“La verità sopra un ente condiziona la verità sopra altri enti. Un ente si fa reale solo quando appare nel suo vincolo con altri, e si fa tanto più reale quanto più lo sono gli enti che si relazionano con quello. La verità non si può mai esprimere in una proposizione. La verità di ogni proposizione dipende dalla sua conformità a scopi” [1]
La crisi del dramma moderno ha le proprie origini nel passaggio dal teatro dell’ancien régime, dotato ancora di un ruolo sociale ben definito, al teatro “borghese”, in cui la progressiva perdita della funzione sociale del dramma aveva aperto la possibilità, gravida di nuovi sviluppi, ma allo stesso tempo estremamente pericolosa, di fare della rappresentazione scenica uno scopo a sé. Il teatro, rompendo del tutto i ponti con le sue origini rituali e perdendo i solidi legami con una universale visione del mondo, rischiava di veder drasticamente ridotte le sue funzioni e ambizioni. In primo luogo, era messa a repentaglio la sua valenza pedagogica, la sua capacità di mediare ai propri spettatori elementi conoscitivi ed etici. In secondo luogo, si era venuta a creare una crescente lacerazione e scissione fra la scena e il suo pubblico, che tendeva ad assumere un atteggiamento sempre più passivo di fronte a una rappresentazione che aveva perso progressivamente ogni contatto con la vita activa. In terzo luogo, si era sviluppata una profonda opposizione fra testo drammatico e azione scenica, tanto che un rafforzamento del primo sembrava mettere a repentaglio necessariamente la riuscita della seconda.
A queste tendenze della drammaturgia moderna aveva reagito il naturalismo che, nel tentativo di restituire all’arte il suo perduto influsso sociale, aveva creduto di poter eliminare del tutto lo scarto tra mondo empirico e opera letteraria, riducendo le peculiarità referenziali dell’arte a quelle degli enunciati scientifici. Questo movimento, autolimitandosi in molti casi a una pedissequa descrizione della realtà empirica, aveva finito con il paralizzare elementi indispensabili all’opera, quali “la fantasia, la tensione al gioco ed il propriamente poetico”, e non aveva permesso al dramma di adempiere a uno dei compiti fondamentali dell’arte: quello di consentire una maggiormente elevata comprensione della realtà storica.
La reazione alla drammaturgia naturalista e, più in generale, al positivismo aveva portato a una lunga polemica contro l’intromissione di elementi intellettualistici nell’opera d’arte. Sul piano scenico, di fronte al radicalizzarsi della frattura tra scena e platea, testimoniata dalla cosiddetta “quarta parete”, che avrebbe dovuto dare l’illusione di un’azione scenica senza pubblico, diversi registi erano stati costretti ad aumentare il lato suggestivo della rappresentazione per permettere una maggiore partecipazione dello spettatore. Ciò aveva portato, in molti casi, a imporre al pubblico delle emozioni tramite l’immedesimazione con le dramatis personae, non consentendogli di filtrarle in quell’apparato di controllo costituito dalla ragione.
A questa tendenza “culinaria” dell’arte moderna, molti registi e drammaturghi della Repubblica di Weimar avevano reagito con una radicale politicizzazione delle loro opere. Anche Bertolt Brecht, aveva partecipato a questa tendenza, passando dalla polemica contro l’opera “culinaria”, condotta attraverso il rivolgimento parodistico dei suoi effetti, a una fase ascetico-distruttiva in cui, rifiutando ogni caratterizzazione psicologica ed ogni vitalità biologica, aveva dato vita a un teatro programmaticamente didattico.
Brecht, però, aveva ben presto preso le distanze dalla tendenza a considerare le opere d’arte unicamente nel loro aspetto politico-conoscitivo, senza curarsi del loro lato poetico-artistico. Accontentarsi di lavori che non esercitavano nessun genere di attrazione artistica significava, infatti, comprometterne anche la valenza politica e sociale, poiché il loro effetto didattico non poteva essere profondo.
