Il film Oro verde - C'era una volta in Colombia di Cristina Gallego e Ciro Guerra mira a rappresentare, in modo realistico, come la spietatezza della società capitalistica finisca per travolgere una civiltà ancestrale, come quella delle popolazioni indigene della Colombia. Protagonista è un indios che è stato adottato da piccolo da una famiglia colombiana e che vorrebbe recuperare le proprie origini perdute sposando un’affascinante fanciulla nativa. La madre di quest’ultima, che nei fatti dirige il clan familiare, uno dei più rilevanti del suo popolo nativo, grazie alla sua abilità nel commerciare con i colombiani intuisce immediatamente la tragedia che un giovane cresciuto con valori moderni, ovvero fortemente influenzati dal capitalismo, potrebbe provocare in una civiltà ancora legata ad antichissime tradizioni animiste. D’altra parte, essendo anche ella almeno parzialmente influenzata dall’egemonia della società capitalista e dal classismo, comunque presente nella sua stessa antichissima civiltà, pretende una dote molto cospicua. In tal modo intenderebbe impedire che la figlia, di una delle famiglie più in vista della sua tribù vada in sposa a un esponente di un ceto sociale più basso. Il giovane non si perde d’animo e cerca di accumulare le ricchezze necessarie a realizzare il matrimonio da lui ambito mediante il commercio con i colombiani. Ben presto si rende conto che un lavoratore, per quanto autonomo e intraprendente, nonostante i suoi sforzi non potrà mai accumulare il capitale necessario. Realisticamente si rende, dunque, conto che l’accumulazione primitiva richiede cinismo, spietatezza e il porsi al di là del bene e del male, ovvero richiede nuovi valori funzionali alla volontà di potenza dell’individuo, che necessariamente sono in contrasto con la concezione tradizionale etica e morale.
L’occasione che fa l’uomo ladro è rappresentata, anche in tal caso in modo realistico, da statunitensi, nel caso specifico dei fricchettoni che in nome di ideali pacifisti portano avanti una propaganda anticomunista fra i colombiani, secondo il pregiudizio per cui i comunisti sarebbero la causa dei conflitti sociali nella società moderna. Alla base di tale pregiudizio vi è la naturalizzazione della decisamente più aspra e violenta lotta di classe portata avanti dalle classi dominanti (borghesi) contro le classi subalterne (proletarie). Quindi, la “colpa” della lotta di classe non andrebbe ricercata nella sua causa, lo sfruttamento e l’imperialismo delle classi dominante, ma nell’effetto, ossia nel tentativo dei comunisti di organizzare e dare una direzione consapevole agli spontanei tentativi di rispondere dal basso, da parte dei ceti subalterni, alle angherie che subiscono costantemente dall’alto. Il protagonista, mirando a realizzare la propria accumulazione primitiva, comprende subito che nella guerra fredda il suo posto non può che essere a fianco dei capitalisti. Tanto più che i fricchettoni statunitensi, oltre alla propaganda anticapitalista rappresentano, la domanda di droga, nel caso specifico di marijuana. Tale sostanza stupefacente serve a stordire gli ingenui partecipanti al gruppo di pacifisti fricchettoni, per renderli docili strumenti della propaganda anticomunista dell’ideologia dominante – volta a perpetrare una società fondata sulla ricchezza di pochi sfruttatori costruita mediante lo sfruttamento della massa dei subalterni – e a coprire con il loro ingenuo consumo l’intenzione di importare dosi sempre più massicce di stupefacenti negli Stati Uniti, necessari a riprendere il controllo sui ghetti urbani sempre più in fibrillazione e mantenere al fronte le truppe necessarie all’imperialismo per annientare il comunismo in Indocina.
Il protagonista, con il suo istinto da commerciante, fiuta subito l’affare e la possibilità, dedicandosi al traffico di droga, di poter realizzare la propria accumulazione primitiva indispensabile a poter essere accolto nel gruppo sociale dominante nel suo popolo nativo. In tal modo, vi è una svolta nella sua vita, che comporterà una altrettanto repentina svolta nella antichissima civiltà tradizionale di questa zona rurale e impervia del continente latinoamericano. Tale decisiva svolta nel contenuto è accompagnata in una altrettanto repentina svolta nella forma, il film infatti, che sino a questo momento si era sviluppato alla maniera dei moderni documentari etnologici postmoderni – volti a riprodurre in modo artificialmente “naturalistico” e acritico tali ancestrali società legate ad antichissime tradizioni e a una visione del mondo mitologico-religiosa – si trasforma nel tipico gangster movie, ossia in un film di uno dei generi più saccheggiati dall’industria culturale. In tal modo tali civiltà tradizionaliste e, quindi, necessariamente oscurantiste e fortemente gerarchiche e classiste, vengono naturalizzate e idealizzate, secondo il vecchio mito del buon e ingenuo selvaggio, di contro alla presunta mancanza di valori della società moderna, naturalizzando in questo caso una caratteristica specifica della società dove domina il modo capitalistico di produzione.
