Loving di Jeff Nichols Usa 2016: valutazione: 4/10
Ancora un film sulla lotta per l’emancipazione degli afroamericani. Si tratta del genere di film impegnati di maggior successo quest’anno, sull’onda lunga del successo di Django Unchained di Tarantino. In particolare diversi dei film di quest’anno, come Barriere e Il diritto di contare, rappresentano come lo status di apartheid sia perdurato, soprattutto nel sud degli Stati Uniti fino alla fine degli anni sessanta. Anzi, sono proprio le lotte della fine degli anni sessanta e la temuta saldatura fra comunisti e afroamericani a costringere la classe dirigente, attraverso la Corte suprema, ad imporre ai riottosi stati del sud l’eguaglianza dei diritti formali, naturalmente per meglio preservare le differenze, ancora oggi inquietanti, dei diritti sociali ed economici.
Sebbene di questi ultimi aspetti i film ricordati non accennino neppure, l’aver dopo anni ricordato che la maggiore liberal-democrazia del mondo ancora negli anni settanta non rispettava nemmeno i diritti formali, cosiddetti borghesi, è certamente meritorio. Purtroppo tale contenuto potenzialmente rivoluzionario, ossia che sono stati gli stessi comunisti a imporre alla borghesia il rispetto degli stessi diritti formali, per non parlare del cosiddetto “stato sociale”, è del tutto omesso. Si tratta, infatti, comunque di prodotti dell’industria culturale, che mirano non solo a mercificare anche questi aspetti oscuri della storia degli Stati Uniti, ma anche a fornirne una versione funzionale a un’apologia indiretta del sistema.
Difronte alla pressione degli afroamericani, che lamentavano di non essere impiegati, ossia sfruttati, a sufficienza dall’industria culturale, quest’ultima non solo se ne è servita per massimizzare i propri profitti, ma per ridarsi una facciata liberal, tanto più necessaria dopo l’elezione di Trump che ama mostrare il lato reale e truce del sistema.
Così, anche in Loving, abbiamo una afroamericana e un proletario bianco che la sposa pure vittime della brutalità del sistema razzista. Dinanzi alle terribili leggi che li portano in carcere per il “delitto” di miscegenation, ossia di incrocio di razze, per il loro convivere in una stessa abitazione, nonostante si siano sposati in uno Stato degli Usa in cui era permesso, non assistiamo a nessuna significativa reazione né di odio di classe, né di indignazione. Le loro figure ricordano l’agnello condannato al macello della tradizione cristiana, che non appare in grado di ribellarsi, né di opporsi al suo tragico destino, che vive con un senso di stupore.
Grazie a un avvocato amico del giudice che li condanna, ottengono di mutare la prigione in esilio. Qui riprendono la loro vita completamente prigioniera della tenebra del quotidiano e dalle sue preoccupazioni da animal laborans. La loro condizione umana è talmente alienata che la loro vita è completamente passiva, assolutamente priva di una dimensione sociale e politica, del tutto prigioniera della necessità di dedicarsi a tempo pieno alla schiavitù del lavoro salariato e della schiavitù domestica per poter sopravvivere e riprodursi come forza-lavoro.
Anche in tal caso tutto appare naturale, in primo luogo ai protagonisti, che non hanno nessun moto di rivolta, di indignazione o di esasperazione nei confronti di una vita prigioniera della banalità della quotidianità. L’unico reale rimpianto nutrito è per il piccolo mondo antico, rurale da cui sono stati espulsi per vivere in una città di cui colgono unicamente gli aspetti deteriori. Da qui il mito reazionario della libertà garantita da una vita lontana dalla società civile moderna, tutta racchiusa all’interno della sfera protettiva della famiglia.
Così quando la grande storia, da cui si sono e si vorrebbero ancora più estraniare, si manifesta nella forma mistificata della narrazione televisiva delle grandi manifestazione per i diritti civili, la reazione è di totale chiusura e incomprensione per la dimensione stessa di una mobilitazione collettiva per l’emancipazione. Senonché, dal momento che Robert Kennedy intende recuperare il consenso perduto fra i ceti popolari dalla presidenza Johnson, per l’aggressione imperialista in Vietnam, decide di cavalcare la lotta per i diritti civili, reinterpretandola nel senso della rivoluzione passiva. Di tutto ciò non è assolutamente cosciente né la protagonista, né gli autori del film, e, dunque, Robert Kennedy diviene, su consiglio di un’amica il possibile deus ex machina per risolvere la nostalgia reazionaria per una vita agreste caratterizzata da idiotismo e da una situazione di semi-schiavitù.
Kennedy si limita a metterli in contatto con dei giovani e ambiziosi avvocati che intendono emergere portando questo caso, particolarmente aberrante per le motivazioni addotte per la condanna, davanti alla Corte suprema. Devono però superare la diffidenza soprattutto del proletario pater familias, non solo del tutto disinteressato alla questione universale della lotta contro la discriminazione di cui è vittima, ma ostile in generale alla sfera pubblica. È così soltanto la nostalgia della donna per un idealizzato universo bucolico, a convincere la coppia, a servirsi degli avvocati e a sfruttare la loro voglia di emergere e la grande lotta per l’emancipazione per cui si battevano le forze progressiste per i propri fini tutti privati.
Anche in tal caso questa attitudine del tutto asociale, oltre che apolitica, priva di un qualsiasi sentimento di solidarietà di classe o di “razza”, viene del tutto naturalizzato dalla mancanza assoluta di straniamento, ossia di senso critico, da parte degli attori, piattamente impersonati nei loro meschini personaggi, né da parte degli autori del film che sin trincerano, come sempre più spesso accade, dietro una storia vera. Al di là del realismo rozzamente ingenuo per cui esisterebbe una realtà oggettiva del tutto indipendente dal soggetto che la vive e la interpreta, tale attitudine verista è funzionale a naturalizzare la società americana e a giustificare il ruolo subalterno del proletariato. A tale attitudine del tutto acritica, si aggiunge poi un’attitudine apologetica e fideistica verso la società statunitense e più in generale borghese che sarà in grado, senza dover ricorrere a inutili lotte dal basso, di superare le proprie contraddizioni e di progredire in modo lineare; tanto più che si tratta, al di là dei limiti storici, comunque del migliore dei mondi possibili, per chi è del tutto privo non solo di spirito di utopia, ma dello stesso principio di responsabilità.