Alcuni interessanti film distribuiti nelle sale italiane nel mese di aprile confermano un’annata decisamente più importante delle precedenti così povere di opere significative. E dal momento che anche l’inverno più lungo eterno non è, ciò lascia sperare in una ripresa dello spirito critico che consenta di mettere in questione il pensiero unico dominante.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Truman - Un vero amico è per sempre di Cesc Gay, Spagna, valutazione: 8
Un film molto raffinato, pienamente godibile dal punto di vista estetico e che lascia non poco da riflettere allo spettatore. Si tratta di una pellicola che pur non seguendo i ritmi da fast food, imposti dall’industria hollywoodiana degli stupefacenti, non annoia come troppo cinema autoriale europeo, che parla solo a una ristretta cerchia di snob cinefili. Al contrario, la misura slow del film non è funzionale tanto ad ammirarsi e a farsi ammirare la lingua, ma a una riflessione molto profonda e toccante sulla nostra esistenza, a partire dalla indispensabile presa di coscienza della sua radicale finitezza.
È proprio tale tragica consapevolezza a farci uscire dalla tenebra dell’immediato, dall’eterno presente del quotidiano, per recuperare una dimensione più profonda della vita. Quest’ultima ci permette anche di superare l’egoismo e l’individualismo, benissimo rappresentati dall’impresario teatrale, unicamente preoccupato di un possibile calo dei profitti, tanto da licenziare su due piedi il suo principale attore, che ha sfruttato per una vita, perché malato di cancro. In realtà, però, il vero essere per il cadavere è proprio lui, in quanto non potrà mai superare la paura della morte, unico orizzonte di una esistenza così individualisticamente egoista.
Al contrario, il messaggio profondamente epicureo del film è che anche in un’epoca come la nostra caratterizzata da un impressionante individualismo – ben rappresentato dal figlio che vede nel padre malato terminale solo una intollerabile perdita di tempo – sia possibile superare la paura della morte, l’ipocondria dell’impolitico, aprendosi alla solidarietà con gli altri, alla riscoperta dei legami etici della famiglia, al significato dell’amicizia senza dover cercare rifugio nel fondamentalismo religioso.
Il limite principale del film è lo stesso della filosofia epicurea su cui si fonda, ossia una soluzione ricercata essenzialmente nell’atarassia e nell’aponia che considera ormai definitivamente perduta la dimensione collettiva e universale del politico. In tal modo resta preclusa la possibilità di superare l’essere per la morte dell’individuo nella dimensione collettiva dell’impegno, dal momento che si considera, anche se non in modo del tutto consapevole, definitivamente persa la possibilità stessa di un rilancio della democrazia di contro alle tendenze autoritarie e neo oligarchiche fondate sul pensiero unico dominante.
Per il bel film Al di là delle montagne di Jia Zhang-Ke, Cina, valutazione: 8, dal 5 maggio finalmente distribuito anche nelle sale italiane, rinviamo alla nostra recensione: "Le montagne si possono spostare". Le contraddizioni dello sviluppo cinese
The Dressmaker - Il diavolo è tornato di Jocelyn Moorhouse, Australia, valutazione: 7,5
Film interessante, duro e realistico sul pesantissimo classismo dei piccoli centri di provincia, particolarmente accentuato nelle aree rurali di una colonia come l’Australia edificata sullo sterminio degli autoctoni e sul razzismo. L’ipocrita etica calvinista in essi dominante tende a criminalizzare e a porre ai margini della comunità i più poveri e deboli, facendone dei veri e propri capri espiatori dei mali della società. Tale pesante emarginazione sociale colpisce in modo particolare le donne, soprattutto se non sono accasate e poste sotto il controllo dell’uomo.
