The Loudest Voice – Sesso e potere è una miniserie televisiva americana in sette puntate del 2019, tratta dall'omonimo romanzo di Gabriel Sherman. È stata trasmessa su Sky Atlantic, voto: 9+. Si tratta di una molto efficace rappresentazione della nascita di Fox tv, il programma di notizie apertamente schierato a destra che ha spianato la strada al trumpismo. La rappresentazione sembra improntata al massimo realismo, anche se, riflettendoci sopra, il protagonista – non utilizzando l’interprete l’effetto di straniamento – pare un vero e proprio gigante del male, con il quale, nonostante tutto, lo spettatore è portato a identificarsi. Anche perché tutti gli altri personaggi appaiono dinanzi a lui delle figure di secondo piano, incapaci di tenere minimamente testa al protagonista, che fra tanti nani non può che apparire un gigante. Inoltre, la completa mancanza di un qualunque personaggio anche minimamente positivo indica la mancanza di prospettiva e la consueta assenza di un minimo di spirito dell’utopia e di principio speranza.
Il secondo episodio rappresenta, come avviene generalmente, un deciso arretramento rispetto all’episodio pilota, sul quale si impegnano molto più tempo e risorse. In particolare la prima parte della puntata dedicata agli attentati dell’11 settembre lascia davvero a desiderare. Del resto, si tratta di un momento davvero tabù della storia statunitense, sul quale nemmeno Oliver Stone è riuscito a introdurre un minimo di sguardo critico. Decisamente più interessante la seconda parte, in cui emerge la fabbrica del falso e di Fake news che, in diretta collaborazione con Dick Cheney, sfrutta gli attentati per l’aggressione imperialista all’Iraq, pur essendo tutti pienamente consapevoli che non solo non esisteva alcuna connessione fra Al Qaeda e Saddam Hussein, ma che non vi era nessuna traccia di armi di distruzione di massa in quel paese.
Con il terzo episodio la serie riprende quota, anche perché emerge così evidentemente la spaventosa malvagità del protagonista che diviene davvero difficile riuscire a impersonarsi con lui. Ciò che colpisce è come un personaggio del genere possa aver influito in maniera determinante sull’ideologia dominante. Qualche segnale giunge dalla situazione disperata e disperante della ex classe operaia statunitense che – dopo aver per anni potuto giovarsi, in quanto aristocrazia operaia, dei sovrapprofitti conquistati all’estero dall’imperialismo – ora in tempi di crisi non solo deve rinunziare ai suoi miserabili privilegi, ma spesso perde la possibilità stessa di farsi sfruttare per sopravvivere. Dinanzi a questa cieca disperazione riescono a fare breccia il populismo e la demagogia della destra più estrema, di contro all’ennesimo tradimento delle aspettativa popolari da parte dei politicanti sedicenti di sinistra.
Con il quarto episodio, la serie sale ancora più di livello e diviene una netta e coraggiosa denuncia di un canele televisivo e, in particolare, del suo principale dirigente, che hanno fatto di tutto per imbarbarire ulteriormente l’ideologia politica del paese. Il film mostra adeguatamente anche come le malefatte sul piano della scena pubblica abbiano poi serie conseguenze anche nella vita privata, ossia chi teorizza la superiorità della volontà di potenza sulla verità, tende a mettere in pratica tale principio anche nella vita quotidiana.
La quinta puntata cresce ancora nella denuncia delle malefatte dell’architetto della Fox News e della candidatura di Trump. Si intravede anche, finalmente, una prospettiva, nell’intrepido giornalista intento a scrivere un libro verità su questa televisione che ha contribuito a cambiare non solo l’ideologia dominante, ma a far emergere gli aspetti più irrazionali dei propri ceti sociali di riferimento. Resta il dubbio che, al solito, si tende a dare uno spazio troppo ampio all’individuo, senza considerare in nessun modo i motivi strutturali che vi sono dietro e che costituiscono il reale fondamento di quanto avviene.
Di grande interesse anche la sesta puntata, realizzata peraltro da un importante regista come Stephen Frears. Abbiamo finalmente una vittima che si ribella, che non diviene – in qualche modo – complice dal suo aguzzino. Finalmente appare la possibilità di un’alternativa, anche il potere apparentemente più ferreo può essere piegato. Certo c’è bisogno che qualcuno, coraggiosamente, dia il via, assumendosene stoicamente le conseguenze. Per quanto essenziale il coraggio del singolo non è però sufficiente a cambiare realmente le cose, vie sarà bisogno di un movimento di massa reale che, nel caso specifico, prenderà il nome di Me too.
Nell’ultima puntata, diretta anch’essa da un valido regista, si arriva alla resa dei conti finale, le dighe poste a difesa del predatore sessuale crollano nel momento che molte delle donne molestate e stuprate da decenni trovano il coraggio di denunciarlo. Questa reazione a catena sarà seguita, circa un anno più tardi, dal grande movimento; Me too. Sicuramente l’oppressione della donna ha subito una parziale battuta d’arresto, ma, d’altronde, se non si abbatte la sua causa reale – un sistema classista fondato sullo sfruttamento come il capitalismo – anche questa forma di oppressione, per quanto arcaica, non cesserà. Tanto più che Trump – nonostante si fosse da par suo schierato spudoratamente dalla parte del predatore sessuale – vincerà le elezioni e la Fox, divenuta sotto la direzione del predatore sessuale per 14 anni di fila la più importante rete di news cablata, ha mantenuto tale primato anche dopo lo scandalo. A ulteriore dimostrazione che se non si sconfiggeranno i modi di produzione classisti che si fondano sullo sfruttamento dell’uomo le lotte parziali di un certo settore vessato non potranno mai portare a una reale e definitiva emancipazione. Naturalmente, tutte queste considerazione conclusive non sono neanche sfiorate dalla serie.
