Il sogno americano rappresentato in questa commedia con sottile e graffiante ironia dal regista Bogdanovich rivela, ancora una volta, la capacità egemonica degli Stati Uniti che si possono permettere di lasciare diritto di tribuna alla propria opposizione sul piano culturale tanto è solida la loro maggioranza, un’opposizione di sua maestà certo, che non può che solidificare l’egemonia a stelle e strisce.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Centocinquanta minuti esilaranti sul sogno americano, pieni di riferimenti ai grandi classici del cinema, sono quelli che ci regala il regista statunitense e indiscusso cinefilo Peter Bogdnovich nella sua ultima divertentissima commedia. Tutto può accadere a Broadway (She's Funny That Way).
Una starlette del cinema racconta in una lunga intervista la sua scalata al successo. La narrazione è esplicitamente soggettiva e ciò la rende più interessante di una piatta e noiosa cronaca storica. Così Isabella "Izzy" Patterson, in arte Glo, giovane e povera ragazza di Brooklin si trasfigura, nel suo racconto soggettivo, in una “musa”, quando dalle immagini si evince facilmente che la musa è in realtà una ragazza squillo che aspetta la sua grande occasione per affermarsi come attrice.
Izzy impersona in forma parodistica e in modo auto-satirico il sogno americano. Per rappresentarlo in modo credibile e utilitarista questa giovane e “ingenua” ultra-opportunista deve pensare positivamente, tanto da credere ai miracoli. Il suo riferimento colto è la Holly di Colazione da Tiffany, raffinata cocotte interpretata dalla inimitabile Audrey Hepburn.
Il pensare positivo del mito americano viene nel film presentato con sottile e graffiante ironia, così diversamente da Inside out dove il mantra era la gioia a tutti i costi e l’immedesimazione dello spettatore con il sogno americano, qui si favorisce invece lo sguardo critico che permette l’effetto straniamento. La Gioia di Inside out appare in She’s funny that way nella versione cinica e sofisticata di una musa-squillo e ci fa riflettere innanzitutto sul prezzo da pagare che il sogno americano comporta, soprattutto nella fase dell’accumulazione originaria, ossia della dura gavetta in cui ogni mezzo è lecito per affermarsi ai danni della concorrenza.
L’egemonia culturale dell’industria cinematografica statunitense appare inossidabile dal momento che riesce al contempo a essere la tesi (Inside out) e l’antitesi (She’s funny that way), il sogno americano e la sua amorevole parodia, una maggioranza solida, ma che lascia diritto di tribuna alla propria opposizione, un’opposizione di sua maestà, che non può che solidificare l’egemonia a stelle e strisce.
L’industria cinematografica statunitense risulta così in grado di egemonizzare l’immaginario collettivo non solo a livello commerciale di massa, con blockbuster di ottima qualità come Inside out, ma di fornirne altresì la versione sofisticata, per intellettuali, per “europei”. In tal modo riesce a tenere insieme, nello stesso orizzonte del sogno americano, della sua “religione”, ossia del suo modo di comprendersi e rappresentarsi sia le masse popolari che gli intellettuali.
Da questo punto di vista il cinema americano appare notevolmente superiore rispetto a quello europeo, non solo nei suoi prodotti di intrattenimento, ma anche nei suoi prodotti più raffinati rivolti ad un pubblico colto, dei “capolavori” rispetto alle opere troppo spesso insostenibili dei nostri intellettuali ex di sinistra.
Il segreto del suo successo dipende dal fatto che la forma diciamo così “popolare” non è astrattamente contrapposta a quella “intellettuale”, come avviene ad esempio in Italia, dove vengono prodotte pellicole pesantissime e noiosissime, film per il pubblico colto e film di intrattenimento volgarissimi per la massa, ma riesce a trovare il giusto mezzo, riuscendo a far ridere, a intrattenere e al contempo a far riflettere.
