Un film che attraverso una storia d’amore finita male e un difficile rapporto fra genitori e figlio lascia allo spettatore molto da riflettere sulle attuali contraddizione della Repubblica popolare cinese. Gli innegabili risultati conseguiti dai comunisti e dal popolo cinese per estirpare dal paese feudalesimo e imperialismo che lo opprimevano, rischiano di essere vanificati. Le sirene del capitalismo rischiano di far cancellare questo epico sforzo del passato.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: 8
Mountains May Depart, ultimo sforzo del regista cinese Jia Zhang-ke, presentato al festival di Cannes e nel palmarès rimasto vergognosamente a bocca asciutta[i], è un film drammatico e sentimentale in quanto, descrivendo una travagliata storia di amore, lascia emergere nel modo più crudo e realistico le contraddizioni dell’attuale grande sviluppo della Repubblica popolare cinese (d’ora in poi RPC).
Il film è diviso in tre parti. Nella prima parte, ambientata a Fenyang nel 1999, il regista ci mostra il passaggio dal XX al XXI secolo, percepito, in modo particolare in Cina, come l’inizio di una nuova era. Tao, una giovane donna di Fenyang, interpretata ottimamente dell’attrice musa di Zhang-ke Zhao Tao, incarna la Cina fra due secoli e due diversi rapporti di produzione; la giovane donna è contesa tra due corteggiatori: Lianzi, che veste i panni dimessi di un proletario che lavora in una miniera di carbone e ricorda un passato decisivo per l’attuale sviluppo cinese e l’antagonista, Zhang, che rappresenta il pidocchio rifatto, la classe emergente della borghesia imprenditoriale, che tende ormai a spadroneggiare nella società civile cinese.
Tao, personaggio emblematico, problematico, contraddittorio e mai schematico, è indecisa nella scelta: la giovane, metafora della Cina, non ha ancora smarrito del tutto la memoria storica e l’eticità socialista, infatti per quanto affascinata dal successo di Zhang e soprattutto dalla vita più confortevole che le promette, quella propria della società dei consumi, mantiene un certo sguardo straniato, scettico verso chi mostra la rozzezza tipica del parvenu. Ma Lianzi sa di non avere chance nei confronti di Tao (alias la Cina), egli appare provato dal lavoro e dalla storia, consapevole dei rapporti di forza a lui svantaggiosi, mentre Zhang appare rampante, spavaldo e intraprendente.
Che la vittoria sia in pugno della emergente borghesia – una borghesia sorta paradossalmente dal processo di modernizzazione della Cina feudale, reso possibile in tempi rapidi grazie alla rivoluzione socialista – appare evidente dall’acritica adesione del senso comune al nuovo che avanza, simbolicamente espresso dal singolo Go West, motivo dominante del film. Questo singolo, proposto nella versione dei Pet shop boys del 1993, vero e proprio inno collettivo nel film di tutte le giovani generazioni all’alba del nuovo secolo, rappresenta l’oggettiva sconfitta del tentativo di transizione al socialismo in Cina, dovuta anche dalla capacità della società imperialista occidentale di vincere la lotta per l’egemonia e di imporre la propria mercificazione dei valori a livello globale[ii].
Così il giovane proletario Lianzi, sconfitto e licenziato cerca rifugio nell’interno della Cina. Si tratta di quella Cina profonda che tenta di sopravvivere sottraendosi alla logica della società civile moderna che non può comprendere. Ma il suo viaggio non può che presentarsi senza ritorno, come senza ritorno appare anche il destino della Cina (incarnata da Tao) più intraprendente che si è lasciata sedurre dal capitalismo, e ora non può che partorire un figlio che sarà chiamato Dollar, ossia non può che seguire il tragico destino di decadenza prima morale e poi economica del modo di produzione capitalista, anche se nel frattempo il potere economico dello Yuan cinese avrà il sopravvento sul dollaro. Per cui la Cina, dominata a livello ideologico dall’occidente, conoscerà la propria rivincita sfidando e vincendo i paesi capitalisti sul loro stesso terreno economico.
