L’ultimo film di Moretti, bello e intenso, tiene sullo sfondo la dimensione pubblica a vantaggio di quella privata, la dimensione storica, a vantaggio di quella esistenziale non rappresentando adeguatamente la tragicità della propria epoca. Il tentativo di realizzare un’opera für Ewig va a detrimento della capacità di mettere in scena il presente nella sua contraddizione fondamentale. Tuttavia il grande cinema è sempre analisi critica del proprio tempo, attraverso il montaggio della sua rappresentazione filmica.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 8
Il film è bello e intenso, decisamente più “ingenuo” che “sentimentale”, più “classico” che “romantico”, più goethiano e tolstoiano, che schilleriano e dostoievskiano. Possiamo dire che Moretti con questo film ha raggiunto la piena maturità, che costituisce al contempo il prodromo della vecchiaia. Raggiunto l’apice del proprio sviluppo, inizia inevitabilmente la decadenza. Come chiarisce Hegel, nell’antropologia, proprio all’inizio dello spirito soggettivo, mentre negli anni giovanili l’individuo con i propri ideali e speranze tende a entrare in contrasto con il proprio ambiente, raggiunta la maturità, perviene alla riconciliazione con l’ambiente mediante il riconoscimento della sua necessità oggettiva. Ciò apre al contempo le porte alla vecchiaia in cui tendenzialmente prevale l’abitudine che ottunde. La fase giovanile morettiana è stata inaugurata da Io sono un autarchico (1976) ed Ecco bombo (1978), ormai due veri e propri cult, e aveva raggiunto il suo massimo sviluppo con La messa è finita (1985) e Palombella rossa (1989), forse le pellicole più incisive insieme al documentario La cosa (1990) del regista. Con Caro Diario (1993) Moretti entrava nella fase della maturità, che conosce il suo apice con Habemus Papam (2011) e soprattutto con Mia madre, un film per così dire nato classico. Infatti nonostante i numerosi spunti auto-biografici, un tratto distintivo della filmografia morettiana attinente alla sua poetica “romantica” e post-moderna, la cosa stessa prevale finalmente sul soggettivismo, il regista finisce di guardarsi leziosamente la lingua e alla buon’ora si realizza oggettivandosi nell’opera. Moretti, messo ormai da parte il suo alter-ego Michele Apicella (protagonista indiscusso degli anni giovanile), si sdoppia in due: nella regista protagonista del film, interpretata da Margherita Buy, e nel fratello di questa, Giovanni, interpretato da Moretti stesso, figura decisamente in secondo piano rispetto alla sorella- regista. Moretti si libera perciò della sua immagine: i due personaggi non sono delle maschere o delle caricature del regista, godono invece di una certa autonomia e non sono pienamente identificabili con Moretti stesso. Ciò consente finalmente a Moretti di recitare, come si raccomanda costantemente nel film con la consueta ironia romantica, «al fianco del proprio personaggio», con un effetto di straniamento, che favorisce un’attitudine critica e riflessiva, nel proiettarsi nel proprio “altro”, la protagonista che interpreta la regista.
Margherita è una regista engagé, al contrario di Moretti, la cui aspirazione all’impegno, a parte l’esperimento non proprio riuscito de Il caimano (2006), è sempre sovrastata, se non annichilita, dalla preponderante vena ironica. La Buy intende realizzare un film che racconti la crisi economica del nostro paese mostrando lo scontro tra gli operai di una fabbrica e il nuovo padrone, che intende ristrutturare l’impresa con i consueti massicci licenziamenti. La difficile gestione del set e del divo americano (John Turturro) si intrecciano con la dimensione privata, esistenziale della regista: separata e con una figlia con tutti i tipici problemi dell’adolescenza, vede il suo equilibrio minacciato dalla malattia della madre, accudita meticolosamente dal fratello Giovanni (interpretato da un Moretti finalmente non più sopra le righe), un ingegnere.
Ottima la regia, perfetta la recitazione, interessanti fotografia e montaggio, valida la musica. La storia, inoltre, è molto ritmata grazie al passaggio dal tono tragico e drammatico a quello della commedia, mescolati tra loro con sapiente dosaggio. Il film, inoltre, attraversa tutti e tre gli ambiti della vita etica ovvero famiglia, società civile e Stato, ma in modo contrario all’ordine concettuale: difatti il piano della società civile e dello Stato sono sempre considerati dal punto di vista della famiglia ovvero la dimensione privata tende a prevalere e a inglobare quella pubblica, che emerge nel lavoro della regista e del fratello e che trova nello sfondo la crisi italiana sintetizzata nello scontro tra operai e padronato narrata dal film nel film.
La pellicola ha tutte le caratteristiche di un classico e risulta nel complesso poco efficace: sembra come un grande monumento del passato, bello sì, ma che non ha la verve necessaria a incidere sul presente. L’aspetto decisivo della dialettica negativa è scarsamente sviluppato, in particolare per quanto concerne lo svolgersi della vicenda sul piano sociale e politico.
