L’articolo trae spunto dal seminario “L’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalistica” tenuto da Domenico Laise per l’Università Popolare A. Gramsci nell’anno accademico 2018-2019 [1].
Molto probabilmente, il permanere nel tempo del dispotismo autocratico di fabbrica è dovuto al fatto che esso è stato acriticamente accettato e giustificato come il “prezzo necessario” che i lavoratori salariati sono tenuti a pagare per avere in cambio il progresso, il benessere collettivo, la produzione su larga scala e il consumo di massa. L'autocrazia è, cioè, il prezzo che i lavoratori devono pagare per avere in cambio le “delizie” promesse da tutte le forme di capitalismo [2].
Questo “compromesso” è, difatti, alla base del neocorporativismo che caratterizza i paradigmi di organizzazione del lavoro che si sono affermati nel corso del XX secolo, ovvero il taylorismo, il fordismo e, infine, il toyotismo. L'idea di base è questa: senza autocrazia non può esserci “disciplina del lavoro”, non può esserci crescita della produttività e, quindi, non può esserci progresso sociale. Senza il “terrore autocratico” delle “commissioni disciplinari”, come sostiene Taylor − e non solo lui − gli “operai, per loro natura”, sono portati a “battere la fiacca” (soldering). Senza l'occhio vigile e il pungolo del padrone o dei suoi dirigenti-tecnocrati, gli operai manifestano scarsa “disciplina” lavorativa e bassa produttività del lavoro.
Tuttavia, tale compromesso neocorporativo − che prevede “più disciplina” e più produttività, in cambio di più benessere per i lavoratori salariati − non ha basi teoriche convincenti. Difatti, il fine ultimo di ogni fabbrica capitalistica, − con proprietà privata e/o pubblica dei mezzi di produzione − non è il progresso e il benessere dei lavoratori salariati. Lo scopo principale di ogni fabbrica capitalistica è − come Marx spiega in tutte le sue opere − l'estrazione illimitata di plusvalore, vale a dire lo sfruttamento, oltre ogni limite, del lavoro umano.
Che cos'è, dunque, la fabbrica capitalistica nel pensiero di Marx? Quali sono le sue caratteristiche che si sono mantenute costanti dai tempi di Marx ad oggi? Per rispondere a questi quesiti conviene, innanzitutto, esaminare i riferimenti utilizzati da Marx per descrivere la natura del lavoro di fabbrica. I principali sono: Babbage [3], Ure [4] e soprattutto Engels [5].
Da Babbage Marx trae l'idea della fabbrica come “grande automa”, ovvero come sistema di macchine tendente alla massima automazione. Da Ure, che è chiamato da Marx “il Pindaro del Capitale”, Marx adotta l'idea della fabbrica come “grande automa e autocrate”. “All'Ure, dice Marx, piace rappresentare la macchina centrale, da cui parte il movimento [la macchina a vapore, ad esempio], non solo come automa ma come autocrate”. La macchina (grande automa) si trasforma in autocrate che detta le sue leggi all'operaio che è costretto a seguirle. Nella fabbrica l’uomo serve la macchina e non viceversa. “L'automa stesso è il soggetto e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti quali organi coscienti” [6].
Ma è da Engels che Marx trae le principali idee per rappresentare la fabbrica come autocrazia. La competenza di Engels è di gran lunga maggiore di quella di Babbage e di Ure, poiché deriva dalla esperienza diretta che egli ha avuto come manager e imprenditore. Per più di 20 anni fino al 1869, Engels è stato, com'è noto, manager e imprenditore della società Ermen&Engels, nella quale rappresentava gli interessi di famiglia [7]. Marx, seguendo Engels, osserva innanzitutto che tramite il “codice della fabbrica” (manuali del lavoro e dei processi, regolamenti di fabbrica, ecc.) “il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai [...] Alla frusta del sorvegliante di schiavi subentra il registro delle punizioni del sorvegliante (il Licurgo di fabbrica). Tutte le punizioni si risolvono in multe e ritenute sul salario” [8].
Poi, Marx − per chiarire meglio il concetto di fabbrica autocratica che egli adotta − in una lunga nota, lascia la parola ad Engels, che si esprime nei seguenti termini. “La schiavitù in cui la borghesia tiene incatenato il proletariato non si rivela in nessun luogo con la chiarezza che la distingue nel sistema di fabbrica. Ogni libertà vi cessa sia di diritto che di fatto [...] Qui il legislatore assoluto è il fabbricante. Egli emana i regolamenti di fabbrica a suo beneplacito; egli modifica e amplia il suo codice a piacere [...] e anche se vi inserisce le cose più pazzesche i tribunali dicono all'operaio: siccome vi siete sottomessi a questo contratto di vostra spontanea volontà, ora dovete anche osservarlo [...] Questi operai sono condannati dal nono anno di età fino alla loro morte, a vivere sotto questa frusta fisica e morale” [5].