Il titolo del film Le montagne possono spostarsi diviene ora più chiaro. Il titolo si riferisce a La favola del vecchio sciocco che cominciò a rimuovere le montagne a colpi di zappa notissima ai cinesi anche per la reinterpretazione che ne ha dato Mao[iii]. Nell’apologo abbiamo un utopista che intende spianare due montagne che gli rendevano la vita difficile, che nella rilettura maoista sono il feudalesimo e l’imperialismo. Allo scetticismo dei realisti che consideravano assurda la pretesa di “spianare due montagne cosi grandi”, l’utopista risponde che il duro lavoro e l’irremovibile convinzione daranno i propri frutti nel corso del tempo. E così è avvenuto in quanto queste due virtù hanno finito per far intervenire per portare a compimento l’opera, irrealizzabile dai soli utopisti, un deus ex machina: le masse popolari cinesi (nella versione di Mao). Ora l’opera utopista iniziata negli anni venti da Mao Tse-Tung, grazie alla capacità di conquistare il sostegno delle masse, è riuscita a scacciare dal paese il feudalesimo e l’imperialismo. Tuttavia quest’ultimo sembra, una volta cacciato dalla porta, rientrare dalla finestra, attraverso la diffusione nella struttura di elementi capitalisti e il predominio nelle sovrastrutture dell’ideologia dell’occidente capitalista.
La seconda parte del film infatti, ambientata nel 2014, vede un diverso scenario: non c’è più la lotta per la conquista del paese, in quanto il nuovo, rappresentato dal mito del consumismo occidentale, ha avuto il sopravvento sul vecchio, il duro lavoro in condizioni spesso molto difficili che ha consentito questo sviluppo economico. La battaglia è decisa al punto che la stessa Cina, incarnata dalla protagonista, che ha scelto il nuovo si volge ora con nostalgia al passato. Si tratta di un passato al quale però non è possibile tornare, fatto dai residui di quella montagna spazzata via (il feudalismo), raffigurati nel film dalle credenze tipiche di una religiosità naturale, a cui sarebbe assurdo tornare, nonostante l’evidente fallimento, dal punto di vista sentimentale, della modernizzazione capitalista. Ormai la distanza fra la vecchia Cina, rappresentata dal nonno che sta morendo, e la nuovissima raffigurata dagli arroganti rampolli dei nuovi ricchi appare abissale. Le differenze di classe si sono ulteriormente accentuate: abbiamo una nuova classe di capitalisti che vive nel lusso sfruttando un proletariato, che non può che considerare in modo sempre più negativo la propria condizione, dinanzi al lusso ostentato dai nuovi ricchi.
Con un balzo temporale realizzato in modo abilissimo dal regista, saltiamo avanti di altri 11 anni nel futuribile 2025, in cui è ambientata la terza e ultima parte del film. Ormai l’abisso fra nuova e vecchia Cina e fra le classi sociali è tale che Dollar, il figlio di Tao, è andato a vivere con il padre nel nuovissimo continente australiano. Qui Dollar, con altri rampolli della borghesia cinese occidentalizzata, studia il cinese, più o meno come i figli della borghesia italiana studiano il latino, ossia la lingua di una civiltà del passato che appare non comunicare con la nostra. Tuttavia il nuovo mondo del danaro, in cui vive Dollar, è un universo spietatamente privo di eticità. Così, dopo averne cancellato anche il ricordo, il passato rimosso ritorna, e Dollar riprende a parlare in modo nostalgico del suo paese-madre con cui ha perso i contatti da quando aveva sette anni. Questa sofferta esperienza fa riscoprire al cinico Dollar l’importanza dei sentimenti e dell’amore.
In questo film Jia Zhang-ke non si confronta con le contraddizioni del proprio paese con lo sguardo pregiudiziale e ideologico, orientalista e condizionato dal senso comune conservatore dominante nel mondo occidentale[iv]. Il suo sguardo è libero dai soliti triti stereotipi liberali che, con la consueta pavloviana coazione a ripetere, descrivono la RPC come uno stato totalitario di polizia, in quanto la macchina statale non si è ridotta a solo guardiano armato della proprietà privata. Lo sguardo di Jia Zhang-ke è distante anche dall’orientalismo di sinistra, secondo il quale la RPC va considerata il migliore dei mondi possibili, e l’analisi marxiana fondata sulla divisione della società in classi e sul loro contrasto si dissolve. Ne Le montagne si possono spostare le classi sociali non solo sono ben presenti, ma hanno interessi necessariamente contrapposti. Tale lotta è purtroppo condotta in modo piuttosto unilaterale dalla borghesia, in quanto i lavoratori non sono in grado di resistere, se non in modo immediato e molecolare, alla controffensiva dei nuovi ricchi. Così la classe sociale dominante è mostrata per quello che è, mentre si arricchisce alle spalle del proletariato. I lavoratori si ammazzano di lavoro e non guadagnano se non malattie, emigrazione, treni per pendolari stracarichi, malattie sul lavoro, una sanità privatizzata. La rinata borghesia apparentemente avanza su tutti i fronti, conquista la Cina, si arricchisce sempre più, lavorando sempre meno.