Interessante l’effetto di straniamento, citato dalla stessa Margherita regista del film, anche se presentato un po’ come un residuo del passato, come il film impegnato che sta girando, che risulta un po’ stanco, poco drammatico e poco sentito dalla stessa regista sulla quale hanno decisamente più presa le tematiche esistenziali. La prima scena del film nel film, infatti, che vuole mostrare uno scontro tra operai e poliziotti sembra finta, artefatta, poco realistica, tant’è che se ne lamenta la stessa regista. La sua rappresentazione, improntata alla riproduzione del Quarto stato di Pelizza da Volpedo, ha un sapore retrò. Insomma la dimensione politica, la lotta degli operai c’è perché deve esserci, ma non sembra interessante, né necessaria. Il film risulta, così, un po’ troppo conciliato con il proprio mondo storico, che tende a naturalizzare e a tenere sullo sfondo, evitando l’aspetto tragico, la potenza del negativo. Moretti sembra aver dimenticato del tutto la lezione di Adorno e in tal modo la sua opera finisce per perdere quell’importante funzione culturale e sociale che l’arte può svolgere nel mondo contemporaneo denunciandone la negatività disarmonica, l’alienazione e la reificazione che lo caratterizzano.
I personaggi sono interessanti ma restano un po’ superficiali soprattutto nei rapporti fra di loro. Predomina, così, un po’ troppo il punto di vista della protagonista, alter ego di Moretti, vero e proprio Sé come un altro, piuttosto che il rapporto con la madre, con il fratello, con la figlia, con i suoi ex, rapporti in cui non emerge mai il lato problematico, conflittuale, contraddittorio. Lo stesso rapporto con l’attore-divo è risolto troppo e solo dal punto di vista della commedia. In tal modo l’aspetto tragico non è sviluppato mai fino in fondo, a dispetto del tema scelto, ossia la morte della madre, e proprio per questo la catarsi che infine si produce appare un po’ scontata ed è, dunque, relativamente poco efficace.
La catarsi del resto si produce solo sul piano individuale, sul piano esistenziale del rapporto con la propria morte, con la propria necessaria finitudine. Più efficace appare il film dal punto di vista della mimesis, anche se talvolta nella rappresentazione della realtà l’elemento naturalistico prevale sul realistico, la tipicità dei personaggi, piuttosto efficace nella rappresentazione del ceto medio riflessivo, resta un po’ troppo in superficie, sacrificando la prospettiva storica all’orizzonte naturale del dramma esistenziale, del necessario togliersi del finito. La loro appartenenza alla borghesia non è considerata in modo critico e straniato, ma il tutto viene naturalizzato e sostanzialmente deproblematizzato. Anche la lotta di classe rappresentata nel film nel film resta troppo sullo sfondo, appare piuttosto un residuo del passato, è priva di reale tragicità. In tal modo il dramma storico di un’epoca la cui crisi consiste nel fatto, per dirla con Gramsci, «che il vecchio muore e il nuovo non può nascere». Ed è così, che proprio «in questo interregno» che «si verificano i fenomeni morbosi più svariati» [1]. Al contrario nel film di Moretti tende all’attitudine borghese a non storicizzare la propria epoca storica, con il fine più o meno inconsapevole di naturalizzarne la crisi, per cui nel film nel film il padrone, che ha tutti i limiti del padrone del godardiano Tout va bien, è costretto a licenziare per poter ristrutturare. Il che è certamente vero, ma solo nel modo di produzione capitalistico, che così è destoricizzato e naturalizzato. In tal modo la drammaticità della sua crisi si avverte troppo poco, in quanto non è rappresentata nella forma di tragedia che include necessariamente la catarsi, ma nella forma strutturalmente conservatrice della commedia, in cui sulla prospettiva storica ha il predominio la dimensione esistenziale dell’eterno ritorno.
In conclusione occorre sottolineare, che pur rappresentando un’opera tanto profonda quanto godibile, la posizione di Moretti appare troppo prigioniera della torre d’avorio in cui tende a rinchiudersi l’intellettuale tradizionale, fautore dell’arte per l’arte. La vicenda rappresentata nel film è solida e sostanziale, anche se rappresenta troppo poco calata nella propria epoca storica. Anche nell’analisi indubbiamente rigorosa dei rapporti familiari il film appare troppo buonista, troppo politically correct e, dunque, poco graffiante. Detto questo resta in ogni caso decisamente un’opera d’arte e vale quindi certamente la pena fare questa esperienza estetica, che appare un fiore nel desolante panorama del cinema italiano contemporaneo, nel quale persino film decisamente mediocri e televisivi come Gomorra o La mafia uccide solo d'estate sono potuti apparire come opere notevoli, mentre il manieristico La grande bellezza è potuto passare per un capolavoro.
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino 1975, Quaderno 3, § 34, p. 311.