Tuttavia, lo sforzo di ripristinare la funzione pedagogica del teatro e il tentativo di metterne in luce le affinità con il campo teorico delle scienze erano costatate a Brecht moltissime critiche. Diversi interpreti avevano considerato la fase didattica dell’opera brechtiana un extraestetico indottrinamento, non avendo preso in considerazione il suo aspetto di ricerca sperimentale – per la multiforme gamma linguistica che la strutturava – volta a un disvelamento artistico del reale.
Questi attacchi molto spesso si estesero a una critica complessiva della produzione brechtiana, che veniva accusata di aver intellettualisticamente accentuato l’elemento didattico a completo discapito del piacere estetico. La radicale critica brechtiana all’immedesimazione, che si era spinta in alcuni scritti ad ingiustificate generalizzazioni teoriche [2], aveva portato a considerare l’intero teatro di Brecht come puramente intellettuale e del tutto privo di sentimento. Ciò indusse lo Stückeschreiber a ritornare più volte sulla relazione che doveva intercorrere tra divertimento e insegnamento nel dramma.
L’arte drammatica, infatti, deve poter occupare quel punto archimedico in cui vengono a convergere la tendenza all’insegnamento e quella al puro godimento estetico. In caso contrario si produrrebbe un’astratta e artificiosa separazione tra il bisogno avvertito dallo spettatore di divertirsi e quello di apprendere dalle rappresentazioni sceniche. Perciò, secondo Brecht non bisogna confondere l’importanza che hanno gli elementi legati ai sensi per raggiungere la totalità di senso dell’opera con la sensualità che esalta il mezzo nei confronti del fine, cui doveva essere sottoposto. Allo stesso modo, solo una passione che sia in grado di sostenere l’esame dell’intelletto possiede, infatti, forza e profondità sufficienti. Il godimento estetico, allora, non può più esser fatto coincidere con la semplice “distrazione”, altrimenti l’elemento pedagogico perderebbe del tutto la sua funzione.
D’altra parte, “l’assoluta chiarezza, come la completa conformità a regole distruggono il piacere nel contemplare”. L’aspetto conoscitivo, per poter essere introdotto nell’ambito estetico, “deve essere del tutto trasformato in poesia” [3]. L’esperienza estetica deve, certo, agire sia nell’anticipazione utopica, sia nel riconoscimento retrospettivo che, completando il mondo incompiuto, progetta l’esperienza futura e custodisce l’esperienza passata, ma deve mantenere come scopo precipuo e supremo quello di divertire. I due momenti, quindi, non devono formare più un rigido schema oppositivo, ma una vivente, sempre di nuovo mediata unità, in cui essi sono pensabili solo in stretta connessione l’uno con l’altro: il piacere consiste nell’imparare e la possibilità di apprendere assicura il godimento estetico.
L’opera d’arte per Brecht, per adempiere al proprio compito di mostrare esemplarmente il reincontrarsi al suo interno di arte e scienza, di produzione e gioco, non poteva più essere semplice decoro, ma doveva aspirare a farsi strumento e a rappresentare sensibilmente l’autocomprensione e l’automanifestazione dell’uomo.