La classe economicamente dominante segue il modello liberale occidentale, ma questo, denuncia Jia Zhang-ke, non porta alla felicità né la classe operaia, né il paese, e neppure i nuovi ricchi. Questi ultimi, conformandosi al modello occidentale, finiscono con il divorziare dal paese reale, con il vivere in un mondo che non è il loro, tanto da non riuscire più a comunicare nemmeno all’interno della loro comunità etica naturale. Così, massimo dello scacco per i padri, i loro viziosi rampolli non mirano più a emergere, hanno perduto lo spirito capitalista delle origini, imprenditoriale e spietato, vivono una crisi di identità che li spinge a ricercare la propria madre, la Rpc, le radici perdute.
Da parte sua la Cina resta, nel suo complesso, di contro alla superficiale volgarità dei parvenu che la dominano economicamente, profonda, acculturata e raffinata. Certo dopo tante esitazioni ha finito per lasciarsi sedurre dalla società dei consumi occidentale, ma ne è rimasta bruciata e non ha perso del tutto di vista chi è rimasto indietro: la classe operaia. Tuttavia la società cinese e i suoi intellettuali di spicco come Jia Zhang-ke appaiono privi di una reale prospettiva, pur consapevoli delle contraddizioni del modello occidentale, non sanno andare al di là di un nostalgico sguardo all’indietro verso un passato ingenuo che non può ritornare. Per cui, pur non essendo del tutto contaminata dalla cafonaggine dei nuovi ricchi, la Rpc appare dilaniata dalla crescente polarizzazione delle classi sociali, dal crescente contrasto fra città e campagne.
Certo il film resta molto critico di questo esito estremo del kruscioviano arricchitevi! Né si lascia incantare dall’apparente saggezza della massima utilitarista caratteristica del denghismo: il gatto può essere bianco o nero, ciò che conta è che prenda i topi. Da qui la profonda differenza con l’altro grande esponente del cinema cinese, Zhang Ymou, capofila della precedente generazione di intellettuali allineati e conformi all’ideologia dominante nel loro paese. Al contrario dello sguardo ideologico, sempre più sfacciatamente anticomunista di Zhang Ymou, lo sguardo di Jia Zhang-ke è schiettamente realista. Non si limita come Zhang Ymou a mettere in scena, certo con grande maestria, l’ideologia oggi dominante nel suo paese senza straniamento. Tanto il cinema di Zhang Ymou appare conformista, quanto quello di Jia Zhang-ke è critico, non riconciliato. La sua critica però non si fonda sui banali presupposti ideologici liberali della a-sinistra occidentale, non è una critica da destra, conservatrice, né una critica dall’esterno, positivista e non partecipe. Al contrario è una critica sofferta dall’interno, dal ventre profondo della Cina contemporanea. Perciò mentre Zhang Ymou non appare più in grado di rappresentare la propria epoca storica con lo specifico filmico, Jia Zhang-ke appare in grado in quanto la coglie nella sua intrinseca contraddittorietà. Lo sguardo di Zhang Ymou appare ormai distante, distaccato, avulso dalla tragedia storica del suo paese, lo sguardo di Jia Zhang-ke è partecipe e la sua mimesis della realtà storica in cui vive è sentita e sofferta.
Jia Zhang-ke ci risparmia le banali accuse liberiste di totalitarismo, mentre denuncia con vigore il reale problema del paese, l’apertura all’economia di mercato significa il ritorno su grande scala dello sfruttamento della forza lavoro. Così la tanto agognata ricerca della libertà della nuova classe dominante filo occidentale, negata nella RPC, è svelata per quello che è da Jia Zhang-ke: puro arbitrio[v]. Si tratta, dunque, di una libertà del tutto astratta, perché priva di scopo, che diviene un gioco fine a se stesso che allontana il parvenu dalla realtà e lo separa tanto dalla vecchia Cina quanto dal nuovo occidente. Il nuovo non è poi rappresentato come migliore del vecchio, né più in salute, anzi a uno sguardo non miope è il dollaro ad apparire ormai invecchiato rispetto al Renminbi (la moneta del popolo).
