“Il genio politico consiste proprio in questo, nella capacità di un individuo d’identificarsi con un principio; forte di tale alleanza, costui deve riportare necessariamente la vittoria.” [1]
Dagli scritti e dalle testimonianze in nostro possesso degli anni di Stoccarda traspare la salda convinzione del giovane Hegel di vivere in un’epoca caratterizzata dall’illuminismo, un’epoca di generale rischiaramento delle coscienze. La consapevolezza che il progresso dell’umanità prodotto dall’illuminismo è limitato ad aree geografiche ben determinate non fa altro che rafforzare la concezione non tragica del mondo del giovane Hegel. Si consideri, per esempio, questo brano del Frammento di un discorso di commiato dal ginnasio, in cui in maniera retorica ma sincera, il giovane contrappone l’occidente illuminato all’oriente dispotico: “tanta influenza ha dunque l’educazione sul benessere generale di uno Stato! E come evidenti noi vediamo in questa nazione le spaventose conseguenze della sua trascuratezza! Se da un lato consideriamo le normali capacità dei turchi, e dall’altro la rozzezza del loro carattere e ciò che essi producono nelle scienze, riconosceremo per contrasto la nostra grande felicità e ci riterremo fortunati del fatto che la provvidenza ci abbia fatto nascere in uno stato il cui principe, convinto dell’importanza dell’educazione e dell’universale e diffusa utilità delle scienze, fa dell’una e dell’altra oggetto privilegiato della sua attenzione.” [2]
L’umanità, dunque, almeno nella sua parte più avanzata, sembra al giovane Hegel essersi finalmente liberata dalle tenebre del passato, da ogni soggezione della ragione nei confronti della tradizione, da ogni sorta di superstizione o trascendenza che contrasti con i saldi principi dell’intelletto. Un qualche elemento tragico è riscontrabile unicamente nelle considerazioni rivolte alle masse dei diseredati o alle altre regioni del globo, ancora preda della superstizione e di una concezione del mondo che si esprime nelle credenze religiose in cui la ritualità esteriore prevale sulla fede naturale, una religione non ancora purificata sulla base di principi razionali. Per quanto riguarda lo sconforto del giovane Hegel per la superstizione ancora dominante nelle classi inferiori e persino in alcuni settori delle classi dirigenti, si può leggere la pagina del Diario che descrive la credenza popolare nell’esercito del Wotan. [3]
Per quanto riguarda il mondo greco in generale, volendo tornare alla descrizione che ce ne offre il primo biografo di Hegel Rosenkranz, occorre considerare che l’educazione ricevuta dal giovane si caratterizza per lo “studio sull’antichità classica” che, a detta del biografo, “formava la quintessenza dell’insegnamento del Ginnasio”. [4] Il diligente studio dei classici antichi non può essere considerato unicamente un tratto peculiare del giovane Hegel; esso costituisce una caratteristica dell’indirizzo culturale generale e, più in particolare, del gusto di stampo illuminista dominante nel Realgymnasium dove ha studiato a Stoccarda, che prediligeva lo studio dei classici anche rispetto alle opere contemporanee.
