In un’epoca in cui non solo è andata perduta ogni possibile immanenza del senso, ma in cui appare sospetta ogni rappresentazione che presuma di ricostruire l’immanente totalità della vita, all’opera resta secondo Bertolt Brecht l’ingrato, ma irrinunciabile compito di far nascere nei suoi ricettori l’aspirazione al senso e alla totalità. Se la forma, per la sua stessa essenza, tende necessariamente a restituire una qualche composizione delle dissonanze che tormentano e mettono in movimento il reale, se all’interno dell’opera anche l’irrazionale dev’essere in qualche modo recuperato divenendo la condizione di possibilità stessa del senso, l’opera non deve, però, rinunciare al suo carattere di incompletezza e problematicità. Ne va dell’idea stessa di una continua perfettibilità del reale [1].
In un mondo che, con la rinuncia a ogni sanzione sovratemporale e sovrumana del senso, ha finito per smarrire la sua stessa essenzialità, il carattere di obiettività con cui l’opera si oppone a questo smarrimento non può limitarsi a ratificare, pavidamente, l’incapacità dell’uomo a penetrare fino in fondo la realtà. Proprio su questa impossibilità di raggiungere un’immediata visione del senso delle cose, di cui ha preso irreversibilmente coscienza l’uomo moderno, deve fondarsi, infatti, il valore imprescindibile che assume nell’opera il potere catartico dell’ironia [2]. L’ironia diviene, allora, il solo strumento di cui può ancora disporre la necessariamente limitata soggettività creatrice nel suo sforzo interminabile di tracciare dei confini a ciò che per essenza è illimitato, di dar forma all’informe, a ciò che rifugge da ogni forma e che, una volta catturato, di nuovo sfugge o si lascia morire pur di non vivere in cattività.
Questo paradossale compito, di cui si fa carico l’ironia, trascorre immediatamente nel suo contrario. Non appena l’ironia traccia un netto confine tra il carattere finito dell’individuo, condannato a trovare ciononostante un qualche senso, e un mondo a lui incommensurabile, insensato e inessenziale, pone al tempo stesso le condizioni per un suo superamento. Di fronte a un individuo gettato in un mondo a lui estraneo e inabitabile, l’ironia suscita in lui una dilacerante nostalgia per la patria perduta e una snervante quanto inebriante speranza di una patria a venire. Una speranza che non appena è suscitata è dilazionata, è riposta in dubbio nella sua infondatezza, eppure resta l’unica possibilità di redenzione per un’umanità destinata altrimenti a soccombere in un mondo abbandonato dal senso. L’ironia resta, così, l’unico punto di appoggio su cui può ancora fare affidamento la ricerca di dare un qualche senso, nell’orizzonte veritativo istituito dall’opera, a un mondo che ne è progressivamente e inarrestabilmente privato [3].
Lo scetticismo, che caratterizza così profondamente la riflessione di Brecht, deve, quindi, essere considerato uno scetticismo “forte” [4]. Questa forza del dubbio, infatti, non è altro che la forza dell’ironia su cui si fonda la tensione dell’opera brechtiana degli ultimi anni a una nuova ingenuità, che deve poter sorgere dal nichilismo più profondo senza pretendere però di poter rinnegare la propria origine. Un’ingenuità che non significhi più ritorno all’indistinto, all’immediatezza della natura, ma che germogli su di un terreno preparato dalla critica e dalla riflessione “sentimentale”.
Il compito paradossale che Brecht lascia in eredità ai suoi posteri è, allora, l’esigenza etico-estetica della ricerca di un’opera capace di fissare in una rappresentazione esemplarmente dotata di senso un mondo che ne è privo, che è in una perpetua e inarrestabile trasformazione. Un’opera che aspiri a una classica immediatezza e ingenuità pur nella consapevolezza della sua infondatezza, in un’epoca in cui doveva apparire quantomeno utopica ogni immediata riproposizione dell’armoniosa totalità dell’opera classica, in cui la differenza si mostrava quanto mai restia a essere integrata e a farsi rappresentare da un qualsivoglia universale.