Non resta, in conclusione, che fare una breve riflessione sulla distribuzione nel nostro paese di questa significativa pellicola. Le montagne si possono spostare, pur essendo uno dei rari film significativi di questo periodo, è stato proiettato solo in due occasioni in Italia all’interno della rassegna Le vie del cinema. Da Cannes a Roma XIX edizione. Nonostante la proiezione domenicale, cui abbiamo avuto modo di assistere fosse in sala uno, non era possibile trovare un solo posto libero. L’offerta della società capitalista di film-merci, per altro prestissimo fruibili anche da casa, determina in modo surrettizio la domanda, per cui i film culturali, i film che aspirano in primis a essere opere d’arte e solo in seguito assumono la forma strumentale di merce, sono resi invisibili, almeno al grande pubblico. A meno che non si tratti di film autoriali snob e di élite, programmaticamente antitetici al nazional-popolare, come se quest’ultimo fosse necessariamente populista[vi].
Note
[i] In rapporto a Still Life il film di Jia Zhang-Ke che ha vinto Cannes, Le montagne si possono spostare è decisamente migliore. Più in generale, i film per vincere Cannes e Venezia pare debbano conformarsi alla politica culturale dominante anti-realista, spesso caratterizzata dal mettere in luce unicamente un aspetto parziale o superficiale della totalità del reale. Inoltre sembrano dover conformarsi al genere “autoriale”, il più delle volte snob e antipopolare, per rimanere così prodotti di nicchia e lasciare il massimo spazio al genere populista reazionario che sbanca il botteghino e talvolta è candidato agli oscar. In tal modo il cinema realista viene chiuso fra due estremi entrambi dannosi: il cinema populista conservatore e commerciale e l’opera snob d’autore. Cadere nella logica del meno peggio e dichiarare così la propria preferenza per uno dei due poli sarebbe un errore, ma ancora più sbagliato è quello che fanno i critici dell’asinistra cinefila che radicalizzano i due estremi negativi, esaltando opere ultrareazionarie, in quanto ultra-snob, e ultra populiste di destra, in quanto trash. Anche in questo caso occorre ricordare che il nemico, l’industria culturale, continuerà a marciare sempre alla nostra testa, sino a quando sarà egemone nella nostra testa.
[ii] Molto interessanti le osservazioni che faceva il grande compositore Hans Eisler su come i paesi socialisti avrebbero dovuto rispondere al tentativo di egemonizzazione dell’industria culturale capitalista: “Noi possiamo combattere il boogie-woogie [la musica leggera occidentale] solo con l’educazione politica dei nostri giovani. […] Nella mia giovinezza mi sono dimenato così come ci si dimenava allora. […] Questo non ha dunque grande importanza. Ma se la gente [dei paesi in transizione al socialismo] è politicamente diseducata, se è politicamente malvagia, se è influenzata dall’occidente e assume nei nostri confronti [di noi comunisti] un atteggiamento da mascalzoni, allora il boogie-woogie avrà un effetto terribile. […] Combattiamo da un punto di vista politico, non estetico. Non possiamo permetterci di combattere da un punto di vista estetico, perché l’industria americana del divertimento ha un influsso enorme in tutto il mondo. L’industria americana ha reso interi popoli ‘analfamusici’ e continua a farlo”. Eisler con Brecht, intervista di Hans Bunge, Editori riuniti, Roma 1978, p. 53.
[iv] Tale sguardo d’origine coloniale è stato introiettato da registi di regime anche notevoli come Zhang Yimou, come abbiamo cercato di mostrare nella recensione al suo ultimo film: Lettere di uno sconosciuto http://www.lacittafutura.it/culture/cinema/molto-pathos-per-nulla-lettere-di-uno-sconosciuto-un-buon-film-su-un-pessimo-soggetto.html.
[v] Trattasi della libertà del Far West: il poter utilizzare a proprio piacimento, il baloccarsi con le armi da fuoco.
[vi] Come fa in modo esemplare l’opera di Asor Rosa, Scrittori e popolo, recentemente ristampata.