Con ciò non si intende negare l’interesse del giovane per il mondo antico; Hegel legge e traduce con piena adesione i classici greci e latini ed entra ben presto in contatto con opere dell’antichità, che svolgeranno un ruolo fondamentale nella sua concezione del tragico. In questi anni Hegel legge – nelle rispettive lingue originali: ebraico, greco e latino – fa estratti e talvolta traduce: Esopo, il Nuovo testamento, De Senectute, Somnium Scipionis, Laelius de amicitia di Cicerone, le lettere ai tessalonicesi e ai romani, i salmi, Tacito, Epitetto, Tucidide, Sul sublime di Longino, Euripide, Platone, l’Etica Nicomachea di Aristotele, Edipo a Colono di Sofocle ecc. Per quanto riguarda la scuola frequentata da Hegel, scrive Lacorte: “il Ginnasio rimase – come pur doveva essere secondo la sua propria destinazione – una scuola che curava principalmente la formazione umanistica e religiosa dei suoi allievi, e continuò ad assolvere il suo compito conservando al centro dell’insegnamento lo studio delle antichità classiche (molte lezioni vi si tenevano ancora sempre in latino), della retorica e della religione, fiancheggiandolo e completandolo con la matematica e la fisica. In secondo piano veniva l’insegnamento della storia, della scienza naturale, della geografia, e delle lingue francese e italiana”. [5] Ci è testimoniata la lettura dei tragici greci – in particolare le opere di Sofocle e l’Antigone – e di alcuni dialoghi platonici, in cui l’interesse è rivolto in maniera specifica alla “tragedia” di Socrate, interpretata nell’ottica del Fedone di Mendelssohn. È dunque documentata, sin dalla biografia di Rosenkranz, una precoce e appassionata lettura delle tragedie di Sofocle, tra le quali il giovane Hegel sembra già allora prediligere l’Antigone: “continuò la lettura di Sofocle ininterrottamente per alcuni anni. Lo tradusse anche in tedesco e cercò più tardi, verosimilmente dopo aver conosciuto Hölderlin, di rendere metricamente non solo il dialogo, ma anche i cori, cosa che non gli riuscì particolarmente bene. Come mostrano le traduzioni ancora esistenti, si occupò ampiamente dell’Antigone, che rappresentava per lui più compiutamente di ogni altra cosa la bellezza e la profondità dello spirito greco. L’entusiasmo per la bellezza e la grazia del pathos etico di questa tragedia rimase immutabile per tutta la vita”. [6] E ancora: “passò molti mesi fino alla guarigione definitiva nella casa paterna occupandosi, oltre che dei diletti tragici greci, principalmente di botanica”. Rosenkranz si spinge fino a sostenere che “l’intensità stessa con cui, fin dalla fine del ginnasio, accoglieva in sé l’essenza della grecità, e in particolare la poesia di Sofocle, creava già in lui un antidoto attivo contro tutto quel che dall’iniziale sensatezza andava trasformandosi nell’illuminismo in qualcosa di freddo, di intellettualistico e di arido”. [7]
Naturalmente è prematuro aspettarsi da questo primo confronto piuttosto serrato con i classici dell’antichità una rottura, un dubbio radicale nei confronti della tradizione culturale in cui il giovane Hegel si viene formando. Inizialmente Hegel tende a non fare alcuna distinzione tra la cultura romana e la greca. Come osserva Janicaud – uno dei più importanti studiosi del rapporto tra Hegel e il mondo antico – “lo spirito greco non tocca il giovane Hegel che attraverso tutta una tradizione interpretativa e di commentari fondata sullo spirito dell’illuminismo. Da qui il carattere allo stesso tempo razionalista, prosaico e morale di questo insegnamento”. [8] Eppure, nonostante il mondo antico sia considerato ancora con un certo distacco, con la sicumera di chi si sente comunque figlio di un’epoca storica superiore, in più di un’occasione il giovane Hegel ci appare colpito dal livello raggiunto dalla religione e ancora di più dall’arte e dalla lingua nell’antichità, soprattutto se confrontate con le enormi sacche di oscurantismo e superstizione presenti nella sua epoca. Certo non si tratta di una contraddizione cosciente; il giovane Hegel non sembra ancora in grado di mettere radicalmente in dubbio la visione lineare del corso storico che gli è stata tramandata e pare risolvere la contraddizione contrapponendo gli uomini di cultura di entrambe le epoche al resto della popolazione, incapace di elevarsi al rischiaramento dei lumi. Tuttavia, le notazioni del giovane non scadono mai nel disprezzo aristocratico per le masse popolari e, in alcuni passi di questi scritti, Hegel giunge a porsi il problema di un ampliamento dell’illuminismo in grado di raggiungere anche gli strati sociali più umili.