Il film si avvale di una splendida Kate Winslet che interpreta al meglio la protagonista (Tilly), che ha fatto tesoro delle ingiustizie subite ed è ora pronta a fare i conti con il proprio passato, per portare a compimento il proprio riscatto sociale. Se da una parte quest’ultimo passa attraverso l’orizzonte cosmopolita che la propria tragica esperienza ha consentito a Tilly di acquisire, non si tratta soltanto di un riscatto individuale fondato sulla logica del self-made man, per cui si fa sfoggio del proprio successo personale per rivendicare il diritto di entrare a far parte della cerchia degli eletti. Anzi, la contraddizione e il conflitto con i notabili resta per la protagonista un vero e proprio dover essere, in cui la coscienza di classe si lega al desiderio di rivalsa personale, che passa anche attraverso un’operazione analitica volta a far riemergere il rimosso, che è individuale, ma al contempo sociale e politico. È la logica calvinista che trova il proprio organico sviluppo nel darwinismo sociale che anche gli oppressi hanno finito per introiettare, in quanto subalterni ed egemonizzati da chi li sfrutta e opprime. Da questo punto di vista il film indaga il nesso fra la struttura sociale, che determina le sorti degli individui, soprattutto all’interno di una società apertamente classista, e l’essenziale processo di sviluppo della coscienza di classe, che porta la protagonista a sviluppare rapporti di solidarietà con gli altri umiliati e offesi, per potersi rifare sui notabili.
Sono, tuttavia, ben presenti nel film i tipici limiti della cultura dominante anglosassone, a cominciare dall’immancabile individualismo che non consente di sviluppare la solidarietà di classe al di là della sfera familiare. Vi è poi una rappresentazione del conflitto sociale astratta dai rapporti di produzione, che rende impossibile un reale superamento dialettico delle contraddizioni sociali. Non si riesce così a uscire realmente dalla logica del beau geste di sapore luddista e nichilista, anche perché si tende a identificare il soggetto sociale potenzialmente sovversivo nel sottoproletariato e nell’artista, nel creativo e non nel proletariato, destinato ancora una volta a essere il reale convitato di pietra. Quest’ultimo rimane escluso anche da un film come questo che mira a risarcire gli esclusi, in quanto rappresenta per gli intellettuali tradizionali un vero e proprio tabù, poiché costituisce l’unico elemento sociale in grado di mettere radicalmente in questione l’intero sistema capitalistico e non un suo singolo aspetto particolarmente negativo, come l’orizzonte provinciale e piccolo borghese. Come se tali meccanismi di esclusione non fossero presenti, sebbene in misura diversa e meno appariscente, nelle metropoli cosmopolite dei paesi imperialisti, in cui la protagonista cerca di nuovo una via di fuga da un passato che non passa.
Mistress America di Noah Baumbach, Usa, valutazione: 6,5
Si tratta certamente di un’opera gradevole e divertente, acuta e raffinata, frizzante e imprevedibile, con personaggi piuttosto complessi. Tuttavia, il film non decolla e alla fine lascia un certo amaro in bocca nello spettatore. La trama per quanto ben congegnata risulta troppo poco sostanziale. Il mondo grande e terribile con tutte le sue contraddizioni resta quasi del tutto al di fuori della vicenda, confinata a problematiche esistenzialistiche. I personaggi, per quanto simpatici e a tratti interessanti sono essenzialmente naturalistici e non realistici, ovvero non rappresentano dei tipi sociali significativi.
Ciò è dovuto al punto di vista da cui viene condotta questa critica, tanto graffiante quanto bonaria all’uomo comune statunitense, che è quello della protagonista alter ego della regista, che incarna il punto di vista dello scrittore, dell’intellettuale che più che vivere osserva dall’esterno la vita dell’uomo comune, in modo sentimentalmente partecipe, ma intellettualmente distaccato. In tal modo il proprio differenziarsi dalla massa la porta all’isolamento, alla difficoltà nello stabilire delle relazioni sociali significative con persone tanto prigioniere della tenebra dell’immediato.