Qui rido io di Mario Martone, drammatico, Italia 2021, distribuito da 01 Distribution, voto 7-; film certamente godibile e ben realizzato anche se privo colpevolmente di uno sfondo storico, politico e sociale che consenta di contestualizzare la vicenda. Per il resto narra la interessante e avvincente biografia di Scarpetta, un tema in sé privo di valore sostanziale. Per dare spessore al film il regista si concentra sulla contraddittoria poligamia del comico e sulla causa per plagio della sua parodia di un’opera di D’Annunzio. In quest’ultimo tema vi sono alcuni spunti significativi, critici verso D’Annunzio e un regime che impediva la parodia di un poeta decisamente vicino alle forze conservatrici e reazionarie sempre più forti in quegli anni in Italia.
Il collezionista di carte di Paul Schrader, Usa, Gran Bretagna e Cina 2021, valutazione 6,5; un film estremo, che testimonia la profondissima crisi che cova fra i subalterni negli Stati Uniti, ora che hanno dovuto rinunciare all’ideologia – funzionale ai privilegi dell’aristocrazia operaia – di giustificare le proprie aggressioni (imperialiste) all’estero, come necessarie a esportare libertà e democrazia. Riemergono allora i fantasmi del passato, ovvero le atrocità del dominio imperialista, dal Nicaragua, fino a Iraq e Afghanistan. Al solito a pagare sono solo i pesci piccoli, individuati come le poche mele marce che si devono sacrificare, per mantenere vendibile e appetibile tutto il resto. Bisogna dare atto al regista di aver messo il dito nella piaga, generalmente pudicamente occultata, delle terribili malefatte dell’imperialismo statunitense. Peccato che manchi una qualche prospettiva, se non il riconoscimento della giustizia della pena che le poche mele marce debbono pagare, mentre chi le addestrava e impartiva gli ordini se la gode, o almeno così pare.
Space Sweepers di Jo Sung-hee, azione, avventura e drammatico, Corea del sud 2021, voto: 6,5; disponibile su netflix, il film presenta il solito futuro catastrofico in cui, a causa della crisi climatica, la vita sulla terra è divenuta disperata. Si crea un mondo migliore su Marte per i soli ricchi, spacciati per i migliori, mentre gli altri sulla base del peggiore darwinismo sociale sono condannati a morte. Al solito abbiamo un futuro ancora più nero del presente e privo di speranza. D’altra parte vi sarà una reazione significativa di ecologisti radicalizzatisi e di altri proletari che si ribelleranno. Il primo aspetto, in quanto privo di prospettiva, è decisamente negativo, mentre il secondo è significativo. Peccato per il finale che sa un po’ troppo del solito lieto fine hollywoodiano, alquanto scontato.
Beckett di Ferdinando Cito Filomarino, azione, drammatico, thriller, Italia, Brasile, Grecia e Usa 2021, voto 6+; il regista cerca di realizzare un godibile B movie sullo sfondo di questioni sostanziali dal punto di vista politico e sociale, come la lotta del popolo greco contro l’austerità, le trame eversive della estrema destra, coperte, almeno sembra, da una parte consistente delle forze del disordine borghese e anche, a quanto pare, da membri dell’ambasciata americana. Alla fine sembra esserci troppa carne al fuoco, ci sono diversi spunti significativi che tendono però a perdersi, anche perché il film non ha il coraggio di portare fino in fondo la sua denuncia sociale e politica.
Come un gatto in tangenziale – Ritorno a Coccia di morto di Riccardo Milani, commedia, Italia 2021, voto 6+; al contrario del solito, la ripresa di un film di successo riesce a essere decisamente migliore dell’originale. Gli aspetti più gretti e quasi razzisti presenti nel primo restano sostanzialmente sullo sfondo del secondo, mentre si fanno passare messaggi progressisti, per un film di cassetta piuttosto avanzati. Resta il consueto problema della commedia moderna in cui la conciliazione è piuttosto scontata e la prospettiva che si apre appare poco realistica. Spicca, come già nel primo film, la grande perizia del montatore.
Falling – Storia di un padre di Viggo Mortensen, drammatico, Usa 2020, distribuito da Bim, voto: 4-; il film – pur offrendo una rappresentazione realistica del fascismo quotidiano americano, molto diffuso nell’elettorato repubblicano – è davvero troppo noioso, non avendo niente altro di significativo da comunicare. Peraltro le alternative offerte al fascismo sono le solite prospettive postmoderne, davvero inefficaci – con la loro rivendicazione della differenza in quanto tale – ad aprire una prospettiva di superamento al davvero intollerabile identitarismo tradizionalista.