Al cinema vado raramente. Quando accade, il più delle volte, vengo assalita, già nei primi cinque minuti, da una totale indifferenza verso la proiezione, sensazione che sconfina immediatamente nella noia che si avvicina, in breve, ad un profondo torpore. Palpebre a mezz’asta e crollo. Come spettatrice e critico cinematografico sono quel che si suole dire, più che altro in gergo, una schiappa. Che poi, appena fuori dalla sala, dimentico totalmente il film. Con qualche eccezione, quando il film è riconosciuto internazionalmente come un capolavoro nella regia, nella recitazione, nelle luci e nell’ambientazione, per l’originalità e la complessità della trama. E tutto ciò riesce a trasmettere allo spettatore messaggi di grande valenza.
Così come, ad esempio, in “Lo cunto de li cunti”, “L’attesa” e “The Danish girl”, “The shape of the water”, mi ha catturato sin dalla prima immagine. Un’ora e 20 minuti di coinvolgimento insolito e imprevisto nel seguire la misteriosa vicenda articolata sulla relazione fra una giovane donna muta e uno strano essere squamoso, teriomorfo, un uomo pesce, anch’esso muto. Il fiabesco, l’incanto prodotto dalla fantasia del messicano Guillermo Del Toro regista, produttore e director della pellicola, si verifica soprattutto quando tra i due personaggi esplode l’amore, un amore assoluto, privo di condizionamenti, come solo pochi esseri riescono a vivere. Ѐ una fiaba, della serie “La bella e la bestia”, con un crescendo di emozioni e di sentimenti che rimandano a principi inossidabili. E vivaddio.
Ѐ nel pieno rispetto dell’archetipo fiabesco che la storia si connota con tutte le usuali caratteristiche. Ci sono i protagonisti, lei, la mite e schiva Elisa, lavoratrice addetta alle pulizie, impossibilitata a comunicare, poiché affetta da mutismo e il mostro creato in laboratorio. Creatura che si rivela nel film capace di provare e trasmettere emozioni, riservate a chi riesce a vedere oltre la sua inquietante immagine e addirittura ad amarlo. E la fiaba diventa per soli adulti quando Del Toro introduce nell’amore sublimato dal sentimento, l’aspetto carnale. Così l’amore fra Elisa e la creatura si fa anche sessualità, come un prosieguo fra i più naturali. Un amplesso nella totale nudità della donna per nulla morboso, anzi tenerissimo. Un amore minacciato per tutta la vicenda dagli antagonisti, cinici e spietati che vogliono uccidere l’anfibio creato in laboratorio. E il finale sarà rivoluzionario e, ovviamente, felice, come ogni fiaba.
Nell’opera dominano i colori forti della strana gigantesca creatura soffusa a intermittenza di luci verdi blu e rosse, mentre i riflessi di luce si alternano fra penombra e vividezza nelle strade di Baltimora degli anni ‘60 con inquadrature tecnicamente furbesche e affascinanti per la fotografia, caratterizzanti le strade e le botteghe d’epoca. La metafora è sul tema della diversità, sull’accoglienza e sulla forza inarrestabile che produce l’organizzazione per una giusta causa, fino diventare rivoluzione, fino a ribaltare i sistemi di potere. Perché a volte la lotta contro gli sfruttatori paga bene. Sicuramente un messaggio di speranza in una società avversa al diverso, all’indifeso. Importante anche l’evidente riferimento alla questione dei lavoratori sfruttati e umiliati, costretti, come le due addette alle pulizie Elisa e l’amica Zelda, petulante, ma ironica e protettiva, a pulire sangue nelle scene di violenza, ma non solo, anche i “cessi” dei padroni. E sul tutto domina l’acqua e le sue indefinite, ma potenti forme. E così che la definisce Del Toro per dare un riferimento alle metafore di cui è colma la storia: "L'acqua prende la forma di tutto ciò che la contiene in quel momento e, anche se l'acqua può essere così delicata, resta anche la forza più potente e malleabile dell'universo. Vale anche per l'amore, non è vero? Non importa verso cosa lo rivolgiamo, l'amore resta se stesso sia verso un uomo, una donna o una creatura”.