Dietro a questa artificiosa contrapposizione si cela, dunque, una critica di stampo essenzialmente reazionario alla società capitalista, alla quale viene contrapposta l’arcaica società comunitarista che rappresenterebbe gli antichi valori etici originari, propri di una comunità in cui ancora non si è affermata l’importanza e la capacità di autodeterminarsi dell’individuo, dove tutto dipende dalle antiche tradizioni e la sorte dell’individuo è indissolubilmente legata alla ancestrale gerarchia sociale, basata sul clan di appartenenza. Al contrario della società moderna, capitalista, si mettono altrettanto unilateralmente in evidenza gli aspetti negativi, per poter continuare a idealizzare la reazionaria concezione comunitarista e mitologico-religiosa del mondo. Dunque, la società moderna, che viene rappresentata come “naturalmente” capitalista, sarebbe priva di valori, per il suo sfrenato individualismo, utilitarismo ed edonismo. Sarebbe, quindi, priva dell’antica identità legata alle tradizioni delle ataviche società premoderne. Perciò il protagonista viene presentato, proprio perché è stato educato al di fuori dell’antica comunità tradizionale, come destinato a portare alla tragica dissoluzione di questa arcaicissima società.
In realtà, come ben mostrerà il film nel suo sviluppo, i germi della dissoluzione sono già ampiamente presenti nella comunità nativa premoderna, come dimostra esemplarmente la figura della suocera del protagonista, che nasconde dietro il suo tradizionalismo, la volontà di potenza di mantenere a ogni costo i propri antichi privilegi di famiglia dominante all’interno di questa comunità premoderna. A tale scopo, si dimostrerà ancora più cinica e spietata e disponibile a scendere a compromessi, ancora più amorali, dello stesso protagonista che finge ipocritamente di contrastare per preservare gli antichi valori mitologico-religiosi e comunitaristi.
Ciò nonostante l’esasperato naturalismo della prima parte del film, girato alla maniera dei documentari etnologici postmoderni, è decisamente insopportabile, come l’ideologia tradizionalista, reazionaria e antimoderna che c’è dietro. Perciò, per quanto possa essere e debba essere criticato lo spirito modernista borghese incarnato dal protagonista e il corrispondente genere gangsteristico dominante nella seconda parte del film – alla maniera dei tipici prodotti culinari e mercificati dell’industria culturale statunitense – finisce per rappresentare, nonostante tutto, un indiscutibile progresso, anche dal punto di vista del godimento estetico. Ciò è vero anche dal punto di vista dell’interesse per la storia del film che diviene meno ideologico e postmoderno, meno programmaticamente naturalistico, sfiorando qualche contenuto sostanziale e presentando degli spunti realistici. Entrambi questi punti di forza del film sono legati al contenuto sostanziale della tragedia che vorrebbe essere messa in scena, in cui gli antichi legami etici della famiglia-clan si scontrano con la necessità dell’individuo di affermarsi all’interno della moderna e utilitaristicamente spietata società civile moderna.
Tuttavia tale tentativo, per quanto renda più interessante e godibile dal punto di vista estetico il film, è destinato ab origine a un inevitabile fallimento. Vendendo a priori liquidata – come qualche cosa di assolutamente fuori dal mondo – l’unica reale prospettiva, ovvero quella comunista, in grado di realizzare attraverso la catarsi la tragedia, che si voleva realisticamente mettere in scena, il film non può che incartarsi in uno scontro necessariamente autodistruttivo e privo di prospettiva, fra la reazionaria difesa delle tradizioni comunitariste e mitologico-religiose e l’essere egemonizzati e strumentalizzati dall’imperialismo.
Certo, si potrebbe obiettare, che nell’attuale Colombia e più in generale a livello internazionale, è proprio questa spaventosa alternativa che sembra scontrarsi oggi per il potere: il comunitarismo reazionario (attualmente definito generalmente sovranista) o il piegarsi al pensiero unico neoliberista dominante, in nome del mantra thatcheriano: there is no alternative. Ma, proprio al contrario, è proprio da questa diabolica spirale che si tratta di uscire, per individuare una via di uscita alla strutturale crisi epocale del modo capitalistico di produzione, che rischia altrimenti di portare con sé nella propria rovinosa caduta, la stessa civiltà umana moderna, al punto da far ritenere preferibile il distopico e reazionario ritorno al primitivo comunitarismo, che mira a buttare con l’acqua sporca dell’asociale individualismo, la stessa libertà dei moderni.
Del resto, è proprio questo rimanere costantemente prigionieri della tenebra del quotidiano, a far venir meno con lo spirito dell’utopia lo stesso principio speranza in una società e in un modo di produzione più giusti e razionali del capitalismo. Certo, possiamo già prevedere la solita critica del senso comune, dominante ormai anche all’interno di tanti ex “comunisti” – che hanno perduto del tutto l’ottimismo della volontà, indispensabile per continuare a battersi per l’emancipazione dell’umanità, contro le forze attualmente soverchianti che combattono per la sua de-emancipazione – per cui la nostra critica sarebbe ingenerosa e sostanzialmente fuori dal mondo, dal momento che ormai “non ci crede più nessuno al sole dell’avvenire”. Il problema, però, è proprio questo, se si finisce per naturalizzare l’attuale miseria, non si avrà mai la forza per partecipare alla lotta collettiva per poterla spazzare via, dal momento che non si tratta di un oscuro fato, di un destino cinico e baro, ma di mancanza di determinazione alla lotta da parte dei subalterni contro i loro stessi oppressori. Alla base di tale inerzia e della conseguente subalternità all’ideologia dominante, che fa di tutto per spingere i subalterni per sfogare la propria frustrazione nella fratricida guerra fra poveri, è al solito la scarsa coscienza di classe.