D'altronde, non potrebbe essere altrimenti. L'autocrazia, nella fabbrica capitalistica , altro non è che lo strumento organizzativo necessario per l'uso “iniquo (non equo)” della forza-lavoro, venduta come merce. È nella fabbrica autocratica che ha origine lo sfruttamento del lavoro. È in essa che ha sede lo scontro di classe essenziale tra lavoratori e capitalisti per la formazione del plusvalore. La fabbrica è il laboratorio “segreto” del capitalista sulla cui porta è scritto “vietato l'ingresso ai non addetti al lavoro”. Senza autocrazia e dispotismo non può esserci sfruttamento capitalistico.
Utilizzando i concetti della teoria organizzativa, la fabbrica capitalistica autocratica, di cui parlano Engels e Marx, è, in senso tecnico, una “struttura relazionale gerarchica e dispotica” formata da tre insiemi di agenti e dalle relazioni che intercorrono tra tali insiemi di agenti. È, cioè, una rete sociale gerarchica e dispotica [9, 10].
All'apice della catena gerarchica si collocano i proprietari dei mezzi di produzione l'assemblea degli azionisti, nel caso di proprietà privata, e/o lo Stato, nel caso di parziale o totale proprietà pubblica. Ad un gradino più in basso, lungo la catena gerarchica (command chain), si collocano i dirigenti (manager, capireparto, capisquadra, ecc.). Nel caso di proprietà privata dei mezzi di produzione sono i dirigenti che sono nominati dai proprietari dei mezzi di produzione e comandano su loro “delega”. Nel caso di una società per azioni (Spa), ad esempio, l'assemblea degli azionisti nomina il Consiglio di Amministrazione e l'Amministratore Delegato, che governano dispoticamente per conto degli azionisti. Se si esclude il caso di piccole fabbriche nelle quali il proprietario è anche manager (coincidenza tra proprietà e gestione) i manager sono degli esperti-tecnocrati stipendiati dai proprietari dei mezzi di produzione. All'ultimo gradino si colloca il Nucleo Operativo (i lavoratori salariati), che è il destinatario finale dei comandi provenienti dalla Dirigenza.
La caratteristica fondamentale di una fabbrica autocratica è la sua natura dispotica: i lavoratori non hanno la possibilità di assumere e/o licenziare i loro dirigenti. Come afferma Marx, nella fabbrica capitalistica “La direzione è dispotica… allo stesso modo di un esercito ha bisogno di ufficiali superiori (managers) e sottufficiali (foremen) i quali comandano in nome del capitale” [11]. Anche quando i lavoratori partecipano alle decisioni che riguardano le scelte della dirigenza della fabbrica (come nel caso della presunta “democrazia industriale” della Mitbestimmung tedesca) il loro peso è sempre minoritario: non c'è pariteticità. Prevalgono sempre le scelte dei proprietari dei mezzi di produzione. Si dice, infatti, che tra capitalisti e lavoratori c'è solo una “quasi pariteticità”.
Nelle fabbriche giapponesi il problema della “democrazia industriale” si pone nei seguenti termini. In alcuni casi, il management si limita ad informare il sindacato sulle decisioni che prende. Questo avviene per le scelte strategiche, i risultati d'impresa e i programmi di produzione fondamentali. In altri casi, il management e il sindacato cercano di raggiungere un accordo, ma se ciò non avviene, il management porta avanti le politiche in questione anche senza il consenso dei sindacati [12]. Questa pratica delle Relazioni Industriali giapponesi si spiega con la necessità di isolare i “dipendenti comunisti, che non sono dipendenti nel vero senso della parola, ma agenti esterni che tendono a distruggere l'impresa con pretese eccessive sulle condizioni di lavoro” [13].
Può essere di qualche interesse osservare che la proprietà statale dei mezzi di produzione non elimina, di necessità, la natura autocratica della fabbrica. Infatti, se la fabbrica è finalizzata al profitto, permane al suo interno una gerarchia autocratica, che è un elemento imprescindibile dall’estrazione del plusvalore. La proprietà statale della fabbrica non trasforma, cioè, l'autocrazia in una gerarchia non dispotica (gerarchia democratica).
In questo articolo non entreremo nel merito delle peculiari esperienze, storicamente determinate, di capitalismo di Stato borghese. Analizzeremo brevemente, invece, alcuni elementi del “capitalismo di Stato” proletario realizzatosi in Russia e poi in Unione Sovietica con la Nuova Politica Economica (Novaja, Economiceskaja Politika o NEP), tra il 1921 e il 1929. Ovvero, esamineremo brevemente “la ritirata strategica” effettuata dalla dirigenza sovietica dopo “la grave sconfitta” economica provocata dal comunismo di guerra per avanzare verso il socialismo. In sostanza un passo indietro per accumulare forze per fare nuovi passi in avanti.
