Valerio Evangelisti, Gli anni del coltello, Mondadori, Milano 2021, voto: 8,5; ancora un grande e appassionante romanzo storico narrato nel modo più realistico dal più significativo scrittore italiano vivente. Tolto il protagonista della vicenda, tutti gli altri personaggi del romanzo sono storici e, quindi, gli eventi narrati sono in massima parte eventi realmente accaduti. Evangelisti con quest’opera porta a compimento il suo dittico sul Risorgimento, inaugurato l’anno scorso con 1849. I guerrieri della libertà, in cui affrontava le epiche lotte a difesa del momento più avanzato di quest’epoca storica, ovvero la tragica e gloriosa parabola della Repubblica romana, in cui per la prima volta le donne conquistarono i pieni diritti politici e di cittadinanza. Questa seconda parte del dittico risorgimentale affronta un’epoca storica decisamente più oscura, ovvero gli anni della restaurazione dopo la sostanziale sconfitta del grande processo rivoluzionario del 1848-1849. Quella di Evangelisti è al solito un’esemplare controstoria, narrata dalla parte del lato oscuro, dei vinti, degli oppressi, dei rivoluzionari. In tal modo, in questa prospettiva straniante, il lettore è portato a riflettere criticamente e in modo dialettico su questa grande tragedia storica, su quella vera e propria rivoluzione mancata che fu il Risorgimento. Una lezione storica di grandissima attualità in quanto mostra i veri tragici protagonisti del risorgimento i quali, per consentire al proprio paese di liberarsi da una secolare dominazione straniera, hanno dovuto porsi, necessariamente, contro la legge costituita e, in maniera ancora più drammatica, si sono visti costretti a esercitare quella violenza seconda quasi sempre inevitabile in tutti i grandi passaggi storici, in quanto consente di resistere alla violenza prima utilizzata a difesa dei grandi, ingiusti e irrazionali privilegi delle classi dominanti, che hanno dalla loro parte tutti gli apparati dello Stato e con essi il monopolio della violenza legalizzata. Quest’ultima è una violenza terroristica e al solito indiscriminata che travolge chiunque possa anche solo potenzialmente mettere in questione l’ordine costituito, ormai antistorico e irrazionale.
Evangelisti – per quanto meritoriamente e necessariamente partigiano dalla parte di chi si batte per l’emancipazione del genere umano – non manca di sottolineare nel modo più realistico anche i limiti storici dei rivoluzionari del tempo e attraverso una indispensabile autocritica lascia emergere i motivi che impedirono la realizzazione della rivoluzione risorgimentale.
La prima grande e tragica contraddizione, che emerge da questo grandioso affresco storico, è la condizione del proletariato urbano, sempre in prima linea in ogni momento di guerra di movimento del Risorgimento, ma ancora incapace di portare avanti una lotta autonoma, dal proprio punto di vista e rivolta a soddisfare i suoi reali bisogni. Pur essendo già, quantomeno potenzialmente, la reale classe universale – ovvero l’unico gruppo sociale che, liberando se stesso, libererà l’intera società – al proletariato urbano italiano, ancora nella primissima fase del suo sviluppo, mancano necessariamente la capacità di produrre nel proprio seno degli intellettuali organici. In tal modo anche le avanguardie del proletariato continuano, volenti o nolenti, con l’essere egemonizzate da intellettuali piccoli borghesi, il cui rappresentante più emblematico è, senza dubbio, Giuseppe Mazzini.
Emerge così la classica sproporzione fra gli obiettivi riformisti e generalmente utopistici degli intellettuali piccolo borghesi e i mezzi estremi e avventuristi impiegati per attuarli. Gli obiettivi sono decisamente troppo bassi per raggiungere i risultati sperati, non osando mettere in discussione la sacralità della proprietà privata agli occhi della borghesia. Così, per preservare l’interclassismo del movimento indipendentista, non si prendono in considerazione quelle questioni di classe che sole stanno veramente a cuore a quelle masse popolari, le sole che possano praticare l’auspicata insurrezione rivoluzionaria.
Quasi a voler occultare la mancanza di radicalità negli obiettivi, si dà libero sfogo ai mezzi più estremi per “praticarli”. Persino il terrorismo individuale e la vendetta divengono degli strumenti ritenuti necessari per raggiungere degli obiettivi che la concezione interclassista rende utopistici.
L’eccezione e la regola di Bertolt Brecht al Teatro Basilica di Roma, regia di Walter Pagliaro, voto: 8+; nonostante il regista resti sostanzialmente estraneo alle intenzioni dell’autore e non ne condivida affatto la visione del mondo che intende mediare, il dramma didattico del 1930, messo meritoriamente in scena, mantiene tutta la sua attualità. Alla base dell’opera vi è il rovesciamento caratteristico della società capitalista, in cui tutto appare capovolto. Il gesto umano e solidale fra due uomini diviene una inverosimile eccezione dinanzi alla regola che, nel caso specifico, contrappone sfruttatore e sfruttato. Perciò il padrone, come farà l’altrettanto classista tribunale che lo assolverà, non può che considerare un gesto minaccioso l’offerta da parte del portatore, da lui sfruttato, di una borraccia in un deserto, quando entrambi i personaggi rischiano di morire di sete. Il padrone è ben consapevole della crudele lotta di classe che porta avanti nei confronti dei suoi lavoratori e, quindi, naturalizzando questo aspetto, ritiene che anche l’oppresso non potrà che sfruttare la prima occasione utile per portare a termine la sua vendetta sociale. Tanto più che si trovano momentaneamente in un luogo deserto, in cui il padrone non ha dalla sua parte, come di consueto, il potere repressivo dello Stato quale strumento decisivo della lotta di classe.