L’eticità calvinista originaria della cultura americana continua ad agire ancora oggi e a far sì che anche film di intrattenimento, leggeri riescano a divertire senza essere volgari senza colpire lo spettatore sotto la cintola, non rivolgendosi solo ai suoi istinti, ma anche al suo cervello.
Si pensi all’abisso che separa queste commedie sofisticate o anche opere di puro intrattenimento come Inside out, dagli attuali epigoni della commedia all’italiana, rappresentata dai cinepanettoni natalizi. Nei film americani la morale, la ragione non è mai del tutto sacrificata per mirare agli istinti più bassi della plebe. I vizi e gli atteggiamenti immorali sono presi in giro, c’è quel distacco ironico che consente allo spettatore l’attitudine riflessiva e la catarsi mediante l’effetto di straniamento. Mentre nelle commediole all’italiana si ricerca una totale immedesimazione dello spettatore con la volgarità dei personaggi. Perciò le commedie sofisticate americane, per quanto leggere e godibili esteticamente, non sono mai becere, grevi come le nostrane. Quel minimo di eticità ancora presente nell’industria cinematografica americana è del resto del tutto assente nella stracciona industria italiana, dove si va avanti unicamente per raccomandazioni a discapito della stessa produttività. Proprio perciò la nostra industria non è in grado di competere con quella statunitense.
Bogdanovich, ad esempio, in questa sua ultima commedia, riesce a parlare con delicatezza, ironia e senza l’attitudine paternalista da nipotino di padre Bresciani di una giovane squillo di periferia. Il regista americano rivisita ottimamente la grande tradizione di commedie sofisticate americane da Ernst Lubitsch fino a Woody Allen, senza dimenticare Colazione da Tiffany di Blake Edwards. Il film del resto è godibile esteticamente, sia perché è ben girato, sia perché vi sono ottimi interpreti, fra i quali spicca una divertentissima Jennifer Aniston. Rispetto ai loro equivalenti europei, ad esempio la commediola Non è il mio tipo, film come questo ne rappresentano certamente la bella copia, anche perché meno scontati e decisamente più realistici.
Il paragone tra l’industria cinematografica statunitense e quella italiana è importante per poter considerare con sguardo distanziato e critico la pericolosa deriva antisociale ed etica del nostro paese. Se registi americani come Bogdanovich hanno l’intelligenza di prendere il meglio della produzione italiana, e più in generale europea, nel caso specifico i magnifici costumi realizzati dai grandi stilisti italiani, al contrario gli italiani tendono troppo spesso a fare propri gli aspetti peggiori della società americana. Ne risulta in tal modo una loro riproposizione farsesca, alla Alberto Sordi, che indubbiamente ci meritiamo. Pensiamo al modello Obama che appare decisamente più raffinato, più “europeo” della sua caricatura all’italiana, che in modo goffo e grottesco lo scimmiotta.
In tal modo rappresentando ai più alti livelli tanto l’ideologia dominante quanto la sua benevola critica ironica, gli Stati Uniti mantengono salda la loro egemonia. Rappresentando il governo e al contempo la sua opposizione non lasciano spazio ai loro avversari e concorrenti, che neanche sembrano sforzarsi più di tanto per toglierglielo. Abbiamo parlato dei deboli e subalterni concorrenti europei, ma anche se volgiamo lo sguardo agli avversari reali, ai paesi che coraggiosamente ostacolano lo strapotere dell’imperialismo statunitense come Iran, Venezuela e Cina dobbiamo riconoscere che purtroppo non sono ancora in grado di contrastare l’egemonia a stelle e strisce. Anche perché talvolta anche i registi di questi paesi (si pensi a l’iraniano Panahi, al venezuelano Vigas recente vincitore a Venezia, o a Zhang Ymou) non fanno altro che produrre opere subalterne al modello dominante. Così registi cresciuti e formati a spese dello Stato finiscono troppo spesso anche in questi paesi per rappresentare un’alternativa inefficace, in quanto subalterna all’industria culturale statunitense.