Le considerazioni qui anticipate possono essere verificate nell’analisi delle due esercitazioni scolastiche più ampie e di maggior rilievo che ci restano del diligente ginnasiale, cui si può aggiungere, per la completa consonanza dei temi trattati, la prima composizione svolta a Tubinga. Dalla lettura di Sulla religione dei greci e dei romani (agosto 1787) emergono importanti elementi della formazione illuminista cui si accennava, destinati a giocare un ruolo importante anche negli sviluppi successivi della sua riflessione sulla religione. Dal punto di vista della positività storica, l’origine della religione è individuata nel senso di smarrimento e paura dei popoli primitivi, ancora immersi in una condizione naturale in cui – “questi uomini senza illuminamento”, ma dotati “di una vivida fantasia” [9] – dovevano fare esperienza di ogni cosa “soltanto attraverso rappresentazioni sensibili”. [10] Come chiarisce Hegel: “nella loro fanciullezza, nello stato di natura, essi hanno pensato alla divinità come ad un essere onnipotente che governa a proprio arbitrio gli uomini e le cose tutte”. [11] Questa concezione della religione è, dunque, ricondotta alla situazione storica dei popoli in cui tali credenze sono sorte: il dispotismo delle classi dominanti, che sfruttano a loro vantaggio l’ingenuo terrore delle masse. Nota Hegel: “le loro rappresentazioni della divinità se le sono formate a partire dal dominare, che bene conoscevano, dei capofamiglia o dei prìncipi, che governavano a loro totale discrezione sulla vita e sulla morte dei loro sudditi, che essi seguivano ciecamente in tutto, anche negli ordini ingiusti e disumani: i loro dèi vanno in collera, si comportano avventatamente e potrebbero anche pentirsi di qualcosa”. [12]
La stessa morfologia delle divinità è strutturalmente legata alle compagini di dominio esistenti e alla forma statutaria, rituale che assumono a opera della casta sacerdotale. Forte è la presenza di un altro caposaldo della polemica antireligiosa dell’illuminismo, la denuncia del clero: “ora i più accorti ed astuti tra gli uomini, che erano stati scelti per il servizio divino, osservarono tutte queste inclinazioni; videro che da niente i popoli si lasciano guidare tanto volentieri quanto dalla religione; e da niente potendo trarre tanto vantaggio, soddisfare i loro desideri e passioni o anche lavorare per il bene comune più che dall’utilizzazione di questa docilità, rafforzarono quegli impulsi, incatenarono la fantasia, e le dettero occupazione ed alimento in una determinata direzione per mezzo di opportune e numerose cerimonie sensibili. Contro ogni attacco della ragione essi si premunirono col legare la religione a tutte le loro azioni e in tal modo col santificarle. Sottrassero in parte le immagini degli dèi allo sguardo dei più e al concorso della folla, e con tale mistero dettero ad esse una maggiore dignità e nobiltà, alla fantasia un più libero gioco”. [13] Solo grazie al progressivo affermarsi della ragione si perviene a una concezione purificata della religione, che si esprime nella fede in un ente supremo, destinato a restare l’inconoscibile garante dell’ordine morale del mondo. Hegel, a questo proposito, osserva come già i saggi dell’antica Grecia insegnassero come la divinità avesse “stabilito la natura delle cose in modo tale che con la saggezza e la bontà morale può essere conseguita una vera felicità”. [14] Da qui deriva la polemica antiteologica del giovane Hegel, in nome di una concezione della religione ridotta alla pura morale: “su questi princìpi in generale concordarono [ovvero i principi della divinità come garante della moralità]; solo nelle loro speculazioni sulla natura originaria della divinità e su altre cose incomprensibili dall’uomo essi hanno escogitato naturalmente sistemi assai diversi”. [15]
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Scritti storici e politici, tr. it. di G. Bonacina, a cura di D. Losurdo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 81.
[2] Cfr., Id., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 97.
[3] Cfr., Ivi, pp. 35-36.
[4] Rosenkranz, K., La vita di Hegel [1844], Firenze 1964, p. 32.
[5] Lacorte, C., Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, pp. 63-64.
[6] Rosenkranz, K., La vita…, op. cit., p. 33.
[7] Ivi, p. 60.
[8] Janicaud, D., Hegel et le destin de la Grèce, Paris, Vrin 1975, p. 28.
[9] Hegel, G.W.F., Scritti giovanili…, op. cit., p. 89.
[10] Ivi, p. 87.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, pp. 89-90.
[14] Ivi, p. 91.
[15] Ibidem.