D’altra parte, non appena tornano dal luogo selvaggio nella “civiltà” e in un “palazzo di giustizia”, riemerge immediatamente la natura di classe del diritto e, ancora di più, della sua applicazione. Nonostante le prove schiaccianti dell’assassinio del padrone a spese del suo lavoratore salariato, il giudice considera legittima difesa l’aggressione preventiva da parte dei ricco mercante, non essendo comprensibile in un mondo dominato dal più bieco individualismo utilitarista, il gesto solidarista dell’oppresso nei confronti del suo oppressore. Gesto che, in realtà, è dettato dalla consapevolezza da parte dello sfruttato della natura di classe della “giustizia” borghese.
Tutto lo spettacolo ha una ben precisa attitudine didattica, ovvero intende insegnare allo spettatore come deve comportarsi a teatro e, più in generale, nella vita. In altri termini il regista vuole che lo spettatore non deleghi la sua coscienza mediante l’immedesimazione con i personaggi del dramma, ma mantenga uno sguardo vigile e critico. Peraltro l’effetto di straniamento è favorito non solo dalle disposizione sceniche del drammaturgo, volte a ricordare costantemente al pubblico che si trova in una rappresentazione teatrale, ma anche dalla messa in scena. In effetti, facendo di necessità virtù, avendo a disposizione attrici donne – a ulteriore dimostrazione di come oggi anche l’arte, tolti i ruoli apicali, sia divenuta appannaggio quasi esclusivo del gentil sesso – il regista le impiega per rappresentare i ruoli quasi esclusivamente maschili del dramma.
Tutto ciò favorisce la comprensione del profondo spirito dialettico del dramma, che rappresenta in modo realistico la paradossalità della società capitalista in cui un gesto umano e solidale, in un contesto classista necessariamente dominato dal conflitto sociale, non può che essere interpretato e giudicato come il suo opposto.
Julian Assange: processo al giornalismo, reportage televisivo realizzato da PresaDiretta, voto: 8; per principio non guardiamo mai la televisione, principale mezzo di distrazione di massa e di indottrinamento dell’ideologia dominante e, di conseguenza, non recensiamo programmi televisivi. L’eccezione che conferma la regola è questa ottima e preziosa puntata di PresaDiretta in cui si denunciano, oltre al caso Assange, le guerre imperialiste, il servilismo del nostro Stato nei confronti dell’imperialismo statunitense, il gravissimo attacco persino ad alcuni capisaldi del liberalismo, come la libertà di stampa. Il coraggioso e molto accurato documentario non rappresenta, però, una reale cesura con l’ideologia dominante. Per sottolineare ciò, a scanso di equivoci, si sottolinea un apertura di trasmissione che i tragici eventi di cui si parlerà sono avvenuti nel civilissimo Regno Unito e non, come ci si potrebbe aspettare, nella dittatura bielorussa. Ora, al di là del fatto che il governo bielorusso è decisamente più legittimato a governare – anche dal punto di vista liberal-democratico – dei governi di tutti i paesi imperialisti, il Regno Unito non solo è una delle più aggressive potenze imperialiste, ma è la patria oltre che del liberismo, del neoliberismo. In tal modo si finisce per delegittimare da subito l’efficacissima denuncia della puntata, facendo apparire i tragici eventi doviziosamente documentati come l’eccezione, che confermerebbe la regola per cui i paesi imperialisti sarebbero i campioni internazionali della democrazia e dei diritti umani.
Strappare lungo i bordi, serie tv di Zerocalcare 1x6, disponibile su Netflix, voto: 7,5; Zerocalcare ha l’indubbio merito di far conoscere al grande pubblico un mondo destinato altrimenti a rimanere marginale, come quello dei centri sociali e della “sinistra antagonista”. Da qui il polverone alzato dalle classi dominanti che, al solito, temono che in tal modo si possano mettere in discussione i loro sempre più assurdi, irrazionali e ingiusti privilegi. Gli episodi hanno un ottimo ritmo, sono a tratti davvero esilaranti, colgono in modo realistico aspetti della vita apparentemente accidentali, assicurando un non trascurabile godimento estetico allo spettatore. Dall’altra parte non gli lasciano poi così tanto su cui riflettere e questo spiega anche il successo della serie. Certo, evidentemente, per uscire dal ghetto devi scendere a compromessi, ma resta sempre la questione sino a che punto il gioco possa valere la candela. D’altra parte vi è anche il dato di fatto non trascurabile che i settori della “sinistra antagonista” – che in qualche modo rappresenta – appaiono decisamente radicali nelle forme, ma hanno contenuti decisamente socialdemocratici. Da questo punto di vista, non avendo di per sé poi così tanto di sostanziale da comunicare, i compromessi cui è necessariamente dovuto scendere possono apparire, tutto sommato, accettabili.
La serie si svolge oscillando fra lo scadere, un po’ volgare, nel minimal qualunquismo e l’affrontare – in modo fenomenico e quasi accidentale – problemi reali e sostanziali come il precariato. Ma, anche in tal caso, senza una prospettiva – nemmeno utopistica – di superamento, che vada al di là dell'angusta ambizione alla sicurezza, peraltro più apparente che reale, del piccolo borghese.
Il penultimo episodio tende a svanire come un intermezzo comico, come un divertissement, prima della grande tragedia finale. Con quest’ultima la serie raggiunge il suo apice e sfiora la grande tragedia contemporanea della precarietà. Problematica sociale che resta, in definitiva, lo sfondo tragico dell’intera serie, che affronta la questione fino al gran finale nei toni di una commedia che riesce a essere nello stesso tempo sofisticata e folkloristica, nel senso positivo e gramsciano del termine.