Quindi, la stessa tensione di Brecht a un nuovo dramma che superi le unilateralità del teatro epico non può essere intesa come l’estremo tentativo di restaurare l’aproblematico mondo dell’epica classica, un mondo che, come ricorda Lukács nella Teoria del romanzo, offra risposte prima ancora che vi possano sorgere le relative domande. Al contrario il distanziamento critico permesso dall’elemento epico deve essere potenziato, per essere così finalizzato al compito problematico di far emergere i nessi profondi che determinano la Obdachlosigkeit costitutiva del mondo moderno. Lo spaesamento consentito dalla presentazione nelle forme dell’epica di un mondo radicalmente estraneo all’orizzonte epico permette a Brecht di rompere l’apparenza di stabile e immediata evidenza del senso che caratterizza questo mondo alla sua superficie. È questo scarto a consentire allo spettatore di osservare con uno sguardo “altro” una realtà resa impenetrabile dalla sua naturale familiarità. Il pubblico è così rafforzato nel suo scetticismo ed è condotto a dubitare di ogni verità troppo evidente. Solo attraverso la presa di coscienza di trovarsi a vivere in un mondo in cui il senso non è più immediatamente dato, lo spettatore può essere indotto al compito infinito della ricerca di un senso provvisorio. Tale ricerca, priva di alcuna garanzia di successo, costituisce per Brecht l’unico modo per rendere abitabile la Obdachlosigkeit di questo mondo. Scopo dell’arte non è quindi fornire al pubblico soluzioni, ma metterlo nella condizione di ricercarle. Dove inizia la ricerca, là si compie l’opera.
Note:
[1] Nei primi anni Cinquanta, in una discussione con il critico Ernst Schumacher, Brecht ha osservato: “il teatro può cogliere i problemi di oggi solo in quanto siano i problemi della commedia. Tutti gli altri si sottraggono alla raffigurazione diretta. La commedia ammette soluzioni, la tragedia – nel caso che ancora si creda alla sua possibilità – no. La commedia rende possibile, anzi necessariamente determina la distanza e con ciò una chiara comprensione dei nessi” E. Schumacher, Er wird bleiben, in “Neue Deutsche Litteratur n.10”, Berlino 1956, ora in a cura di H. Witt, Erinnerungen an Brecht, Leipzig 1964, p. 22. Come ha osservato Paolo Chiarini, la necessità di una trattazione ironica della tragicità contemporanea accomuna Brecht sia a Thomas Mann che al Robert Musil de L’uomo senza qualità, e si potrebbe aggiungere anche a James Joyce. Anzi, in un certo senso fu proprio la situazione di crescente complessità e astrazione, ma anche di grottesca assurdità che caratterizzano la nostra epoca, a spingere questi autori a servirsi dell’ironia come mezzo critico espressivo per eccellenza.
[2] La mancanza di scopi dell’opera e la tragica leggerezza dionisiaca dell’artista divengono le uniche garanzie dell’obiettività della rappresentazione.
[3] Brecht riteneva che proprio la coscienza della tragica serietà della condizione dell’individuo moderno facesse dell’ironia, della parodia, dei presupposti indispensabili alla stessa attività poietica. La tarda produzione brechtiana è caratterizzata dal continuo intrecciarsi di una prospettiva ironico-giocosa, capace di rimettere in questione la prosaicità contemporanea, e di una comicità amara, di un risentito grottesco, volti a impedire ogni illusione in un qualche potere consolatorio dell’esperienza estetica.
[4] Simile al “pessimismo dei forti” che Friedrich Nietzsche opponeva al “pessimismo dei deboli” di Arthur Schopenhauer, o allo scetticismo antico che Georg Wilhelm Friedrich Hegel opponeva allo scetticismo moderno di Gottlob Ernst Schulze.