D’altra parte anche il mondo elitario degli intellettuali, al quale tanto aveva aspirato a prender parte, sostanzialmente la disgusta per il suo snobistico e altezzoso distacco dalla vita reale, dagli uomini comuni, certo più semplici, ma anche pieni di una adesione immediata alla vita, che l’intellettuale finisce con il considerare al contempo con ammirazione e con implacabile spirito critico, con l’ironia propria della soggettività romantica che finisce per apparire crudele ed essenzialmente parassitaria nei confronti della vita dell’uomo comune. Le illusioni di quest’ultimo, che sono per altro indispensabili al perpetuarsi di una vita ingenua e ostaggio dell’immediatezza, non possono che essere cinicamente dissolte dallo sguardo scettico e dissacrante dell’intellettuale, che al contempo non può che ammirare la purezza sempliciotta dell’americano comune, che ancora riesci a illudersi di poter realizzare quel sogno americano, che all’intellettuale appare ormai come la dolce e illusoria credenza infantile nell’esistenza di babbo natale. Un mito della spensierata ma perduta infanzia, che non possiamo che considerare con nostalgia e rimpianto, anche se siamo ormai consapevoli che non potremo più tornare a viverlo, ad aderirvi fideisticamente. Mancando però all’intellettuale tradizionale statunitense la dimensione dell’impegno politico e sociale, che gli appare una terra del tutto straniera, estranea alla sua dimensione individualistica e, in fondo, aristocratica, non resta che l’elegia dinanzi alla irrecuperabile perdita dell’adesione, per quanto illusoria, all’American dream.
Codice 999 di John Hillcoat, Usa, valutazione: 6,5
Film d’azione molto violento, indubbiamente ben confezionato e piuttosto avvincente. Sebbene si tratti di un tipico film di genere e di un prodotto di intrattenimento risulta al quanto originale. Contrariamente alla campagna ideologica antirussa, filosionista e volta a esaltare esercito e forze dell’ordine costituito statunitensi, nel film i terribili malviventi sono costituiti da ex membri ultra-corrotti delle forze speciali e della polizia, di agenti in servizio, guidati dalla moglie di un mafioso russo sionista. Quest’ultima non solo ha ottimi rapporti con lo Stato di Israele, infatti mira a far consegnare a questo Stato il capo mafia detenuto dai russi, non solo è la mente che tiene in pugno una banda di malavitosi statunitensi tutte legate agli apparati di sicurezza, ma ha la copertura dei piani alti degli stessi agenti federali e risulta intoccabile, mentre il marito è in carcere in Russia. Le terribili azioni malavitose, realizzate da settori deviati degli apparati di sicurezza hanno come fine di far liberare e di far consegnare a Israele un magnate mafioso russo sionista, avversario di Putin e da questo fatto incarcerare.
Il film appare molto realista nel mostrare la totale spietatezza di questi criminali, formatisi e coperti dalle forze di sicurezza statunitensi che dovrebbero difendere in patria e all’estero i valori della democrazia americana. Gli stessi killer delle bande criminali centro-americane vengono assoldate da poliziotti corrotti per portare a termine operazioni volte a far liberare pericolosissimi capi banda mafiosi russi sioniste, fatti invece arrestare dal governo russo.
Il limite principale del film, che ne fa nonostante gli elementi critici e contro corrente, un prodotto dell’industria culturale hollywoodiana, è che il cinismo e la spietatezza che accomuna malavitosi e tutori dell’ordine corrotti è così generalizzata da essere quasi naturalizzata. È l’intera società ad apparire corrotta e in questo quadro oscuro in cui non si apre nessuna prospettiva di cambiamento, totalmente priva di spirito utopistico e dello stesso principio speranza, in cui domina incontrastata la tenebra del quotidiano, il ruolo degli eroi finisce per essere occupato dai tutori dell’ordine statunitensi non corrotti. Anzi la loro violenza e il loro agire al di là dei protocolli viene decisamente giustificato dalla necessità di combattere un nemico disumanizzato, rappresentante del puro crimine, del male assoluto e da una classe dirigente essenzialmente incapace di agire e corrotta.