Uno sviluppo economico, tutto incentrato sulla concentrazione capitalistica e monopolistica, non può che influenzare in modo sempre più diretto non solo la società civile, ma lo stesso Stato, in cui si afferma sempre di più una forma di dominio oligarchico da parte dei grandi azionisti del capitale finanziario. “Il capitale finanziario concentrato in poche mani e godendo un monopolio di fatto, ritrae redditi giganteschi e sempre maggiori da ogni fondazione di società, dall’emissione delle azioni, dai prestiti statali ecc., e consolida l’egemonia delle oligarchie finanziarie imponendo a tutta la società un tributo a favore dei detentori del monopolio” [1]. Che l’intera società sia divenuta tributaria nei confronti di un pugno di monopolisti, è anch’esso un dato di fatto più nei nostri giorni che in quelli in cui il saggio di Lenin è stato composto.
Il capitale finanziario non solo riassume in sé le forme prima separate di imprese capitalistiche, commerciali, monetarie e produttive, ma comporta anche la crescente capacità di egemonia dei grandi monopoli sui governi politici. “L’«unione personale» delle banche con l’industria è completata dall’«unione personale» di entrambe col governo” (74).
Il grande capitale monopolistico finanziario raggiunge un tal livello di sviluppo con il processo di concentrazione capitalistico da controllare in modo sempre più ampio la società, sia nel suo complesso sia nei suoi aspetti fondamentali. La res pubblica viene sempre più assoggettata al dominio privatistico del grande capitale monopolistico, che persino le diverse forme di costituzioni politiche divengono, di fatto, indifferenti, in quanto l’ambito economico della società civile prende sempre più il controllo dello Stato politico: “il monopolio, non appena creato, dispone di miliardi, penetra necessariamente tutti i campi della vita pubblica, indipendentemente dalla costituzione politica del paese e da altri consimili «particolari»” (93).
Anche sul piano internazionale lo sviluppo del grande capitale monopolistico finanziario porta a un crescente dominio di un numero ristretto di grandi paesi usurai che, grazie al meccanismo del debito, vivono sempre più alle spese dei paesi arretrati. Per cui, contrariamente a quanto si dà a intendere, non sono i paesi più ricchi a finanziare quelli più poveri ma, piuttosto, il contrario, grazie in particolare al pieno affermarsi del diabolico meccanismo del debito. “La cosa più frequente nella concessione dei crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegata nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito, specialmente di materiale da guerra” (102). Lo sfruttamento sempre più intenso cui il grande capitale finanziario assoggetta i suoi debitori, avviene in modo non solo assolutamente cinico, ma funzionale ad accrescere sempre di più il divario fra dominatori e dominati: “l’elevamento dell’esportazione è collegato precisamente alle manovre fraudolente del capitale finanziario, che si infischia della morale piccolo-borghese e scarnifica doppiamente la povera creatura, una volta mediante i profitti dei prestiti, e una seconda volta mediante i profitti degli stessi prestiti, quando questi vengono impiegati nell’acquisto di prodotti Krupp o di materiale ferroviario del sindacato dell’acciaio” (165).
La spartizione del mondo fra grandi paesi imperialisti non comporta in nessun modo una tendenza a diminuire la divisione del mondo, che al contrario si accentua sempre di più in barba alle illusioni dei revisionisti a proposito delle tendenze progressive del super-imperialismo: “i paesi esportatori di capitali si sono spartiti, per così dire il mondo, ma il capitale finanziario ha condotto anche a una divisione del mondo vera e propria” (104).
Lo sviluppo in senso imperialista del capitalismo impone, in qualche modo, la costituzione di alleanze contrapposte fra paesi in funzione della spartizione del mondo e del controllo economico di alcune aree: “l’età del più recente capitalismo ci dimostra come tra le leghe capitalistiche si formino determinati rapporti sul terreno della spartizione economica del mondo, e, di pari passo con tale fenomeno e in connessione con esso, si formino anche tra le leghe politiche, cioè gli Stati, determinati rapporti sul terreno della spartizione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della «lotta per il territorio economico»” (115). Nel momento in cui la spartizione del mondo in aree di influenza economica fra grandi potenze e fra alleanze tra paesi è stata portata a termine, ogni nuova espansione richiede un conflitto: “il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un «padrone» a un altro, ma non dallo stato di non occupazione a quello di appartenenza ad un «padrone»” (117).