Elisa e la creatura (trama del film)
La vicenda ha inizio in un laboratorio di esperimenti segreti del governo americano. Siamo nel 1962 durante la Guerra Fredda. Elisa (Sally Hawkins), una giovane sfortunata poiché muta, lavora nel centro come operaia, addetta alle pulizie. Accanto a lei e con la stessa funzione c’è sempre Zelda (Octavia Spencer), donna di colore, che diventerà sua complice e l’aiuterà nell’organizzare l’incredibile gesto che cambierà le sorti di entrambi i protagonisti. Con Elisa, Zelda si comporta da sorella maggiore, la difende da ogni umiliazione inflittale dai padroni, la comprende nella sua gestualità, condivide con lei l’atto rivoluzionario che è il nucleo della vicenda, coraggiosamente, solo perché lo ritiene giusto. Così fa Giles (Richaird Jenkins), un illustratore fantasioso e mite, affezionato ad Elisa, tanto da aiutarla quando si presenterà l’occasione nella mission impossible che insieme e ostinatamente renderanno possibile.
La storia entra nel vivo quando le due amiche e colleghe scoprono che in una sorta di mega acquario, situato in un laboratorio del centro di ricerche governativo, vive uno strano essere metà uomo e metà anfibio di cui, dopo una serie di incontri segreti, Elisa si innamorerà perdutamente. Il cinico director del laboratorio, pressato dalle spie filorusse, decide di eliminare la creatura prodotta in laboratorio, mentre uno scienziato vuole salvarla. Accade l’impensabile. La forza dell’amore di Elisa, supportata da chi crede in lei e nella sua giusta causa, arriverà laddove l’impossibile è vinto dall’ostinazione della volontà e diventa realtà. Il finale è assolutamente rivoluzionario e tocca quelle corde che spesso sono sopite, quelle del cuore e dei buoni sentimenti, ma anche dell’indignazione, della rabbia che induce, senza mediazioni, alla lotta contro il potere.
Qualche spinta di troppo da parte del regista si nota chiaramente nell’immagine permanentemente edulcorata, centrata sulla storia d’amore, che a volte sconfina nello stucchevole. E che forse il regista avrebbe potuto limare. Un accento eccessivo forse nell’evidenziare i buoni sentimenti e la netta differenza fra il potente cinico e il debole fragile e succube. Sebbene la situazione sia destinata a ribaltarsi, ma per il maggior tempo della moviola trapela sentimentalismo a gogò, tamponato dall’originalità della trama e dai toni d’immagine e cromatici strabilianti, dovuti ad un’abile tecnologia per gli effetti speciali e da un ottimo direttore della fotografia che ha curato particolari e inquadrature ad hoc.
Un cast fra attori e operatori davvero vincente. Altra piccola nota di criticità sta nelle metafore, di cui è stracolma la storia, che risultano essere eccessivamente palesi e non lasciano spazio a riflessioni, tanto sono chiaramente intuibili. Criticità superate dal messaggio che Del Toro intende sicuramente inviare tramite il suo amato cinema. Nella sua pellicola “La forma dell’acqua”, ma anche in altre sue opere, prevalgono mostri buoni e creature deboli, ignorate nei loro diritti primari che, incontrandosi, accettando le loro diversità e unendosi nella lotta organizzata, riescono a ribaltare il sistema capitalista e filo governativo in una dimensione politica e sociale opprimente che non si discosta poi molto da quella in cui viviamo.
Scheda del film
Titolo: La forma dell’acqua – The Shape of Water
Genere: drammatico-fiabesco
Anno: 2017
Durata: 119 minuti
Regia: Guillermo Del Toro
Sceneggiatura: Guillermo Del Toro
Cast principale: Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer, Michael Stuhlbarg, Doug Jones, Lauren Lee Smith, Nick Searcy, David Hewlett: Fleming
Premi: 2 Golden Globe – 13 nomination e 4 Premi Oscar 2018, tra cui miglior film.