La nostra ipotesi interpretativa della concezione brechtiana dell’arte mira, dunque, a mettere in evidenza quelli che ci sembrano essere i due aspetti fondamentali che l’hanno da sempre caratterizzata: il lato espressionistico, demoniaco, “romantico”, e quello lineare, “scientifico”, “classico”. Questa commistione di “apollineo” e “dionisiaco” ci sembra, infatti, il tratto maggiormente in grado di caratterizzare l’intera opera di questo autore, e non solo, come troppo spesso si è scritto, la sua fase più matura. Una tale interpretazione dovrebbe consentirci di azzardare un’ipotesi di soluzione all’annosa questione della tradizione culturale a cui dovrebbe essere ricondotta l’opera brechtiana. Il “Wesensgrund” della sua produzione artistica potrebbe, infatti, venire indicato nella “viva” dialettica in essa presente, tra la tradizione dei classici e una tradizione anticlassica, ironico-popolaresca, che fa proprio della stilizzazione satiricheggiante della tradizione classica il suo elemento di forza. Il nostro compito consisterà, allora, nell’illustrare la complessità e la disomogeneità della riflessione brechtiana sull’arte moderna, considerandola come luogo d’incontro di una tradizione legata a una concezione classica dell’arte avente i suoi referenti principali in Aristotele, Hegel e Goethe e una concezione che ha le sue origini nel romanticismo di Friedrich Schlegel e di Hölderlin e che giunge a Brecht attraverso Nietzsche, il giovane Lukács e Benjamin. Una concezione, cioè, che considera la possibilità stessa di un’opera d’arte moderna indissociabile dal momento della differenza, della rottura, dell’ironia.
Così, pur criticando l’immediata e ingenua fusione tra elemento artistico e intellettivo, la possibilità di una fondazione scientifica della mimesis artistica era un problema che continuava a stare particolarmente a cuore a Brecht. Come ricorda Walter Benjamin, ancora negli anni dell’esilio di Svendborg, la preoccupazione principale di Brecht nei confronti della sua attività di scrittore riguardava “l’elemento artistico e ludico dell’arte, ma soprattutto quei momenti che sono talvolta e in parte refrattari all’intelletto” [4]. Benjamin era, inoltre testimone, degli “sforzi eroici compiuti da Brecht per legittimare l’arte nei confronti dell’intelletto” [5]. Era, quindi, indispensabile distinguere radicalmente la concezione brechtiana del valore didattico e conoscitivo dell’opera da quella del naturalismo e dello “pseudorealismo” di stampo positivista, dominante anche tra diversi autori socialisti.
Brecht era consapevole che il tentativo dei naturalisti aveva messo in crisi la peculiarità stessa della denotazione artistica. La possibilità che aveva la struttura dell’opera di illustrare un mondo era, infatti, imprescindibilmente legata ad una sospensione distanziante, che impedisse la referenza immediata del discorso descrittivo. Solo attraverso l’artificiosità di questa ricostruzione lo stato abituale delle cose poteva esser recepito dal pubblico come qualcosa di problematico e di migliorabile; solo attraverso uno sguardo esterno lo spettatore sarebbe stato in grado di ricomprendere il milieu in cui vive e da cui è inevitabilmente condizionato.
Alla base della drammaturgia didattica era la constatazione che una nuova forma del teatro aveva bisogno, per affermarsi, di una radicale trasformazione delle finalità dell’arte e, nello specifico, della funzione del teatro nell’epoca moderna. L’autore drammatico, secondo Brecht, è dipendente da uno stadio di sviluppo della tecnica che ha trasformato essenzialmente la struttura percettiva sia di colui che recepisce l’opera sia del produttore. Anche in questo caso si trattava, allora, di reagire a quella funzione “culinaria” cui era ridotta l’opera nella società consumistica. Ora, se con L’opera da tre soldi e Mahagonny Brecht avevano cercato di rompere dall’interno l’opera “borghese”, i drammi didattici avrebbero dovuto costituire i primi sperimentali esempi di una forma non riproduttiva dell’arte.
Note:
[1] Brecht, B., Grosse kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K. Delef-Müller, Aufbau Verlag, Berlin und Weimar, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989-1998, vol. 21, p. 428.
[2] Cfr., per esempio, Id., Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a. M. 1967, vol. 16, p. 618 e seguenti.
[3] Id., Schriften zum Theater. Über eine nichtaristotheliche Dramatik, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1957, p. 70.
[4] Benjamin, W., Avanguardia e rivoluzione, tr.it. di A. Marietti, Einaudi, Torino 1973, p. 226.
[5] Ibidem.