Nella NEP le fabbriche dello Stato sovietico vengono date in concessione ai capitalisti privati. Il concedente, nel contratto di concessione, è lo Stato sovietico (proprietario della fabbrica) mentre il concessionario è un capitalista privato, il cui fine è il profitto. Si ha quindi uno scambio del tipo: lo Stato concede al capitalista privato l'uso autocratico della fabbrica e in cambio ottiene dal capitalista privato lo sviluppo delle forze produttive della fabbrica (ad esempio, innovazioni tecnologiche) e aumento della quantità di beni di consumo per i lavoratori.
Lenin descrive i termini dello scambio nel seguente modo. “Il concessionario è un capitalista. Egli fa gli affari da capitalista per avere dei profitti: egli accetta di concludere un contratto con il potere sovietico per ottenere un profitto eccezionale [...] Il potere sovietico ne trae vantaggio: le forze produttive si sviluppano, la quantità dei prodotti aumenta immediatamente o nel termine più breve" [14]. A questo proposito, Lenin osserva: “Non dobbiamo aver paura di riconoscere che [...] si può e si deve ancora imparare molto dal capitalista [...] Questo è il tributo, il prezzo che abbiamo pagato per la lezione impartitaci. Non rincresce pagare una lezione, purché la lezione sia proficua” [14].
Lenin considera quattro forme di capitalismo dello Stato proletario: 1) le concessioni ai grandi capitalisti stranieri; 2) il capitalismo cooperativistico (libertà di vendita e commercio delle derrate che restano dopo il pagamento dell'imposta in natura); 3) il capitalismo commerciale (lo Stato assume il capitalista in qualità di commerciante); 4) concessioni ai piccoli capitalisti di nazionalità russa. Lenin chiarisce il significato della NEP nel seguente modo: “NEP significa [...] passare in misura notevole alla restaurazione del capitalismo” [14].
Questa strategia riabiliterà il potere del capitalismo? Lenin non esclude che l'esperimento avviato con il capitalismo dello Stato proletario possa concludersi con la vittoria dei capitalisti. “Il problema è tutto qui: chi arriverà prima? Riusciranno i capitalisti a organizzarsi per primi? In questo caso cacceranno i comunisti e questo sarà la fine del tutto. [...] Oppure il potere statale proletario, appoggiandosi ai contadini, dimostrerà di essere capace di tenere ben ferme le redini al collo dei signori capitalisti, per guidare il capitalismo lungo la via tracciata dallo Stato e creare un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio” [15].
Sul concetto di "capitalismo dello Stato" nell'accezione di Lenin si è sviluppato un vasto dibattito, che per ovvi motivi non può essere considerato in questo articolo dedicato all'analisi organizzativa del lavoro di fabbrica nel pensiero di Marx. Si rinvia perciò il lettore interessato ai lavori riportati in bibliografia [16, 17]. Qui il tema del capitalismo di Stato proletario è stato appena accennato solo per evidenziare il fatto che la natura autocratica della fabbrica può permanere anche nel caso di proprietà statale dei mezzi di produzione.
Note
[1] Il materiale didattico del seminario è scaricabile qui.
[2] Leavitt, H. J., (2005), Top-Down, perché le gerarchie sono necessarie e come renderle migliori, Etas, Milano.
[3] Babbage, C., (1832), Sull'economia delle macchine e delle manifatture, Torino, Utet.
[4] Ure, A. (1935), Filosofia delle manifatture,Torino, Utet.
[5] Engels (1845), F., La condizione della classe operaia in Inghilterra, Ed. Riuniti, Roma
[6] Marx, K. (1973), Il Capitale Libro I (Vol.2), p.125, Editori Riuniti, Roma.
[7] Hunt, T. (2010), La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, ISBN Editore, Milano.
[8] Marx, K. (1973), op.cit. p.131.
[9] Laise, D.(2007), Economia delle organizzazioni, McGraw-Hill, Milano.
[10] Laise, D.(2015), La natura dell'impresa capitalistica, Egea, Milano.
[11] Marx, K. (1973), op.cit, p.29.
[12] Masami, N.(1988), Organizzazione e attività dei sindacati aziendali giapponesi. Uno studio di caso sull'industria automobilistica. In (a cura di M. La Rosa) Il modello giapponese, p.58, F. Angeli, Milano.
[13] Masami, N.(1988), op. cit, p.62.
[14] Lenin, V. (1921), Sull'imposta in natura, in: Opere Complete, Ed. Riuniti, Roma, Vol. 32, 1967, pp.309-344.
[15] Lenin, V. (1921), La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica, in: Opere Complete, Ed. Riuniti, Roma, Vol. 33, 1967, pp.46-65.
[16] Giacchè, V. (2017), Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin, Materialismo storico, Rivista di filosofia, storia e scienze umane. N.2, 2017.
[17] Caputo, R. (2019), Lenin: capitalismo di Stato, socialismo e Comunismo, La Città Futura, 26/1/2019.