Il processo di formazione dei monopoli prima sul piano nazionale e poi a livello di multinazionali procede con una rapidità impressionante, tanto più si sviluppa il capitalismo, il mercato mondiale e la crisi di sovrapproduzione. “Si vede con quanta rapidità si formi una fitta rete di canali che abbracciano tutto il paese, centralizzano tutti i capitali ed entrate in denaro e trasformano migliaia e migliaia di aziende economiche sparpagliate in un’unica azienda capitalistica nazionale e poi in un’azienda capitalistica mondiale” (64). Anche in questo caso Lenin più che fotografare la realtà del proprio tempo, quando questo processo era solo all’inizio, sembra descrivere gli assetti proprietari del nostro tempo, nel momento in cui un gruppo ristretto di multinazionali si spartisce il mercato mondiale. La tendenza che porta da tante piccole imprese in concorrenza all’affermazione di poche multinazionali non significa il venire meno della concorrenza, ma il suo riprodursi su scala allargata. “Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti” (130-31). D’altra parte, tale concorrenza fra colossi non toglie che la estrema riduzione del numero dei concorrenti non favorisca gli accordi fra grandi monopoli, il loro fare cartello per mantenere artificialmente i prezzi alti, superiori a quelli che sarebbero i prezzi su un libero mercato.
Del resto, più si accentua la crisi e più le grandi multinazionali si sono spartire il globo in aree di influenza, più divengono determinanti i rapporti di forza, dal momento che tutte le grandi imprese sono mosse dalla medesima volontà di potenza. In tal modo anche gli Stati sono sempre più direttamente coinvolti in questa lotta fra multinazionali per accrescere la propria area di influenza a livello internazionale. “In regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie, ecc. che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare, ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust” (168). Questa osservazione di Lenin è molto significativa e mostra come lo sviluppo in senso monopolistico del capitale non possa mai realizzare una situazione di coesistenza pacifica e di equilibrio, in quanto la concorrenza non può che modificare continuamente i rapporti di forza fra multinazionali e, dunque, la spartizione del mondo in aree di influenza viene sempre riposta in discussione dalla lotta continua fra contrapposte volontà di potenza.
Ciò dimostra come i sostenitori del super-imperialismo e dell’impero occultino, a vantaggio dell’imperialismo, la realtà, cercando di nascondere come tale sviluppo non solo acuisce le differenze sociali, ma tende inevitabilmente ad accrescere la conflittualità fra multinazionali che si combattono per interposti Stati. “Le chiacchiere di Kautsky sull’ultraimperialismo favoriscono, tra l’altro, una idea profondamente falsa e atta soltanto a portare acqua al mulino degli apologeti dell’imperialismo, cioè la concezione secondo cui il dominio del capitale finanziario attutirebbe le sperequazioni e le contraddizioni in seno all’economia mondiale, mentre, in realtà, le acuisce” (138).
Tanto più che tali concezioni kautskyane e negriane non fanno altro che illudere l’umanità che sia possibile una convivenza pacifica fra gli Stati sempre più soggiogati dalle grandi multinazionali, mentre tale sviluppo in senso imperialista del capitalismo non può che portare ad accentuare sempre più i conflitti. “Il senso obiettivo, vale a dire reale, sociale, della sua [di Kautsky] «teoria» è uno solo: consolare nel modo più reazionario le masse, con la speranza della possibilità di una pace permanente nel regime del capitalismo, sviando l’attenzione dagli antagonismi acuti e dagli acuti problemi di attualità e dirigendo l’attenzione sulle false prospettive di un qualsiasi sedicente nuovo e futuro «ultra-imperialismo»” (167). Le stesse alleanze fra potenze imperialiste, come ad esempio l’odierna Nato, celano la reale conflittualità fra i monopoli occidentali e gli Stati che aderiscono a tale alleanza, sebbene siano portati sempre più a confliggere dalle medesime dinamiche economiche. “Le alleanze «inter-imperialiste» o «ultra-imperialiste» non sono altro che un «momento di respiro» tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quelle di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale fra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste” (168-69).
Note:
[1] Lenin, Vladimir, Ilic, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Laboratorio politico, Napoli 1994, p. 88. D’ora in poi indicheremo direttamente nel testo, per i brani citati da quest’opera, il numero di pagina di questa edizione fra parentesi tonde.