pubblica e i poteri dello Stato sono progressivamente accentrati nell’esecutivo.

Il tribunale speciale per la difesa dello Stato

Dinanzi alle timide e ineffettuali reazione dell’opposizione e al mancato intervento del Capo dello Stato – che tacendo, finisce per acconsentire – sfruttando un nuovo fallimentare attentato avventurista, introdurre un tribunale speciale per la difesa dello Stato, atto a condannare gli oppositori e a concentrare nelle mani dell’esecutivo il potere giudiziario, superando la liberale divisione del potere e restaurando lo Stato assolutista, che aveva dominato nell’ancien régime prima delle rivoluzioni francese e russe.  Nel frattempo, completamente sdoganato, riprende lo squadrismo su larga scala, che porta all’assassinio oltre dei soliti comunisti e sindacalisti persino di uomini politici popolari e liberali anti-fascisti come Gobetti o Giovanni Amendola. Alcuni esponenti dell’opposizione come Sturzo, Turati, Togliatti, Salvemini riescono a rifugiarsi all’estero, mentre altri come Gramsci, segretario del PCdI, è incarcerato e liberato solo quando le malattie di cui soffre lo hanno ridotto in fin di vita.  Persino il moderato popolare De Gasperi fa alcuni mesi di carcere, prima di rifugiarsi in Vaticano.

La Carta del lavoro

Nei confronti dei problemi economici e del lavoro, il fascismo per mantenere il potere conquistato deve disporre oltre che del monopolio della violenza legalizzata anche dell’egemonia su i subalterni. Anche perché, una volta spazzata via anche l’opposizione liberale di sinistra, deve dimostrare alla classe dominante nel suo insieme di essere almeno altrettanto capace della precedente classe dirigente di mantenere il dominio di un modo di produzione sempre più irrazionale e antieconomico garantendo, al contempo, la pace sociale. Cerca così di differenziarsi dalle politiche liberiste sino ad allora portate avanti, sviluppando il suo progetto di rivoluzione passiva che ha al centro la dottrina sociale della chiesa cattolica, che pretende di superare il conflitto di classe restaurando il corporativismo medievale.

Tale sistema corporativo avrebbe dovuto conciliare l’inconciliabile, ossia l’iniziativa privata dei capitalisti e le esigenze collettive di tutto il popolo, il profitto capitalistico e l’interesse dei lavoratori salariati, secondo una concezione distopica piccolo-borghese e un mito reazionario dell’oscurantismo cattolico antimoderno. Nella Carta del lavoro (1927) è esposto tale programma socio-economico volto alla soppressione per decreto della lotta di classe, da sostituire con le pre-borghesi corporazioni che dovrebbero riunire imprenditori e lavoratori di ogni settore, in nome del bene comune del paese. Tuttavia, la presunta collaborazione fra le classi su base paritaria si rivela del tutto illusoria o meglio un mito volto a occultare, con una rivoluzione senza rivoluzione, un sistema in cui il conflitto sociale è portato avanti in modo unilaterale dal padronato, mentre lo Stato fascista con alcune misure assistenzialistiche, che ne favoriscono l’egemonia sui subalterni, garantisce anche la pace sociale da parte di questi ultimi. Tanto più che, con la distruzione delle libertà sindacali e delle organizzazioni autonome operaie, portata a compimento nel 1926 con il divieto di sciopero e lo scioglimento dei sindacati, il fascismo garantisce la completa libertà di sfruttamento ai gruppi del grande capitale finanziario, industriale e agrario.

Ancora una volta si dimostra idealistica la pretesa che lo Stato, in una società capitalista, possa dirigere la società civile; in effetti è ancora essenzialmente quest’ultima a strumentalizzare ai propri fini il nuovo assetto statuale. È la classe dominante a servirsi del fascismo sino a che è funzionale a garantire livelli alti di profitto, mediante la pace sociale imposta ai subalterni, salvo poi scaricarlo nel momento in cui non si dimostrerà più utile a tale scopo. Così, ad esempio, la più importante iniziativa politico-economica del regime, la bonifica integrale dei territori paludosi, ha risultati positivi nell’agro romano, ma fallisce in altre regioni in cui, per potersi realizzare, dovrebbe mette in discussione gli interessi dei latifondisti assenteisti, che continuano a essere tutelati e protetti da uno Stato che, nonostante si proclamasse rivoluzionario, rimaneva lo Stato dei ricchi possidenti.

07/09/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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